NELL’IMMENSO, INGANNEVOLE VUOTO

Manuela Bonfanti Bozzini
The Travelogue
Published in
6 min readSep 27, 2018

Namibia, 2018

Tra l’inizio e la fine, lunghe ore di viaggio. Tempo interminabile per riflettere ammirando l’opera della natura. È una natura generosa, quella africana, mai parca di dettagli da scovare, impercettibili nell’immensità dello spettacolo che offre.

Dal Sud al Nord, dall’Est all’Ovest, un deserto sconfinato. Erba di savana, colline che si stagliano contro un orizzonte così lontano da parere irraggiungibile. Silenzio. Vento che sferza. A romperlo solo il clangore dei piatti e delle posate che portiamo con noi tra le aree di campeggio — oasi remote, collegate da strade dissestate, piste di sassi o asfalto ormai irriconoscibile dall’usura e costantemente ricoperto da strati di ghiaia. Tra nuvole e polvere sollevata dai rari veicoli incrociati, l’impressione è quella di un luogo in cui non c’è anima viva. Ma certamente la vita esiste, ben al di là della nostra vista, nascosta tra i cespugli. Così lo sguardo si perde alla ricerca di capanne o altri segni inequivocabili: scappa, corre a perdifiato, giunge fino in fondo, verso un confine tra cielo e terra che valuto in diversi chilometri. E prima di tornare si sofferma laggiù, esausto.

Esausto e incredulo.

Da Maltahöhe, la lunga pista verso il deserto del Namib

Complice la scarsità di popolazione — poco più di due milioni — e l’immensità del territorio, la densità di popolazione della Namibia è bassissima, circa 3 abitanti per km2. Si incrocia gente solo nei punti di sosta, gruppuscoli di case dal tetto di latta che abbracciano una stazione di benzina, una chiesa, un negozietto o poco più. Sono agglomerazioni ridotte all’osso, che gradirebbero qualificarsi di città e, forse, qui lo sono. Ai nostri occhi sono abbozzi, tentativi di definirsi villaggi, solo mura e insegne prive di fascino. Vita disadorna che evoca povertà.

Khorixas

Di tappa in tappa si giunge nel deserto del Namib, dune color ruggine a perdita d’occhio. Sono le più alte del mondo, superano persino alcune catene collinose. Sono dune da risalire pazientemente, come piccole formiche, fino a raggiungere la più alta per poi lanciarsi giù e consumare due ore di ascesa in pochi minuti, respirando l’immensità mentre il vento soffia, implacabile, sollevando sabbia rossa.

Sossuvlei: formiche umane scalano le dune

Uscire dalla zona desertica richiede ore di paziente guida tra polvere e sobbalzi. Una sola sosta, Solitaire, che merita il suo nome: carcasse d’auto, un lodge con campeggio, un bar e un piccolo museo. Paesaggio lunare, brullo, desolato, che invita all’ascetismo. Strade sconquassate scuotono la carrozzeria, il rumore come sola compagnia. È un viaggio sfibrante che pare terminare sulla costa, dove il deserto precipita nel mare. Ocra, marrone e rosso si tuffano nell’Atlantico e ne vengono inghiottiti. Finalmente il blu, cielo e mare solcati da pellicani bianchi e fenicotteri rosa. Walvis Bay non è che un porticciolo colorato dal quale salpano regolarmente i catamarani verso Pelican Point, una lingua di sabbia adagiata sul mare, punteggiata da cormorani e otarie che astuti sciacalli insidiano in cerca di cibo. Sulla costa che conduce alla Skeleton Coast, colonie di otarie e onde di spuma bianca. Poi, d’improvviso, il deserto scompare e lascia spazio a un paesaggio diverso ma sempre lunare, dove erba e arbusti cedono sotto le lame del sole, stagliandosi contro un cielo color zaffiro, quasi sempre terso nell’inverno australe.

Calma piatta.

