Eccoli, gli italiani

Storia di un’epifania nemmeno tanto originale

Alessandro Pattume
The Snikt!
4 min readDec 21, 2016

--

L’altro giorno ho trovato un racconto di Gadda che andrebbe fatto leggere e rileggere in tutte le scuole per insegnare agli studenti quanto sia infinita la lingua italiana e quanto sia paccottiglia invece, paccottiglia e basta, una buona metà dei libri con cui nei prossimi giorni andremo a riempire chilometri di carta regalo cammellata color bosco.

Era domenica, e s’attendeva tutti l’esito del referendum con una trepidazione mista a fastidio e io, boccheggiante dopo un pranzo che aveva occupato quasi tutto il mio giorno di riposo, ho scovato “L’incendio” con quella facilità tipica di certi miracoli letterari, gli unici che contemplo, vorrei vedere! che ti vengono incontro mentre vaghi senza meta tra i tuoi libri.

Allora ho pensato che potevo pure mettermi a leggere due righe mentre aspettavo nell’ordine la camomilla ricostituente con cui avrei cenato di lì a mezz’ora, il risveglio del piccolo anticiclone del centro e l’abbrivio della caciara commentatoria su tutti i dispositivi possibili immaginabili, che diolifulmini.

“L’incendio” è quello di un condominio della periferia milanese e il portentoso occhio di Gadda, candido, erudito e feroce, morale e dell’iride forgiata nell’ironia, s’infila su per l’androne di questo palazzone come un visore a infrarossi per raccontare la sguaiata fuga dei suoi inquilini dalle fiamme e dal fumo.

Sono quadretti micidiali, pieni d’inventiva, neologismi e gesti e espressioni più vere del vero, e mentre ero lì che leggevo e sentivo l’acqua per la camomilla evaporare inesorabile, sui piedi del garzone ho quasi pianto. Poi ho alzato un attimo gli occhi al cielo, per davvero davvero, e nella trave di legno della mia soffitta m’è parso aprirsi uno spiraglio sulla complessità del mondo intorno, un varco senza tempo come solo certa letteratura è capace di aprire, e allora ho detto, tra me e me ma anche al fedele posacenere rosso, e ai cumuli di scatoloni reduci dal trasloco infinito e con un certo stupore anche alla sera, là fuori dalla finestra, “Eccoli, gli italiani”.

Il ciottolare delle ciabatte allora, e le vestaglie e le cannottiere, l’ululato delle sirene, il dialetto e le lingue di fuoco, le lettighe, il vino, i cassettoni, e con loro pure tovaglie e marciapiedi, tutto si è fatto più nitido. Sono sceso a spegnere quel che restava dell’acqua e ho allungato l’orecchio al risveglio nella camera buia.

“Eccoli, gli italiani”.

In tutta la loro cruda e stupefacente normalità, nei loro vizi piccoli e grandi, nelle loro ambizioni e nelle loro saltuarie e spontanee virtù. Eppure è solo la descrizione di un condominio in fiamme, mi sono detto, quasi un secolo fa. Queste sei paginette non dovrebbero avere niente a che fare con me oggi.

Ma mi è venuto un titolo.

10 tipi che puoi trovare in un condominio piccolo borghese a Milano nel 1935. [segue elenco puntato]

E ho capito.

La differenza è tutta qui. La differenza è come usi le parole per descrivere il mondo che ti circonda, le sue sfumature, i suoi registri, le innumerevoli forme dei suoi dettagli. Là fuori, le cose sono complesse. Sono complesse come lo sono sempre state e lo sforzo da fare per comprendere il tuo mondo oggi è lo stesso sforzo da secoli. Provare a osservare col massimo rigore possibile la realtà che ti circonda, quindi provare a interpretarlo con tutta l’onestà che ti appartiene e cercare, quando ti riesce, di chiamare le cose col loro vero nome.

L’educazione, l’esercizio e la consapevolezza della complessità è l’unico scudo naturale contro l’epoca della semplificazione dei processi, delle fake news, delle dietrologie e dei complottismi e pure del benedetto storytelling strumentale con cui veniamo bombardati tutti i giorni. È l’unico vero strumento in grado di mettere ordine in quello che vediamo e mettere a fuoco fino in fondo quello che sentiamo. Le cose sono difficili, là fuori. Le persone sono complicate e piene di sfumature. Come sempre, da sempre.

Mio figlio si è svegliato che ancora non avevo finito questo ragionamento. Infatti l’ho finito ora, dopo quattro giorni. Però ho cominciato a raccontargli di questo grande palazzo pieno di italiani in una grande città lontana. Del fumo e della paura, delle fiamme e della gente che si radunava a distanza per assistere al palazzo che bruciava. Gli ho raccontato dell’arrivo dei pompieri. Allora, molto serio, mi ha chiesto che tipo di camion avessero e quanto fosse lunga la scala che si portavano appresso.

L’ho guardato un attimo, dimentico di avere a che fare con un esperto, poi ho risposto che non lo sapevo. Allora, da buon padre ignorante che vuol cancellare il prima possibile e quello sguardo inquisitorio e vagamente deluso, ho fatto quello che si fa in questi casi: una ricerca.

E’ così che abbiamo scoperto insieme i primi mezzi utilizzati dai vigili del fuoco. E dopo una certa discussione su quale fosse il più bello e dopo avergli spiegato perché non fossero tutti rossi, ho convenuto tra me e me che per il momento poteva bastare fermarsi ai vigili del fuoco e rimandare il racconto e la teoria dell’incendio ad un‘altra epoca.

“L’incendio di via Keplero” si trova facilmente anche online ma trovatevelo da soli, se vi va. Troppo facile un link, direbbe Gadda.

Per iscriversi a Snikt!, la mia newsletter personale, basta andare qui.

--

--

Alessandro Pattume
The Snikt!

Ho scritto 12 anni su un giornale, poi mi sono ricordato di quello che diceva mio nonno. Giornalista freelance, babbo, co-founder di www.pratosfera.com