Caravaggio e la camera oscura

Marco Fulvio Barozzi
Through the optic glass
10 min readJul 1, 2016

Nella Cena di Emmaus (1602) del Caravaggio (1571- 1610), conservato a Londra, la mano destra del discepolo Cleofa appare più grande rispetto alla sinistra. David Hockney, delle cui teorie ho parlato nel precedente articolo, considera questo errore visuale come una prova dell’uso di una camera oscura da parte dell’artista. Egli spiega questa anomalia della mano come “una conseguenza dei movimenti [in avanti e all’indietro] di lente e tela durante la rimessa a fuoco, a causa di problemi di profondità di campo”, avanzando la teoria che il pittore lombardo non solo avesse a disposizione una camera oscura naturale (riflessione sulla tela), ma anche una lente (proiezione sulla tela). L’immagine era poi disegnata e risultava di un realismo assai dettagliato. Questo metodo, afferma Hockey, era tenuto segreto dagli artisti. Tuttavia, anche in questo caso le idee dell’artista inglese hanno suscitato le critiche di vari studiosi. Ad esempio, David Stork ha parlato di “imbarazzanti implicazioni della teoria legate alla rimessa a fuoco, al movimento della tela e all’illuminazione.”, proprio riguardo alla Cena di Emmaus.

Stork afferma che la Cena di Emmaus solleva un certo numero di dubbi sia per le spiegazioni specifiche fornite da Hockney sia per la sua teoria in generale. La sua confutazione, basata su complessi calcoli, prende le mosse dall’assunto che Caravaggio abbia usato uno specchio concavo per ingrandire le immagini. In realtà Hockey afferma che il pittore fece uso di una lente biconvessa (una lente d’ingrandimento). Anche l’obiezione relativa all’illuminazione, sollevata da Stork, si scontra, secondo Hockey, con la testimonianza del medico e collezionista d’arte Giulio Mancini (1558–1630), conoscente del Caravaggio. Egli sostenne che una “caratteristica della scuola [di Caravaggio] è l’illuminazione da una sorgente sola, che si irradia dall’alto senza riflessione, come succede da una finestra in una stanza con le pareti dipinte di nero”. Perché Mancini doveva specificare che c’era una sola finestra se voleva indicare le migliaia di candele indicate da Stork?

Una risposta alternativa al problema dell’illuminazione è giunta da Roberta Lapucci, direttrice del Dipartimento di Restauro dell’Università americana di Firenze e docente all’Università Statale della stessa città. La ricercatrice, che appoggia l’idea dell’uso di una camera oscura, afferma infatti che, da alcune prime analisi, si è trovata una diffusa presenza in molti quadri del Caravaggio di sostanze fluorescenti, in particolare di sali di mercurio. La sua ipotesi è che il pittore, dovendo disegnare in una camera priva di luce, usasse spalmare sulla tela dei sali di mercurio, la cui fluorescenza poteva garantirgli di vedere dove tracciare i segni.

La camera oscura più semplice è un dispositivo ottico che proietta un’immagine su uno schermo. Essa consiste di una scatola o di una stanza (“camera”, appunto) con un forellino in uno dei lati. La luce proveniente da una scena esterna passa attraverso il foro e colpisce una superficie sulla parete interna opposta, dove viene riprodotta capovolta, ma con i colori e la prospettiva preservati. L’immagine può essere proiettata sulla carta e può allora essere tracciata in modo da produrre una rappresentazione accurata del vero. Utilizzando uno specchio, come si faceva nel Settecento, è possibile ottenere un’immagine non ribaltata. Tanto più il forellino è piccolo, tanto più nitida è l’immagine che si ottiene, ma essa risulta più scura. Inoltre un foro d’entrata molto piccolo produce un offuscamento dovuto alla diffrazione. Per questo motivo si applica una lente sul foro in modo da consentire un’apertura maggiore che dà una luminosità sufficiente mantenendo la messa a fuoco.

