Un po’ come la vita

Ilaria Vitali
The Travelogue
Published in
3 min readJun 19, 2017

India 2007

Il Muddhara Express ci accoglie senza pretese, con sedili di legno e cuccette di dimensioni così ridotte che a stento si riesce a respirare.

Ma un viaggio in treno in India il respiro lo toglie molto prima, quando aspetti impaziente sulla banchina di una stazione dai colori sbiaditi e dall’atmosfera surreale.

Salendo ci viene consegnata una grande busta di carta marrone con raffigurata una donna a mani giunte e capo reclinato; contiene un cuscino e un lenzuolo perfettamente puliti e dal profumo nostalgico del bucato fatto in casa.

Il rollio del treno è dolce e fuori dal finestrino c’è la notte buia della campagna, che attraversiamo su questa arteria pulsante che è il binario su cui ciondola, con lentezza, il nostro vagone.

Uomini seduti sui binari ad aspettare il mattino, marciapiedi consumati e deserti, sovrappassi animati da presenze leggere nel sole che sorge, pastori di caprette gracili e variopinte che si stagliano nel verde sconfinato, bambini che ridono trasportati su un carretto agganciato alla bicicletta di papà, sono elementi di un quadro dalla semplicità disarmante che annulla ogni contatto con la realtà, immergendoci in un mondo parallelo che pare fatto solo di sogno.

L’arrivo a Varanasi è caotico, come solo l’India può essere, ma superando il vortice polveroso della stazione, ci si accorge ben presto che qui il brulicare di persone e mucche sono solo il sottofondo di una musica più elevata.

Il sacro che si respira sul Gange, scendendo con rallentata meraviglia i ghat consumati e osservando le abluzioni con occhi che guardano oltre, fa salire intimoriti sulla barca per attraversare acque in cui vita e morte da sempre si mescolano quasi a confondersi, per respirare odori forti, carichi di storie che non sapremo mai immaginare.

Varanasi è l’inizio della speranza e la fine di tutte le illusioni.

Sull’imbrunire, in distanza, arriva il canto spezzato del muezzin e noi passeggiamo respirando a pieni polmoni l’odore intenso della vegetazione misto a incenso, spezie e polvere, lasciandoci alle spalle il brusio di un nugolo di persone sedute ad ascoltare la nenia ipnotica di un sitar.

Pochi passi e raggiungiamo un luogo isolato dove, a pochi metri da noi, per terra, inerme ma bello nelle sue piccole vele rosse, giace un aquilone.

La magia ha inizio, tu sollevi con grazia quel piccolo uccello di carta che pare ferito, corri divertito come un bambino trascinandolo per la sottile corda bianca e, a ogni sobbalzo verso il cielo come se stesse riprendendo vita, i tuoi occhi sono bottoni lucenti e preziosi.

Si avvicina un ragazzo indiano, magro nei vestiti che gli ciondolano sui fianchi.

Ti sfila l’aquilone di mano con un sorriso, ti mostra come farlo volare in alto di nuovo, cogliendo qualche invisibile refolo di vento che lui pare sentire nel momento esatto in cui arriva.

L’aquilone diventa presto un punto nel crepuscolo che avanza, riconoscibile solo dal sottile legame di corda che lo trattiene.

Scende, soffermandosi di tanto in tanto a mezz’aria, come se non ne avesse avuto a sufficienza di quel volo al tramonto, e il ragazzo, soddisfatto, te lo riconsegna con orgoglio.

Ti guarda parlandoti una lingua sconosciuta, ridendo forse di noi, poi gira le spalle una frazione di secondo prima dei suoi vestiti e si allontana nel buio, scomparendo in silenzio.

Non è facile far volare un aquilone, bisogna saperlo maneggiare con cura e fermezza, senza dimenticare mai di sorridere.

Un po’ come la vita.

The Travelogue è una rivista on line curata da scrittori che viaggiano, alla ricerca di spunti, suggestioni, emozioni da trasformare in storie. Il viaggio per noi è una fonte di ispirazione, uno strumento per allargare i confini delle nostre vite, una scusa buona per inventare una nuova storia. La scrittura per noi è una necessità.

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