Borges e la natura della matematica

Scoperta o invenzione?

Marco Fulvio Barozzi
Through the optic glass
7 min readJun 3, 2016

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Nel 1940 i matematici americani James Roy Newman (1907 – 1966) e Edward Kasner (1878 – 1912) pubblicarono Mathematics and Imagination, uno dei classici della matematica ricreativa, che trattava con prosa agile e grande talento divulgativo dei principali concetti della matematica moderna, come la topologia, le geometrie non euclidee o l’aritmetica dell’infinito, attraverso una serie di paradossi e problemi che ancor oggi affascinano il lettore. Il libro è ricordato anche perché per la prima volta vi veniva definito il numero grandissimo googol, pari a 10^100, 1 seguito da 100 zeri, per illustrare la differenza tra un numero enorme e l’infinito. Il buffo nome era stato suggerito vent’anni prima a Kasner da un nipotino di nove anni, che mai avrebbe immaginato di ispirare così anche il nome del più grande motore di ricerca (Google, che ha la stessa pronuncia). Kasner coniò anche il nome googolplex per il numero scritto come 10^googol, cioè:

googolplex = 10^googol. = 10^ (10^100),

un numero talmente elevato le cui cifre superano abbondantemente il numero delle particelle elementari presenti nell’intero universo e che, per essere scritto normalmente, richiederebbe al computer più potente oggi esistente qualcosa come 3 ∙ 10^85 anni. Eppure si tratta di un numero intero, finito!

Il libro di Newman e Kasner fu tradotto e pubblicato nel 1948 in Italia da Bompiani come Matematica e immaginazione e, in Argentina, da Hyspamérica nel 1985, poi ripresa in Spagna da Orbis due anni dopo. Questa edizione di Matemáticas e imaginación merita di essere ricordata perchè fu curata da Jorge Luis Borges, che conosceva il libro già dalla sua prima comparsa in edizione originale, ed era preceduta da una prefazione dello stesso scrittore e da una sua precoce recensione del 1940, che consentono di avvicinare il suo rapporto con la matematica. Così scriveva Borges (traduzione mia):

Prefazione

“Un uomo immortale, condannato all’ergastolo, potrebbe concepire nella sua cella tutta l’algebra e tutta la geometria, dal contare sulle dita di una mano sino alla singola teoria degli insiemi, e ancora molto di più. Un modello di questo pensatore sarebbe Pascal, che, a dodici anni, aveva riscoperto una trentina delle proposizioni di Euclide. Le matematiche non sono una scienza empirica. Intuitivamente sappiamo che tre più quattro fa sette, e non abbiamo bisogno di provarlo con martelli, con pezzi della scacchiera o con carte da gioco. Orazio, per raffigurare l’impossibile, parlò di cigni neri; mentre vergava i suoi versi, bande tenebrose di cigni solcavano i fiumi dell’Australia.

Orazio non poteva prevederlo, ma se avesse avuto loro notizie, avrebbe saputo immediatamente che tre più quattro di questi lugubri esseri davano la cifra di sette. Russell scrive che le grandi matematiche sono una grande tautologia e che dire tre e quattro non è una cosa diversa dal dire sette. Sia quel che sia, l’immaginazione e le matematiche non si contrappongono; sono complementari come la serratura e la chiave. Come la musica, le matematiche possono prescindere dall’universo, il cui ambito contengono, e le cui leggi occulte esplorano.

La linea, per quanto sia corta, è fatta da un numero infinito di punti; il piano, per quanto sia piccolo, da un numero infinito di linee; il volume da un numero infinito di piani. La geometria quadridimensionale ha studiato la natura degli ipervolumi. L’ipersfera è fatta da un numero infinito di sfere, l’ipercubo da un numero infinito di cubi. Non si sa se esistono, ma si conoscono le loro leggi.

Molto più dilettevoli di questo prologo sono le pagine di questo libro. Invito i lettori a dar loro un’occhiata e ad ammirare le sue strane illustrazioni. Abbondano di sorprese. Per esempio, le isole topologiche dell’ottavo capitolo; per esempio la striscia di Möbius che chiunque può costruire con un foglio di carta e con un paio di forbici e che è un’incredibile superficie con un lato solo”.

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Borges afferma nel Prologo che la matematica e la musica possono prescindere dall’universo. Si tratta dell’idea quasi platonica per la quale la matematica esiste indipendentemente da noi e aspetta solo di essere scoperta. I numeri (e tutta la costruzione delle matematiche) sono degli a – priori, indipendenti dalla creazione umana. Borges insomma sembra appartenere alla scuola del “realismo matematico”. Faccio notare che questa concezione è condivisa da un altro grande scrittore a lui contemporaneo, che di matematica era un espertissimo dilettante: Raymond Queneau.