Sebbene Aristotele, Euclide e i cinesi conoscessero il fenomeno ottico della camera oscura e il matematico arabo dell’XI secolo Alhazen (morto nel 1038 al Cairo) ne avesse scritto diffusamente, furono gli italiani nel XVI secolo che fecero passi da gigante nello sviluppo di questo fenomeno ottico naturale verso quella che sarebbe con il tempo diventata la nostra moderna macchina fotografica. Nel 1515 Leonardo descrisse nel Codice Atlantico un procedimento per disegnare edifici e paesaggi dal vero che consisteva nel creare una camera oscura nella quale veniva praticato un unico foro su una parete, sul quale veniva posta una lente regolabile. Sulla parete opposta si proiettava così un’immagine fedele e capovolta del paesaggio esterno, che poteva essere copiata su un foglio di carta appositamente appeso, ottenendo un risultato di discreta qualità. Il veneziano Ettore Ausonio (ca. 1520 — ca. 1570) fu il primo a tentare di integrare i problemi della posizione del punto focale e della formazione delle immagini in uno specchio concavo. Ausonio chiarì che il punto focale di un tale specchio coincide con il punto in cui cambia l’orientazione dell’immagine visibile nello specchio stesso. Il milanese Girolamo Cardano (1501–76) fu invece il primo a descrivere, nel 1550, l’uso di una lente biconvessa come miglioramento della camera oscura. Il nobile veneziano Daniele Barbaro (1513–1570) fu in grado, nel 1569, di descrivere nella Pratica della prospettiva un tale dispositivo, equipaggiato sia di una lente biconvessa sia di un diaframma.

Anche l’intellettuale, alchimista e filosofo napoletano Giovanni Battista Della Porta (1538–1615), vero mago rinascimentale, scrisse diffusamente della camera oscura nelle varie edizioni del Magiae naturalis sive de miraculis rerum naturalium, compendiato in volume unico nel 1584. Egli diede consigli su come gli artisti potevano usare le sue invenzioni, dalla realizzazione di copie accurate all’esecuzione di ritratti somiglianti.

Barbaro suggeriva anche come rendere più nitida l’immagine, riducendo l’apertura e muovendo il supporto per il disegno in avanti e all’indietro. Il che è esattamente quello che Hockney suppone che abbia fatto Caravaggio durante la realizzazione della Cena di Emmaus. Ciò non prova che Caravaggio abbia utilizzato la camera oscura oppure ne fosse informato, ma la cronologia gioca a favore dell’ipotesi che egli abbia potuto farlo. Ciò che Hockney non è riuscito a provare è un legame specifico tra il Caravaggio e queste opere teoriche. Egli afferma che questa conoscenza era un segreto strettamente custodito, senza spiegare come mai il Della Porta scrivesse e pubblicasse dell’argomento proprio negli anni in cui il pittore si recò a Roma per la prima volta. È vero che nel 1592 il Della Porta fu temporaneamente arrestato dall’Inquisizione e i suoi libri furono messi all’Indice fino al 1598, sembra più per i suoi studi sulla filosofia occulta e le sue amicizie sospette (come Tommaso Campanella e Paolo Sarpi) che per quelli sulla camera oscura, ma non pare, come non parve agli inquisitori, che egli custodisse un occulto sapere riguardo agli studi di ottica.

La rete di collegamenti tra Caravaggio e i contemporanei progressi nella tecnologia della camera oscura è tuttavia interessante. Ad esempio, c’era un legame indiretto tra il mecenate del pittore della fine del Cinquecento, il Cardinal Del Monte, e il già citato nobile veneziano Daniele Barbaro. Nel 1545, Tiziano (c.1490–1576) aveva dipinto il suo ritratto. Questo piccolo dipinto mostra gli attributi realistici che Hockney associa all’uso della tecnologia della camera oscura come ausilio alla pittura, specialmente di ritratti. Una decina d’anni dopo questo ritratto, Barbaro propone l’uso della camera oscura ai pittori e, come afferma R. Noughton nel suo The Camera Obscura: Aristotle to Zahn (2003), “descrivendo l’uso delle lenti convesse, egli mostra che l’immagine è più nitida e il suo contorno può essere perciò seguito con una matita”. È difficile immaginare che Tiziano fosse disinteressato alle teorie sul disegno di Barbaro o che l’intellettualmente attivo Barbaro se ne stesse seduto mentre il pittore eseguiva il suo ritratto senza farne menzione. Ovviamente Tiziano era un grande artista e, se fece uso davvero del dispositivo, doveva farlo saltuariamente. Comunque Barbaro posò per quel ritratto, e Tiziano compare tra i testimoni del battesimo nel 1549 a Venezia del futuro Cardinal Del Monte, che crescendo sarebbe divenuto il primo grande protettore di Caravaggio all’inizio del XVII secolo. Così Tiziano doveva essere un amico del padre di Del Monte, il cui figlio finirà con il proteggere Caravaggio.

