Transformers - L’ultimo cavaliere è il testamento di Michael Bay

Alessandro Di Romolo
The Shelter
Published in
5 min readJun 29, 2017

Pare sia impossibile avere un’idea su Michael Bay senza capire nulla di cinema. Non ne capisce nulla chi lo ritiene un genio capace di gestire una quantità abnorme di informazioni visive in un singolo frame, ma a sentire l’altra campana non ne capisce nulla nemmeno chi lo ritiene un mediocre che non conosce la grammatica del linguaggio cinematografico. La polarizzazione delle opinioni crea mostri; le provocazioni, unico mezzo espressivo conosciuto da certi fenomeni social, li alimentano, riducendo se non addirittura annullando ogni margine di discussione. Chi non ha alcun interesse a schierarsi può decidere di ignorare la questione e far finta che un tizio che ha generato entrate pari a circa 6 miliardi di dollari al botteghino semplicemente non esista, oppure può approfondire e cercare di capire perché Bay divida il pubblico in maniera così netta.

Non nego (né rinnego) di essermi lasciato sedurre in passato da uno dei fenomeni social di cui sopra (particolarmente avvezzo alla mistificazione della realtà) e di aver messo nero su bianco, anche su queste pagine, il mio disprezzo per l’autore di Armageddon. Non credo potrò mai entrare in completa sintonia con il suo stile, non credo scatterà mai quella scintilla che non è scattata nemmeno riguardando i più recenti prodotti della sua filmografia, dai quattro episodi di Transformers al bel 13 Hours, concedendo una seconda possibilità anche a Pain & Gain. Tuttavia, riconosco al suo pensiero una dignità e una personalità che è difficile individuare in mezzo all'immondizia informe nella quale gran parte della critica è solita relegare i suoi film. È un cinema maleducato e magniloquente, che non rispetta le regole e sacrifica forme narrative convenzionali in nome di un ideale estetico, che è quello del dinamismo a tutti i costi. È un cinema di movimento in cui i personaggi non sono mai statici e, quando lo sono, è lo sguardo del regista a muoversi attorno a loro e a infarcire l’inquadratura di elementi audiovisivi in moto. Elementi difficili da decodificare dall'occhio dell’essere umano medio, spesso troppo piccolo e troppo lento per gli standard di Bay. Un ideale perfettamente sintetizzato da una frase del nostro apparsa su un vecchio articolo del 2001 pubblicato sul New York Times.

Quello che ricordo di questo film [West Side Story] è che non devi necessariamente innamorarti dei personaggi o appassionarti alla storia d’amore. È più una questione di stile e di coreografie e di energia e di fantastica musica.”

Sospetto che la sintassi dell’ultima frase non sia casuale: Bay non si ferma nemmeno per mettere una virgola. Stile e coreografia ed energia e fantastica musica, in buona sostanza è tutto qui. È il suo credo ma è anche il suo più grosso limite, perché la negazione della staticità toglie respiro al racconto, specie quando fisiologicamente il film ha bisogno di fermarsi un attimo e far riflettere lo spettatore su quello che ha visto.
Ma siccome descrivere a parole qualcosa che andrebbe visto per essere compreso appieno diventa alla lunga noioso, vi consiglio di guardare il video che segue prima di parlarvi della sua ultima opera.

Every Frame a Painting è uno dei tanti canali YouTube in lingua inglese che offre contenuti di questo calibro. In Italia siamo fermi ai “consigli per gli acquisti”. Praticamente la preistoria del mezzo.

Sono uscito dalla sala frastornato, svuotato, esausto. La visione di Transformers - L’ultimo cavaliere è l’anello di congiunzione tra l’esperienza sedentaria del guardare un film e la prestazione sportiva. Centocinquanta minuti che volano via, ma ti lasciano spompato, ti violentano gli occhi e le orecchie e ti mandano fuori giri il cervello. La prima ora di film è interlocutoria: si va avanti un po’ a singhiozzo, tra brusche accelerate alternate a momenti più compassati e complicati (quanto necessari) spiegoni che pongono ordine all'enorme quantità di informazioni sparate a raffica. Come da tradizione, la natura ipertrofica del franchise impone l’introduzione di una tonnellata di nuovi personaggi e di un numero spropositato (anche per un film così lungo) di trame e sottotrame, che si intrecciano e si sovrappongono abbracciando un arco temporale di 1600 anni. Il quinto episodio della saga dei giocattoli Hasbro inizia dalla leggenda di Re Artù e finisce in un futuro distopico in cui la distruzione di Chicago e l’arrivo a intermittenza di nuovi Autobot e Decepticon ha inasprito la diffidenza nei confronti dei Transformers. La vicenda di Optimus Prime, tornato su Cybertron per incontrare i suoi creatori, s’intreccia con quella di Cade Yeager (Mark Wahlberg), divenuto un fuorilegge che offre asilo ai robot dopo gli eventi de L’età dell’estinzione, e di un misterioso personaggio interpretato da Anthony Hopkins, ultimo membro di un ordine che negli anni ha insabbiato la collaborazione di lunga data tra umani e organismi robotici alieni.

Sistemati i (tanti) pezzi sulla scacchiera, il film va su di giri e non scende più. In barba a ogni regola narrativa e a ogni convenzione sulla gestione del ritmo, Bay mette in scena una quantità fuori controllo di location, di spostamenti, di ribaltamenti di prospettiva e di colpi di scena, regalando un finale lungo quasi un’ora e mezza che fa sembrare l’ultima ora del terzo episodio una roba dimessa. È il suo testamento: un estenuante ma estremamente divertito tripudio di apocalisse e di effetti speciali, di combattimenti tra giganti di metallo, di inseguimenti, di pianeti che inglobano altri pianeti e di battaglie campali che vedono coinvolti draghi e demoni meccanici, eredi di Mago Merlino, militari, entità cosmiche e robot. Nulla a che vedere, insomma, con l’annoiato quarto episodio.

È confusionario, spesso dà l’impressione di essere un insieme di set piece tenuti insieme alla carlona da una sceneggiatura incongruente e inconcludente e la vena comica, elemento ricorrente della saga, è alimentata da un umorismo che funziona una volta si e due (ma anche tre) no.
Però mi sono divertito. Ho riso più di quanto avessi fatto nei quattro precedenti episodi messi insieme. Sono rimasto affascinato (a tratti) dalle manie di grandezza dell’autore e dal suo sguardo più largo delle possibilità fisiche del comune mortale, al punto che se guardi una porzione di schermo rischi di perderti quello che accade nel resto del fotogramma: guardarlo in IMAX deve essere un’esperienza soverchiante. Mi sono gasato per i discorsi pomposi di Optimus Prime e per l’eroismo un tanto al chilo dei Transformers; ho ammirato la capacità della produzione di far sembrare il film tre volte più costoso di quello che è costato in realtà e certe immagini mi rimarranno impresse sulla retina per diverso tempo. Continuo a preferire altre forme di narrazione — non necessariamente più raffinate e meno casiniste (per dire, preferisco la strada intrapresa da Fast & Furious) — e a trovare il cinema di Bay pieno di storture e di cose che non mi piacciono, ma trovo anche che sia ingeneroso gettarlo nella spazzatura: L’ultimo cavaliere è quanto di meglio possa offrire il franchise di Transformers, il pattume è decisamente altra cosa.

6,5

--

--