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Ottavia Guidarini
This brave new world
7 min readJun 5, 2020

Le cose cambiano rapidamente, anche quando il tempo sembra non passare mai. Fino a qualche settimana fa, il terrore regnava ancora sovrano. Era impensabile camminare per strada senza doversi giustificare con una pattuglia, soprattutto se eri donna, soprattutto se abitavi in un paesino di circa seimila abitanti.

Sta di fatto che le cose accadono, davvero, dall’oggi al domani, già in condizioni normali. Figuriamoci dopo una quarantena. Ogni decreto ha la sua postilla, la sua eccezione alla regola, la sua cazzata incomprensibile. Ogni aggiornamento è come quelli che rilascia la Suite Adobe in continuazione. Camuffata sotto la dicitura fixing bugs c’è solo la volontà di farci pagare quell’abbonamento, che altrimenti aggireremmo con qualche download illegale trovato sotto i tutorial Youtube. È cambiata la concezione di congiunto, di affetto stabile e persino quella di attività motoria, ma in sostanza è sempre tutto uguale. Restiamo a casa il più possibile.

La birretta del venerdì sera e l’aperitivo post giornata-pesantissima-che-non-hai-idea esistono ancora. Certo, travestiti da videocall e meet su Zoom, ma continuano ad essere indispensabili per la nostra salute mentale. Chiunque abbia studiato un po’ di filosofia for dummies ha ben in mente la tesi di Aristotele, che è dal IV secolo a.C. che sostiene che l’uomo sia un animale sociale (politikòn zôon, per i più avvezzi). L’isolamento sociale avrà anche fatto bene a tutti quelli che prima cercavano ogni scusa pur di tirare un bidone agli amici, perché a casa si sta bene, quando si può scegliere di non starci. Ma a tutti gli altri? O a quelli che, invece, questa quarantena l’hanno passata in completa solitudine, a cercare di specializzarsi in logopedia per muri?

Al liceo non ero molto d’accordo con Aristotele

Credo che, ad alcune di queste persone, nemmeno sia mai interessata la birra. Chi se ne frega del museo della Guinness di Dublino, dell’acqua che usano e della tostatura del malto. Chi se ne frega della marca della bionda che hanno alla spina. Ma chi se ne frega dell’alcol in generale. Sarebbe bastato un caffè, l’importante era vedere altra gente. Sfogare qualche frustrazione, o raccontarsi le ultime.

La birretta è da sempre simbolo di comunità. Non sarebbe lo stesso se parlassi di uno spritz o di un bicchiere di vino, perché la birretta, in senso lato, è tipo Ceres Italia sui suoi social media. È un’amica, una certezza, un punto fermo. È quella cosa che mette d’accordo tutti, è il luogo stesso del ritrovo, è tutti quei racconti di cui sopra. Certo, esistono i cultori del luppolo e gli esperti in birra artigianale, ma in senso più ampio, è quel vezzeggiativo che cambia tutto.

La birretta, per antonomasia, significa:

mi mancate, amici. Ci vediamo?

E poi c’è da dire che la birra è facile. Prima uscita con *l* tip* con cui ti senti da mesi, non sai che cosa bere per non passare per l’alcolizzat* che sei: prendi una birretta. Sei indecis*, il menu è contorto e pieno di nomi strani e non sei sicur* che l’abbinamento vodka e fave di cacao dell’Ecuador ti convinca. Soluzione? Birretta. Non hai voglia di uscire dal locale barcollando, ma la Coca Zero è il biglietto di sola andata per Sfigalandia? Birretta e non se ne parla più. È il giusto compromesso per tutto.

Poco più di una settimana fa, in un paesino dell’entroterra ligure, i soliti sette amici d’infanzia si ritrovavano in piazza per vedersi un po’. Distanza di sicurezza, mascherine e clima perfetto per sedersi a terra e chiacchierare. È accaduto, per caso, che l’alimentari del paese fosse aperto. Altrettanto casuale l’ingresso, avvenuto in ottemperanza del D.P.C.M. (perché avete letto questa frase sbuffando, eh?), dei sette ragazzi al suddetto alimentari. Ognuno è uscito con la sua Ichnusa non filtrata da 0,33. Il risultato è un aperitivo in piena regola. Una birretta insieme, insomma.

Lui lo sa, comunque.

“Brindiamo a questa quarantena, alla fine di questa pandemia, ai centosette chili che abbiamo preso in comunione, per sentirci meno in colpa, e poi vedete un po’ voi, basta che brindiamo.”

Poco dopo, passava una pattuglia. Quattrocento euro di multa. A birretta.

