È quasi allegria

Ilaria Vitali
The Travelogue
Published in
5 min readAug 10, 2017

Candolim, Goa, India 2017

Tahita aveva gli occhi simili a spilli, neri come la pece, e un sorriso bianco che non temeva di mostrare a dispetto dei suoi vestiti sempre uguali e delle sue mani stanche di sole e di salsedine.

Ci veniva a salutare ogni sera, al tramonto, quando sulla spiaggia di Candolim si alzava la brezza del mare e si accendevano, qua e là, fuochi improvvisati che rischiaravano l’oscurità con faville fugaci, lingue che fuggivano verso il cielo costringendo lo sguardo sulla vastità che spaventa e insieme incanta.

Tahita si sedeva sulla sabbia ancora calda, offriva un massaggio per poche rupie e a ogni diniego, mantenendo quel sorriso, augurava la buona sera, si attardava ancora per un ultimo scambio di parole e poi se ne andava ciondolando la testa.

Non era della vecchia generazione, avrà avuto sì e no 20 anni, molti dei quali passati in mezzo al turismo bizzarro degli occidentali e alle loro altezzose scortesie.

Ma il rancore sembrava non gli appartenesse e i suoi modi trasportavano dolcezza, quella incomprensibile soavità dell’animo che più volte strideva con la crudezza di una vita priva di illusioni.

Senza illusioni e speranze doveva essere anche la vita di Sunetra, china sul molo già alle prime luci dell’alba, avvolta dalla foschia mattutina come se fosse fatta di quella stessa sostanza che permeava le cose rendendole immateriali.

Rammendava con sapienza di gesti le reti dei pescatori, involucri raggomitolati dove qua e là rimanevano imprigionati fazzoletti di alghe ormai secche; vi passava la mano sbriciolandole e controllava ogni trama con velocità.

Il banchetto alla sua destra esponeva braccioli colorati per i bambini, cappellini sbiaditi dal sole, qualche boccaglio ancora avvolto in una plastica polverosa e una fila di bustine colme di semi colorati da mangiare dopo un pasto molto speziato.

Sunetra teneva lo sguardo chino ma bastava avvicinarsi alla sua mercanzia misera, come masticata, per vedere interamente il suo volto segnato da rughe profonde aprirsi in un sorriso senza denti.

Mi sono vergognata un poco chiedendole qualcosa che non era su quel tavolo improvvisato, un cartellone pubblicitario arrugginito dove la inequivocabile C di Coca Cola pareva una mezza luna di sangue rappreso.

«Vorrei un filo da pesca…»

Ridendo la voce si fece strada come un suono proveniente da una profonda caverna.

Scosse la testa, ciondolandola come di consueto e chinandosi ancora di più sul gomitolo di reti ai suoi piedi, da dove fece apparire un quarto di noce di cocco essiccato.

Prese un filo da pesca, avvolse un’estremità alla losanga facendo un nodo stretto e mise il bizzarro oggetto sul cartellone pubblicitario, fissandomi soddisfatta.

«Questo va bene? È con questo che posso pescare?»

Ciondolò di nuovo la testa di ricci neri dove qua e là sbucavano serpenti attorcigliati di capelli grigi e mimò, alzandosi, il lancio dell’amo nel vuoto.

Mi convinse, o mi piacque credere che avrebbe funzionato, non senza un’esca allettante.

Così, da sotto lo sgabello di plastica, prese una busta trasparente, affondò la mano nella poltiglia grigia e mi diede un paio di pesciolini puzzolenti.

L’esca.

«Perfetto, grazie. Quanto per questo?»

Mi mandò via con un gesto della mano, ciondolando ancora la testa e ridendo tra colpi di tosse e poche frasi incomprensibili.

La via verso casa passava per campi arsi al confine con la spiaggia, un limbo fatto di terra rossa e sabbia dove alcuni maiali selvatici grufolavano tra i resti di qualche pasto abbandonato dai turisti.

L’anziano seduto all’ombra di una gracile pianta sembrava avesse raccolto con pazienza le sue scarne gambe accavallandole, lasciandone penzolare una come dotata di vita propria.

Gli si potevano contare tutte le ossa, esposte da una vita a chissà quanti anni di stenti e fatica.

I pochi capelli grigi pettinati all’indietro lasciavano il volto aperto su due occhi sottili, chiusi dalla luce e dal tempo.

Se ne stava tutto il giorno a vedere passare le ore, scandite dal passaggio di maiali e persone e dal tragitto che il sole faceva prima di tuffarsi e spegnersi dietro la linea dell’orizzonte del mare.

Salutava, con un cenno contratto della testa e il sorriso che non lo abbandonava mai, una bizzarra espressione divertita che faceva quasi invidia.

Ad attendermi nel piccolo hotel datato ma dignitoso, trovavo sempre la rude proprietaria indaffarata dietro la sua scrivania a fare conti, scrivere lunghe lettere e osservare chi entrava e chi usciva, da sopra bizzarri occhiali in osso tenuti insieme dallo scotch.

«Ma’am!»

Quel giorno chiamò proprio me. Mi fermai quasi tremando, lei era imperiosa, l’avevo già vista nel buio cacciare inglesi ubriachi e molesti con la grinta di un leone, mentre il suo guardia spalle impaurito si nascondeva dietro alla sua gracile schiena con lo sguardo basso.

Inspiegabilmente mi sorrise porgendomi una chiave agganciata a una tartaruga di plastica con il guscio liso.

Si alzò dalla scrivania, io le cedetti il passo, salimmo le scale che già profumavano di fiori fino al ballatoio che si affacciava sul cortile interno.

Si fermò davanti a una porta dove una mano maldestra aveva trascinato le lettere che formano la parola, improbabile, di “suite”.

Poiché eravamo rimasti oltre i giorni prenotati, disse con indifferenza malcelata, meritavamo un up grade, la stanza più bella, quella con il salotto e i divani di velluto sbiadito, la grande televisione che trasmette a intermittenza solo canali indiani e il balcone sul giardino, da dove si vede il mare, poco più avanti.

«No money. It’s a courtesy»

Non lasciò spazio a repliche, ci trasferimmo nella reggia e allungammo ancora il nostro soggiorno a Candolim, con allegria.

… in questa tragedia, resta nei nostri animi qualcosa che se non è allegria, è quasi allegria: è tenerezza, è umiltà verso il mondo, è amore…

Pier Paolo Pasolini — L’odore dell’India

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