Addentrarsi nel Damaraland è imbattersi in decori da film. Trecentosessanta gradi di nulla color giallo fieno torturato dal sole, o verde scuro di cespugli spinosi. Dopo l’ocra e il rosso della sabbia del deserto, la monotonia cromatica si attesta su questi toni, in attesa del bianco dell’Etosha Pan. Cadaveri di pneumatici a cui nessuno ha dato degna sepoltura, abbandonati sul ciglio della strada come i cani il mese di agosto, avvertono sullo stato delle piste da conquistare con lentezza e attenzione.

Poi la svolta. L’ingresso a Etosha, il “grande luogo bianco di acqua prosciugata”, sconvolge la vista. D’un tratto termina l’assenza, sostituita dall’abbondanza. Un formicolio incessante di animali taglia strade e orizzonti inverosimilmente vasti. Nel Fisher’s Pan, addirittura un miraggio: sarà acqua? No, laggiù ancora una volta non c’è nulla a ostacolare la vista. Questo è, con le parole del grande autore sudafricano André Brink ne La polvere dei sogni, “il paesaggio di Ouma Kristina. Questa distesa, questa austera bellezza, questo vuoto ingannevole. Il mio sguardo si perde nel nulla; e il nulla mi guarda a sua volta.”

Il parco Etosha: classico ma sempre sorprendente

Sì, certo: talvolta l’orizzonte è arrestato da una modesta catena montuosa senza ambizioni di grandezza. Come il Waterberg, splendido nel gioco cromatico delle sue rocce, grandioso per la sua vetta piatta da cui si ammirano gli interminabili rettilinei che si percorrono pazientemente dal basso. È questo il fascino della Namibia. La sua ricchezza è concentrata nella natura, imponente e selvaggia. E sconfinata. Mi scappa una risata di stupore e incredulità, di fronte a tanta immensità. Nel “vuoto ingannevole”, nel nulla apparente c’è la vita. Alloggia nei minuscoli villaggi popolati di neri, nelle fattorie commerciali appartenenti ai pochi bianchi. Con un punto comune: uno scoraggiante tempo di spostamento, per raggiungere altre persone.

Dalla cima del Waterberg, il senso della parola “interminabile” diventa lampante

Quali scambi esistono tra la già scarsa popolazione, al di fuori dei villaggi agli incroci fra strade e piste carrozzabili? Torna ad imporsi l’assenza. Le etnie sono accampate su territori precisi: Himba, Damara, !Khun, Herero e altre ancora. I bianchi sono invisibili, probabilmente acquartierati nelle fattorie. E allora, forse, le distanze sono soltanto un pretesto, data la storia di questa parte del mondo. Eppure la geografia c’entra, e la distanza si misura in termini di ore, più che in frontiere fisiche vere e proprie.

Perché l’assenza di confini è manifesta. Gli orizzonti sono lontani, raramente turbati da altro che la linea netta che separa cielo e terra. La sensazione di libertà è precisa e pungente.

La libertà. Promessa di un’Africa selvaggia e incontaminata. Un sogno, un anelito.

D’improvviso mi chiedo quanta libertà esista, in un luogo senza confini. In un paese dall’orizzonte così lontano da non scorgere ostacoli da superare.

Per non giungere ad affrettate conclusioni, ripenso al “vuoto ingannevole”. Sbriglio lo sguardo oltre la terra, oltre gli spazi concreti, oltre la natura pur così manifesta e irrefutabile.

E lì trovo i confini.

The Travelogue è una rivista on line curata da scrittori e scrittrici che viaggiano, alla ricerca di spunti, suggestioni, emozioni da trasformare in storie. Il viaggio per noi è una fonte di ispirazione, uno strumento per allargare i confini delle nostre vite, una scusa buona per inventare una nuova storia. La scrittura per noi è una necessità.

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Manuela Bonfanti Bozzini
The Travelogue

scrittrice e esploratrice — autrice di Ladra di memorie, Punti e interrogativi, La lettera G, Ladakh&Rupshu e blog Voci dal silenzio. FB manuelabonfantiautrice