You’ve been stuck in a lift

Luisa Zhou
This brave new world
6 min readJun 5, 2020
Premere un pulsante = odissea

Ascensore o scale, il grande dilemma: due alternative capaci di polarizzare l’opinione pubblica, di cucire addosso l’etichetta dello “sportivo rompipalle” o del “pigro senza speranze”. Una distinzione che nel mondo Covid perde mordente: alla fine della fiera, abbiamo scelto di fare quei quattro piani a piedi.

Nemmeno io sono riuscita a sottrarmi all’inevitabile, io che di solito preferisco aspettare due minuti in più e imprecare contro la lentezza dell’ascensore, piuttosto che prendere le scale.
Cosa ci ha cambiati?
Forse il desiderio di muoverci fuori dai nostri trentacinque metri quadri, o forse la paura di rimanere sospesi in una cabina piena di germi e batteri altrui. E se per necessità abbiamo preso l’ascensore, ci siamo riscoperti contorsionisti, fra mille buste della spesa, mascherine cadenti, chiavi che non vogliono collaborare.

Premere un pulsante diventa allora un’odissea, attentissimi a non sfiorare nessun centimetro dello spazio pubblico. A trattenere il respiro, che non si sa mai. Per quei pochi istanti, dilatati a eternità nella nostra immaginazione, l’ascensore fa anche da confessionale. “Ti prego, fai che non mi sia preso nulla, ho rispettato tutte le norme”, ci ripetiamo, mentre saliamo piano dopo piano. Ma possiamo averne la certezza?

Il New York Times ci dedica addirittura un pezzo, ma alla grande domanda risponde nell’unico modo possibile: dipende.
Quant’è grande la cabina, per quanto tempo rimangono aperte le porte, com’è strutturato il sistema di ventilazione… insomma, all’improvviso ci assale il desiderio di diventare esperti di ascensori. Pensare che qualcuno ci ha dedicato anche un museo, rendendola la passione della sua vita.

Probabilmente un design elfico

Nel 2011, infatti, Patrick Carrajat fonda la Elevator Historical Society a New York, la città che più di tutte non sarebbe la stessa, senza ascensori. Ed è sempre qui che Elisha Otis, nel 1854, presenta il suo “paracadute” di sicurezza, un dispositivo automatico che blocca la discesa della cabina, qualora questa andasse troppo veloce. Così, un semplice montacarichi si digievolve in ascensore e trasforma le città come le conosciamo.
Di certo i grattacieli non sarebbero così affascinanti, se ogni volta dovessimo fare quaranta piani di scale. E gli attici con vista avrebbero un prezzo più accessibile, se Otis non avesse avuto questa gran trovata.

È l’inizio del ribaltamento sociale, delle gerarchie “scombinate”: i piani più alti, che un tempo erano riservati alla servitù o ai meno abbienti, ora sono prerogativa dei più ricchi.
L’idea di ascesa sociale si configura nella sua verticalità bottom-up e scopre il fascino dell’altezza. All’inizio, gli ascensori vengono addirittura considerati veri e propri salotti mobili, arredati con moquette, lampadari e divanetti per rendere il viaggio più comodo possibile. E si sa, l’occhio vuole la sua parte: così, si cominciano a progettare cabine sempre più sofisticate, cuori pulsanti degli edifici che abitano. Come l’ascensore panoramico della Mole Antonelliana, realizzato in cristallo trasparente: una corsa che parte dal Museo del Cinema di Torino e che prosegue fino alla vetta, senza interruzioni.

O ancora l’ascensore dell’Aquadom di Berlino, l’acquario cilindrico più alto al mondo, che permette di “viaggiare all’interno di un mondo sottomarino” per 82 metri.

Insomma, c’è spazio per lo stupore.

Con i primi ascensori, nasce anche un nuovo lavoro, quello del lift boy, incaricato di premere i pulsanti: da grandi poteri, derivano grandi responsabilità, come lascia intendere il saggio di Rachel Plotnick, Power Button: A History of Pleasure, Panic, and the Politics of Pushing.
Alla sua figura viene dedicato anche un film, The Lift Boy: una commedia indiana che racconta la vita del ventiquattrenne Raju, finito a schiacciare comandi per un palazzo a Mumbai.

È la storia di un desiderio, di una presa di coscienza, di un riscatto.

Cambiare la propria situazione di partenza, “salire di livello”, è possibile: la chiave sta nell’educazione. In particolare, poter accedere a un’istruzione di qualità — inclusiva e gratuita — consente all’ascensore sociale di muoversi, di ridurre le disuguaglianze.
Lì in alto, allo stesso piano, la visuale deve essere bellissima, ma paese che vai, ascensore che trovi. In Italia ne abbiamo uno fermo da anni.
Sogno un futuro in cui non ci sarà più bisogno di nessun lift boy. E se per paura non vorremo toccare i pulsanti, ci saranno sempre le scale.