Tra i matematici, molti sono stati realisti, come Paul Erdös e Kurt Gödel. Un’importante argomentazione a favore del realismo matematico consiste in ciò che il fisico Eugene Wigner ha definito della “irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali”. L’universo fisico può essere conosciuto nella sua struttura più profonda grazie alla matematica, per il semplice fatto che esso è matematico. Questa straordinaria efficacia ha sempre stupito i fisici, a partire da Galileo, che ne deduceva che la natura è un libro scritto “in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche”. La natura dei caratteri, dopo la nascita delle geometrie non euclidee e i progressi della ricerca del XIX e XX secolo, sembra essere cambiata, e Dio sembra uscito dal discorso scientifico, tuttavia un altro fisico, Paul Dirac, è ugualmente affascinato dall’idea di un universo matematico, quando scrive che:

«Il matematico fa un gioco di cui è lui stesso a inventare le regole, mentre il fisico fa un gioco le cui regole sono fornite dalla Natura; con il passare del tempo diventa sempre più evidente che le regole che il matematico trova interessanti sono quelle stesse che ha scelto la Natura».

Senza l’esistenza della matematica indipendentemente dall’uomo diventa arduo, secondo i realisti, spiegare come, ad esempio, nella teoria della relatività le geometrie non euclidee sono così importanti per giustificare lo spaziotempo, oppure come mai le teorie dei gruppi riescano a collocare in un catalogo ordinato e persino a prevedere le particelle quantistiche.

Ciò ha spinto logici matematici come W. V. Quine e filosofi come Hilary Putnam a formulare il cosiddetto Argomento di indispensabilità: se non si può fare a meno di impiegare le teorie matematiche nella comprensione di teorie scientifiche che riteniamo siano vere, o quantomeno confermate dall’evidenza empirica, allora non possiamo non ritenere vere, o quantomeno confermate, anche le teorie matematiche in questione, e quindi – sotto opportune condizioni – non ritenere che esistano gli oggetti di cui esse trattano. Insomma, se vogliamo credere nella realtà dei fenomeni descritti dalle scienze, dobbiamo credere anche nella realtà delle entità richieste per la loro descrizione.

Alle posizioni del realismo matematico si oppone chi contesta innanzitutto l’esistenza reale degli oggetti matematici (numeri, insiemi, funzioni, gruppi, ecc.) di cui le teorie matematiche sembrano trattare. Il maggiore problema che incontra il realismo matematico si può formulare infatti con le seguenti domande:

«Dove e come precisamente esistono le entità matematiche? Esiste un mondo completamente separato dal nostro mondo fisico che è occupato dalle entità matematiche? Come si può accedere a questo mondo separato e scoprire le verità relative alle entità matematiche?»

Se esistono, gli oggetti matematici sono oggetti astratti, cioè oggetti privi di collocazione spazio-temporale e privi di efficacia causale. Così la pensava ad esempio David Hilbert, convinto che la matematica non possiede alcun significato fisico: essa è pura forma, pura manipolazione di simboli o, per dirla con Hermann Hesse, un gioco di perle di vetro. Pertanto non si scopre, ma piuttosto si crea.

Il sogno di Hilbert, esposto nei suoi famosi 23 problemi al Secondo Congresso Internazionale di Matematica tenutosi a Parigi nell’agosto del 1900, era quello di armonizzare la logica e la matematica in una collezione di sistemi formali. Sappiamo che il suo sogno di assiomatizzazione della matematica, condiviso da talenti quali Bertrand Russell, era destinato a fallire con la dimostrazione che nel 1931 Kurt Gödel diede di come un sistema formale non contraddittorio, che comprenda almeno l’aritmetica, non può dimostrare la propria completezza dall’interno dei suoi assiomi. La questione dei fondamenti della matematica è tornata così alla sua origine e ancora non riusciamo a decidere quale sia la vera natura degli enti matematici.

Ma torniamo a Borges. Quanto sapeva di matematica? Nel saggio Avatar della Tartaruga, dedicato alle diverse declinazioni letterarie del secondo paradosso di Zenone, lo scrittore afferma in modo ambiguo che “cinque, sette anni di apprendistato metafisico, teologico, matematico, mi resero capace (qualche volta) di progettare decorosamente una storia dell’infinito”. È tuttavia abbastanza evidente che gli argomenti trattati in Matematica e Immaginazione gli erano familiari, e già prima del 1940 egli aveva dedicato un saggio alla quarta dimensione.

D’altra parte è altrettanto innegabile che l’immaginario matematico di Borges. deve senz’altro molto, anche se non esclusivamente, all’opera di Newman e Kasner. I temi matematici che gli studiosi hanno riconosciuto come i più frequenti in Borges, sono quello dell’infinito (o degli infiniti di Cantor) e i paradossi logici, come d’altra parte egli stesso anticipò nella recensione del 1940.

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