War of the Planet of the Apes è il blockbuster di cui abbiamo bisogno

Alessandro Di Romolo
The Shelter
Published in
4 min readJul 15, 2017

In un contesto produttivo, quello hollywoodiano dei blockbuster, in cui l’impiego di enormi risorse e i relativi costi impongono un cinema sempre più confortevole, rassicurante, sagomato addosso a un pubblico che premia le certezze offerte da franchise e universi condivisi dai quali sa esattamente cosa aspettarsi, la saga del reboot de Il pianeta delle scimmie rappresenta una felice eccezione. Perché sin dal primo episodio (L’alba del pianeta delle scimmie, traduzione approssimativa di Rise of the Planet of the Apes che ha generato non pochi problemi di localizzazione dei titoli successivi) si è presa dei rischi, non solo per quanto riguarda gli argomenti trattati ma anche da un punto di vista formale.

The War non fa eccezione, anzi, esaspera questa vocazione per il rischio e mostra un notevole coraggio nel perseguirla. Il coraggio di raccontare una storia di vendetta, che mescola dramma, western della frontiera e una potente allegoria dell’olocausto, attraverso un film praticamente muto, pieno di sottotitoli (notoriamente indigesti per il grande pubblico), che gioca con sguardi, silenzi, comunicazione non verbale e long take che indugiano su creature digitali, grandiose sia dal punto di vista tecnico che della scrittura. E ci vuole ancor più coraggio per prendersi tutto il tempo che serve e raccontarla con un ritmo dilatato e compassato, radicalmente diverso da quello del blockbuster medio, assumendosi il rischio (di nuovo) di dare la sensazione di non decollare mai. Percezione clamorosamente smentita da una pellicola semplicemente fenomenale, che costruisce lentamente per poi esplodere in un crescendo di emozioni e di potenza espressiva.

Sono passati diversi anni da quando Dreyfus (interpretato da Gary Oldman) ha inviato una richiesta d’aiuto all’insediamento di militari dell’esercito americano, informandoli della presenza di una comunità di scimmie intelligenti che ha preso il sopravvento sugli umani. È iniziata una guerra e Cesare è diventato una sorta di figura leggendaria: nascosto tra le sequoie del Muir Woods, il capo delle scimmie continua a respingere le sortite degli umani senza mai mostrarsi, fino a quando risparmia un gruppo di prigionieri rivelando la propria esistenza. Ritenendo di poter eliminare la minaccia dei primati uccidendo il loro leader, Il Colonnello (personaggio il cui nome proprio non viene mai rivelato al fine di esaltare la disumanizzazione degli uomini) ordina e partecipa attivamente all’esecuzione sommaria, commettendo un errore madornale che da il là a una caccia all’uomo venata di sete di vendetta.

Giocare con l’alternanza tra faccende personali e questioni di ben più ampio respiro è una caratteristica ormai nota di Matt Reeves sin dai tempi di Cloverfield e felicemente ribadita da Apes Revolution. In War tale tratto distintivo assume connotati ancor più marcati. Ai tanti, evidenti riferimenti ad Apocalypse Now e al cinema dell’olocausto, con tutto il carico di dramma che si portano sul groppone, Reeves affianca una dimensione più privata e intimista che fa quasi il verso, con le dovute proporzioni, a L’ultima tentazione di Cristo di Scorsese. Da sempre figura cristologica, il messia dei primati Cesare si trova a dover venire a patti con l’omicidio di Koba e, quindi, con l’essere venuto meno al principio su cui si fondava la sua utopia, ovvero che “scimmia non uccide scimmia”. A seguito dell’evento tragico che funge da motore dell’intera vicenda, Cesare intraprende un viaggio interiore (ed esteriore) che lo condurrà verso una presa di coscienza importante. Più che puntare tutto sul gioco di specchi tra uomo e animale, leitmotiv dell’episodio precedente, e sul conseguente messaggio green, War pone l’accento sulla corruzione dell’essere umano.

Tutti, giustamente, concentrano la propria attenzione sulla prova attoriale di Andy Serkis, ma Woody Harrelson in versione colonnello Kurtz ruba la scena durante un lungo monologo senza stacchi di ripresa che condensa e ribadisce il succo del film: la contrapposizione tra la purezza dei primati e la degenerazione morale dell’uomo, oberato tanto dalla luttuosa sensazione di aver fatto il suo tempo quanto dai residui corrotti delle sovrastrutture della nostra società. Un misto di scienza senza scrupoli, estremismo religioso, xenofobia e desiderio di sopraffare tanto il diverso quanto il più debole, calpestando tanto i legami di solidarietà che dovrebbero tenerci uniti in quanto appartenenti alla stessa specie quanto quelli privati, affettivi, familiari. War è la sfida morale e fisica tra chi sacrifica tutto per perseguire uno scopo volontariamente e chi, accecato dalla rabbia, lo fa involontariamente, mettendo a repentaglio la sopravvivenza del proprio sogno utopistico.

Infine, impossibile non menzionare Scimmia Cattiva. Forse il risultato più sorprendente di War è che riesce non solo a fare cinema d’intrattenimento in una maniera tutta sua, ma anche a battere il blockbuster medio moderno sul suo campo di battaglia: smorzare di tanto in tanto le atmosfere cupe ed estremamente violente con una vena comica inaspettata, sobria e mai invadente, incarnata da un personaggio tragicomico semplicemente geniale.

La trilogia de Il pianeta delle scimmie si conclude con un episodio grandioso, probabilmente il migliore dei tre. Un raro caso di saga in cui ogni iterazione è migliore di quella precedente. Il blockbuster di cui abbiamo bisogno.

9

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