Lift boy vs Lobby boy

Ma rinunciare all’ascensore è sacrificare un ecosistema che vive di umanità (e di molte altre cose tecniche, certo): in quelle quattro pareti, esiste uno spazio privilegiato di osservazione. Probabilmente lo sapevano anche i Radiohead, nel momento in cui hanno deciso di scrivere Lift e ambientare il video proprio in un ascensore.

You’ve been stuck in a lift, in the belly of a whale at the bottom of the ocean, canta Thom Yorke, mentre sulla scena un uomo con due buste della spesa resta lì, osservato e osservatore in un mondo sospeso. Le porte della cabina si aprono a ogni nuovo piano, rivelando scorci di vita e nuovi personaggi: due adolescenti, una folla di impiegati, un anziano che impiega tredici secondi della canzone per arrivare alla soglia e ritrovarsi chiuso fuori.
E alla fine, un altro ascensore. Come se questo sali e scendi dovesse durare per sempre.

Nella pancia di una balena

Ritrovarsi in un ascensore con estranei offre la possibilità di far parte di una storia comune, di condividere un’intimità improvvisa — a volte scomoda, stretta, altre quasi piacevole.

Se nei palazzi di Guangzhou in Cina, tutto questo può durare davvero poco (l’ascensore del CTF Finance Centre viaggia alla velocità di 72 km/h), nei condomini o negli uffici che conosciamo noi, l’attesa si consuma diversamente.

È un silenzio denso, un “buongiorno” detto con cortesia, uno sguardo fisso sull’iPhone, un imbarazzo senza nome, un sorriso a metà, un’indifferenza che non cambierà la vita a nessuno. È un bagaglio troppo pieno, una risata ubriaca, un odore di troppo, un profumo che perseguita, il fumo di quello del terzo piano. È un petalo di rosa a terra, una multa stracciata, una lista della spesa dimenticata. Ogni tanto, è un messaggio d’amore attaccato con lo scotch.

In quel “max 6 persone” si rivela un’umanità a pillole, storie incomplete che restituiscono la ricchezza delle nostre esistenze.
Come nel caso di The Lift, uno spot del 2019 lanciato dal marchio di calzature BIANCO: un ragazzo e una ragazza si incontrano ogni giorno in ascensore. Si piacciono. Pensano molto. Non dicono nulla.
Quante volte ci sarà capitato di innamorarci così?

And we’ll forever be laughing at why we didn’t just say hi in the elevator

Ecco, parlare in ascensore può portare anche a grandi opportunità, come dimostrano gli elevator pitch, che da qui riprendono l’idea di tempo e spazio limitato per una presentazione di successo. Ma anche parlare dell’ascensore può avere conseguenze inaspettate, come liti condominiali che non conoscono fine. Partono allora i classici schieramenti, la scala A contro la scala B. E mentre si preparano i dardi verbali, gli insulti all’intelligenza dei condomini del quarto piano, si organizzano tattiche militari e controffensive contro quelli del primo.

In tutto questo, l’amministratore si ritrova puntualmente bistrattato: ascensore sì, ascensore no, ascensore sì, ascensore no. Di certo, chi soffre di claustrofobia preferirà la seconda opzione: uno spazio così definito, chiuso, può diventare una gabbia e generare paure. Come quella che stiamo provando ora. Qualcuno ci ha già girato un thriller psicologico, Corona: una produzione super low-budget, realizzata fra gennaio e febbraio 2020. È la vicenda di sette personaggi intrappolati in un ascensore, ma se uno di loro avesse il Covid-19?

Certo, dopo più di due mesi, la quarantena si è trasformata.
Fra distanze di sicurezza, disinfettanti, mascherine — che a pagarle cinquanta centesimi si fa prima a trovare esemplari di sule piediazzurri (in comune hanno anche il colore!) -, si comincia a sentire una certa impazienza. Il desiderio di ripartire, di reinventarsi, di non avere più paura o comunque averne meno. Ma, in un modo o nell’altro, stiamo ancora trattenendo il respiro.

Un’umanità sospesa ad altezza vertiginosa, inconsapevole del piano a cui scenderà: l’ascensore in cui siamo entrati a marzo non ha ancora riaperto le porte. E mentre continuiamo a viaggiare, c’è chi guarda i pulsanti illuminarsi, chi getta un’occhiata fuori dalle vetrate, chi si guarda i piedi. In attesa di quella che sarà la Fase 3, forse il momento in cui scopriremo davvero chi saremo diventati.

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Luisa Zhou
This brave new world

Story designer con una seria ossessione per i lupi cecoslovacchi