Le parole della rivoluzione

Manuela Iannetti
The Travelogue
Published in
4 min readJun 19, 2017

Cuba 2011

Il rientro a Trinidad passa attraverso i canneti della peninsula. Il cielo si è rannuvolato, la stagione si prepara a mutare il clima in pioggia e noi assistiamo alle prove generali. Nello specchietto retrovisore i raggi illuminano ancora la baia e le case sul ciglio della strada. Ripercorriamo a ritroso i sedici chilometri, l’Oro Negro, il Partido, la polvere, l’asfalto, il palo con il cartello davanti al 113 di Simón Bolívar. Due giorni nello stesso luogo ed è già casa.

La seconda serata coloniale si apre sul tetto di Casa Cantero che ci offre, oltre le tegole di cotto rosso e l’ardesia, i giallo-bruni del tramonto tra le nuvole. La scala di legno per scendere nel patio attraversa quasi in verticale i due piani del palazzo, passato nell’arco di un cinquantennio nella mani di due famiglie, Borrell e Kanter. L’edificio segna in parallelo la storia coloniale del luogo, fatta di piantagioni di zucchero, espropriazione di terre, veleni, mercanti di schiavi, matrimoni, eredità. Al pian terreno, intorno al patio, si aprono le stanze del Museo Histórico Municipal, arredato con la ricchezza depredata dal latifondista tedesco che dà ancora oggi il nome alla casa.

Quando scendiamo, le prime ombre della sera si allungano sulle palme di Plaza Mayor. Tentiamo la sorte e il buio e ci inerpichiamo verso l’Ermida de Nuestra Señora de la Candelaria de la Popa, su un altura a nord dell’abitato. L’accesso è tortuoso e svicola tra paladar, i ristoranti casalinghi autorizzati, e case private, tra buchi e fango. Presto i miei sandali diventano inessenziali, e la polvere rende vano il tentativo di arginare il danno. Mi viene voglia di toglierli, se non fosse per le pietre aguzze che ogni tanto rompono il selciato. Incontriamo un gruppo di case sparute, e crocicchi di persone.

Dopo qualche metro, diventiamo tre e mezzo. A farci da apripista c’è Soledad, nove anni smilzi dentro una divisa colorata e una tracolla fuori misura, che scuote le treccine nere come gli occhi mentre ci interroga su tutto, curiosa.

Non sono solo i sandali a rompersi, lungo la salita. Nello spazio di qualche minuto la nostra sicurezza emancipata si infrange contro una manciata di domande alte poco più di un metro. In mezzo chilometro, Soledad spazza via il senso del nostro girovagare. Mentre salta da un sasso all’altro ci dice che sì, certo, anche lei sa ballare, e ci interroga sui figli che non abbiamo, sui mariti assenti, sui lavori che non capisce, sul tempo che non c’è. La normalità occidentale non la convince molto, mi sa che siete malate, dice, con la bocca piena delle caramelle della morecita. Ogni passo una domanda e un saluto a chi passa, ché tutti qui si conoscono, fuori dall’abitato storico e in mezzo alle case che sono uguali.

L’ex Hospital Militar, allestito a fianco dell’antica sacrestia, appare spettrale in cime all’altura, negli ultimi istanti di luce del giorno. La sua facciata disadorna e caduca domina la precarietà di ciò che resta. A lato dell’edificio c’è l’acquedotto, oltre il quale la strada, ormai completamente sterrata, si ricongiunge con il sentiero che passa da sotto le case, e che porta alla Cueva, la caverna con l’albero conficcato nelle sue profondità, da cui fuorisce musica tutta la notte. Soledad vorrebbe portarci, ma sta facendo buio, e coscienziosamente fa decidere noi. «Non se ne parla nemmeno» dico io.

Saltando qui e là Soledad ci riaccompagna verso la plaza. Accanto al viottolo, a metà del nostro itinerario, si aprono i cortili, regalandoci al passaggio la visione di dondoli e lampadari di altri secoli. Fuori, nel rettangolo disegnato da tre case e il muretto della via, un gruppo di ragazzi gioca a pallavolo, dove campo, palla e rete sono improvvisate.

Tanti anni fa in Giappone, davanti a una diversità culturale davvero profonda, ammisi con me stessa, quasi come un fallimento, che forse i valori possono non essere universali. A Cuba, questa sera, scopro invece che il gioco è un linguaggio che tutti possono parlare, insegnare, imparare.

Li invidio.

Se non avessi quasi distrutto scarpe e piedi, mi unirei a loro.

The Travelogue è una rivista on line curata da scrittori che viaggiano, alla ricerca di spunti, suggestioni, emozioni da trasformare in storie. Il viaggio per noi è una fonte di ispirazione, uno strumento per allargare i confini delle nostre vite, una scusa buona per inventare una nuova storia. La scrittura per noi è una necessità.

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