Non è nemmeno una questione di alcolismo. Fossero stati succhi di pompelmo, centrifugati di ortaggi impronunciabili o acque gassate, sarebbe stata la stessa cosa. È più grave il fatto che la gente si ritrovi per chiacchierare, o il fatto che per farlo abbia bisogno di una bevanda alcolica?

Sulle bocche di tutti i mentori responsabili c’è sempre la stessa frase: non c’è bisogno di bere per divertirsi. E in effetti, è così. Ma per giustificare la terza videochiamata della giornata sentiamo il bisogno atavico di stappare una Budweiser, giusto per dirci “come va?

Whassup, Covid edition

Il problema non è tanto l’alcol, o il nostro rapporto con l’ebbrezza e tutte quelle cose che si leggono online sull’incapacità dei giovani d’oggi di divertirsi senza per forza ridursi a pane e aspirina il giorno seguente. Dopotutto, persino i latini dicevano che semel in anno licet insanire. Il fatto è che, oggi, una birretta con gli amici è una cosa sociale. È una cosa non necessaria, e, in quanto tale, è la rappresentazione del male.

Chissà se i soliti sette amici del paesino ligure sarebbero stati multati lo stesso, se avessero camminato casualmente per la piazza, senza una birra in mano. D’altronde nessuno ci ha mai fatto prendere un ticket per fare una passeggiata fuori di casa. Anzi, le pubblicità progresso consigliano ancora di svolgere attività fisica, ricordandoci velatamente di quei centosette chili comunitari da smaltire e facendo appello al nostro senso di colpa. Sempre comunitario.

Abbiamo bisogno di capri espiatori, forse. Se li allevassimo come suggerisce Zerocalcare in un episodio della sua serie animata Rebibbia Quarantine, avremmo in tasca il milione. Altro che Malaussène. Caro Pennac, sventolaci le foglie di banano. Non è nemmeno più una questione di DPCM, di significati nascosti o postille varie. È più un fatto di rientrare all’interno di un preciso insieme, come quelli che disegnavamo sui quaderni delle elementari.

Nel sottoinsieme assembramento, che sta a sua volta nell’insieme cose sbagliate, rientra la birretta; mentre nel sottoinsieme attività motoria (facente parte dell’insieme cose tollerabili ma non per questo fattibili senza sentirsi untori), rientrano la passeggiata, l’incontro casuale con persone conosciute, la fila al supermercato o la pisciatina del cane.

La socialità rientrava nell’insieme cose sbagliate, o almeno questo era il messaggio che passava, dopo l’ennesimo decreto di cui non si è capito molto. Potenzialmente tutto è concesso. Praticamente, non sai mai se quello che fai lo potresti fare. Di sicuro, fino a qualche settimana fa, non potevi vedere i tuoi amici in carne e ossa, a meno che non capitasse per caso.

Si vabbè, sono fissata con Zerocalcare. Ao.

Quale sarà il prossimo passo? Privarsi della socialità non è una cosa che si fa volentieri. Lo abbiamo notato tutti. Abbiamo cercato di pensarlo come un gesto di eroismo spicciolo per il bene della patria, o come rivincita dei sociopatici sui cinciallegri (sempre citando il fumettista di Rebibbia).

Ma quanto tempo ci metteremo ad ascoltare il richiamo aristotelico della nostra socialità repressa?

Per fortuna, le cose cambiano rapidamente. Uno di questi giorni ci siamo svegliati e ci siamo accorti che, intorno a noi, avevano aperto tutti.

*Luca, a.k.a. pub di fiducia dei dianesi. Commovente, vero?

Inutile dire che, la sera stessa, i sette amici d’infanzia del paesino, erano lì. Erano seduti vicino a noi. Nessuno avrebbe potuto multarli per una birretta.

Luca ha fatto un sacco di lavori dentro al pub. Ha messo il famoso plexiglass davanti al bancone, ha affisso tutti gli avvisi del caso e ora ci serve al tavolo, cosa che non si era mai vista nella storia di quel locale. C’è ancora qualcosa che non quadra, però. Bello tornare al pub (perché si torna ssseeempre, dove si è staaati beeeene!), alcolizzarsi (con moderazione), e constatare con piacere che le noccioline sono sempre della stessa marca, come trent’anni fa, quando al pub ci andavano i nostri genitori.

Siamo esseri abitudinari. Ci abitueremo anche a Luca che ci serve al tavolo, ai plexiglass e a tenere le mascherine appese ad un orecchio. Ci abitueremo a tutto, come ci siamo abituati a stare in tuta e ciabatte per una stagione intera, rinunciando alle nostre giacche di jeans preferite e alle birre alla spina del bar più vicino.

Caro Covid, grazie per averci insegnato il vero valore della birretta. Ora non c’è più bisogno, ce lo ricorderemo per sempre.

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