Traslochi

Alessandro Pattume
The Snikt!
Published in
4 min readApr 22, 2017

Nel mese di febbraio del 2017 ci hanno sfrattato dall’ufficio. Le dinamiche rientrano in quelle comiche da terza media che ti strappano un sorriso lasciando intatta la delusione, quando ci ripensi vent’anni dopo. Ma non starò qui a raccontarle.

Allora è cominciato un mese un po’ folle al termine del quale siamo riusciti a portare a termine il quarto trasloco in quattro anni. Abbiamo spostato i nostri pochi scatoloni e ci siamo rimessi a sedere. Abbiamo due pareti verdi adesso, e un sacco di spazio da riempire con calma.

Solo che sono un tipo che si affeziona. Ai luoghi e alle persone di quei luoghi. E questa fuga coatta è stata un po’ troppo veloce, un po’ troppo brusca per uno che in ogni posto lascia un pezzetto, giganteschi gomitoli di ragionamenti, piccole idee e piccole abitudini irripetibili.

Così ho deciso di non lasciarle consumare dal tempo e dalle novità e di provare a infilarle in qualche scatolone. Perché poi alla fine sono storie e facce di una città e dei suoi abitanti.

Scatolone delle confessioni
C’è di mezzo la primavera e la posizione della mia scrivania, rivolta verso l’ingresso della redazione che a sua volta guardava dritta dritta la vetrina di un negozio.

Ecco. Quella vetrina è stata un tormento costante, tutti i giorni per decine di mesi. Cosce, seni e sederi di ogni foggia e misura, fermi o chini sulle scarpe in vetrina.

Un tormento capace di tenere la mia produttività vicino allo zero per giornate intere e di portare i miei occhi alle lacrime per lo sforzo prodotto dal recupero della concentrazione.

Mesi di refusi, tacchi, mezze frasi e shorts. Gonnelline, tanga e ohhh. Un caledoscopio di chiome e trasparenze volteggianti che s’insinuavano dalla porta sempre aperta e arrivavano a donarmi un irreale senso di felicità. E un dettagliato, paradisiaco quadro del mondo femminile intorno.

Grazie. A un uomo basta davvero il profilo di una donna per sentirsi subito meglio.

Scatolone delle visioni
Dalla calca del passeggio pomeridiano si sgancia un tizio con una tshirt bianca e le braccia che non riescono a stare ferme. Mi saluta sull’uscio, poi entra, tira fuori lo smarphone e senza dire una parola lo collega alla presa elettrica. Io sto scrivendo un pezzo imprecisato. Lo guardo mentre si mette a sedere sul divanetto ma non dico niente. Lui si agita sul divanetto. Guarda fuori, guarda me, cambia posizione, si torce le mani, si passa una mano tra i capelli. C’è uno strano silenzio. Ogni tanto tira su col naso e si fissa a guardarmi. Sorrido e mi rimetto a scrivere. Sta sudando nonostante l’aria condizionata.

Comincia a tirare su col naso. Poi mi chiede un po’ d’acqua.
Allora mi alzo, prendo un bicchiere, lo riempio e glielo porto. Fa un cenno di assenso per ringraziarmi.
Mi chiede cosa faccio lì, dietro la scrivania.
Gli rispondo che sto scrivendo. Lui si volta dall’altra parte e riprendere a tirar su col naso.

Quaranta minuti dopo un tizio passa davanti all’ingresso e gli fa un cenno. Quello stacca tutto, mi fa un cenno e se ne va barcollando.

Scatolone delle inadeguatezze
È appena uscito di prigione e non sa come funziona questo smartphone. 45 anni, l’accento pesante dell’isola in cui è nato, lo sguardo perso di chi non sa dove chiedere aiuto. Così lo chiede a me, un tizio che fuma piegato sul pc dentro una stanza tutta bianca sulla strada.

Le notifiche di Facebook si tolgono così. Non voglio soldi e nemmeno regali, no. Ciao. Ciao.

Dopo una settimana eccolo di nuovo. Non riesce a inviare una foto con whatsapp. Si fa così, guarda. Una volta facevo i video, dice, ma poi mi hanno rubato tutto. Certo.

Rieccolo, una delle tante volte che si ferma passando davanti l’ufficio. Sono stato in Abruzzo a scaricare camion. Bene. Spiegami un po’ perché non mi fischia più.

Devo fare un regalo alla mia donna, dove lo trovo un cappellino?

Non ne ho la più pallida idea.

Senti, ti interessano delle penne d’argento? No, e non venire più per queste cose. Non t’incazzare, ho capito.

Senti, ci ho provato da solo ma non ho capito: cosa sono queste ‘storie’ che mi sono apparse? Che devo fare?

Nulla. Non fare nulla, amico.

Scatolone del dolore
Faccia di pietra è un uomo distrutto, talmente distrutto che ha appena la forza di bussare alla porta e di guardarmi implorante. Apro la porta e con lui entra un gelo che mi coglie di sorpresa. Basso e tarchiato, dimostra sessant’anni. Ha gli occhi grigi e si muove lento, come se ogni passo gli costasse una fatica immane o le sue braccia fossero di piombo. Chiede se abbiamo bisogno di qualcuno che faccia le fotocopie. Gli rispondo che no, mi dispiace, non abbiamo bisogno, a malapena abbiamo una stampante.

La sua storia è una delle tante in cui uno si imbatte a Prato. Ha perso il lavoro da poco, la moglie casalinga, il figlio lontano. Cammina. Bussa alle porte e chiede un lavoro. Ha chiesto a tutti, dice, in centro storico. Per mangiare va alla mensa dei poveri, il resto del giorno cammina e cerca lavoro. Poi chiede cosa ci faccio seduto a questa scrivania e mi verrebbe da rispondergli che mi aggrappo all’unica cosa che mi manda avanti un poco. Dev’essere difficile anche per te, dice Faccia di Pietra. Sì, è difficile, rispondo. È difficile per tutti, ognuno a modo suo, sì, lo capisco, dice. Ci guardiamo un momento. Poi mi stringe la mano e se ne va.

Scatolone degli affetti
È entrata dalla porta nel mese settembre. Due occhi grandi e un caschetto nero a incorniciare le gote morbide e rosse. 90 centimetri di curiosità.

Il caso ha voluto che avessimo delle caramelle gommose. Le sono piaciute.

Il giorno dopo è tornata. Il giorno dopo ancora pure.

Ha cominciato a bussare alla porta d’inverno e a fiondarsi dentro l’ufficio d’estate tutte le volte che scendeva la strada. Le caramelle erano finite da un pezzo.

Salutava, ci raccontava qualcosa che non riuscivamo a capire fino in fondo o giocava venti secondi con le nostre scrivanie. Poi scappava via.

Di tutte le cose sei la più bella, bambina senza nome. Mi mancherà questo affetto a distanza, questa complicità silenziosa racchiusa nell’attimo di un sorriso. Ci hanno mandato via. Sorridi.

Inviato il 13 aprile 2017 via Snikt!

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Alessandro Pattume
Alessandro Pattume

Written by Alessandro Pattume

Ho scritto 12 anni su un giornale, poi mi sono ricordato di quello che diceva mio nonno. Giornalista freelance, babbo, co-founder di www.pratosfera.com