Caravaggio era circondato da persone che si intendevano di ottica o che stavano studiando l’argomento. Il Cardinal Del Monte doveva sicuramente conoscere l’opera del Della Porta. Michael Gorman, nel suo saggio Art, optics and history: new light on the Hockney thesis (2003), sostiene che il fratello del prelato, Guidobaldo, era in corrispondenza con la veneziana Giacoma Contarini, che “supervisionò personalmente la costruzione della nuova camera oscura del Della Porta a Venezia.” Della Porta era stato a Venezia nel 1580 e, su consiglio della Contarini, incontrò a Murano un artigiano del vetro capace di realizzare un particolare specchio che stava cercando, da abbinare a una lente biconvessa per raddrizzare l’immagine proiettata nella camera oscura. “Il risultato di questo lavoro fu un dispositivo che proiettava immagini diritte ingrandite”, sostiene Gorman. Questa notizia fu pubblicata nella seconda edizione del Magiae Naturalis nel 1589 (o nel 1591 secondo altre fonti).

La maturazione artistica del Caravaggio segue il percorso indicato da Hockney e Falco per lo sviluppo dell’utilizzo di dispositivi ottici nella pittura. Un suo contemporaneo, anch’egli pittore e biografo di artisti, il romano Giovanni Baglione (c.1566–1643), affermò che c’erano “alcuni piccoli quadri [del Caravaggio] ritratti con uno specchio”. Hockney sostiene che lo specchio di cui parla Baglione sia in effetti uno specchio concavo. Con questo dispositivo, l’immagine utilizzabile non è mai più grande di 30 centimetri di larghezza; si tratta di una caratteristica di tutti gli specchi concavi, non importa quanto essi siano grandi. Al di fuori di questa superficie utile, è impossibile ottenere un’immagine a fuoco. I quadri fatti con l’ausilio di uno specchio concavo devono pertanto essere piccoli, o devono essere un collage di piccole vedute, come dettagli di mani, vestiti, frammenti di paesaggio e nature morte. Hockney cita il Bacchino malato (ca. 1593) come esempio di questo collage di vedute giustapposte. In effetti il quadro in questione è di piccole dimensioni.

L’altro Bacco di Caravaggio (ca. 1594), ora agli Uffizi, di 95 x 85 cm., non è particolarmente piccolo. Inoltre Caravaggio incomincia ad includere più di una figura, come nei Bari (ca. 1595). Lo sfondo è ora buio e spettacolare: sempre di Caravaggio si tratta, ma l’aspetto ottico è cambiato. David Hockney spiega questo cambiamento con un miglioramento tecnologico, “quello che ci si aspetterebbe da una lente convenzionale [biconvessa, ndr] che può proiettare una veduta più ampia, e quindi più figure in un colpo solo”. Hockney prosegue postulando che qualcuno diede al pittore una nuova lente, forse il suo potente protettore del tempo, il Cardinal Del Monte, portandolo all’idea di usarla al posto dello specchio concavo per ottenere il massimo rendimento dall’effetto della camera oscura. La sperimentazione di Caravaggio con proiezioni ottenute da lenti biconvesse coprì un periodo di cinque anni, durante i quali sarebbe passato da tele di piccole dimensioni “fatte con uno specchio” fino a dipinti di dimensioni medie come il Bacco degli Uffizi, fatte con l’ausilio di una lente. Roberta Lapucci ritiene che il Bacco degli Uffizi dimostri in modo evidente l’uso di lenti e specchi. La studiosa fa notare come il Bacco sia mancino, perché tiene il bicchiere con la mano sinistra. Non essendoci precedenti in tal senso, la Lapucci pensa che l’immagine sia il frutto di una proiezione ottenuta con uno strumento ottico. Se si ribalta l’immagine, sostiene, si ottiene una figura che appare assai più naturale.

In qualche momento tra il 1598 e il 1599, tuttavia, egli deve aver cominciato a sperimentare un nuovo sistema di lenti, con il quale egli fu in grado di realizzare le tre tele con scene della vita di san Matteo (tra le quali la splendida Vocazione di San Matteo) nella cappella Contarelli della chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, che segnano un importante punto di svolta nel suo stile e stupirono il mondo dell’arte del Seicento quando furono visibili nel 1600.

C’è un ulteriore informazione da segnalare sulla svolta stilistica di Caravaggio agli inizi del nuovo secolo, che richiede di tornare alla Cena di Emmaus, ma nella versione conservata a Milano e dipinta quattro anni più tardi di quella londinese. Essa sembra smentire definitivamente le obiezioni di Stork relative all’illuminazione e confermare l’assunto di Hockney e Falco che il pittore utilizzasse la luce solare.

Lo studio dell’opera effettuato da parte dell’Opificio delle Pietre Dure con l’ausilio dello scanner Multi-NIR (Scanning Multispectral IR reflectography) realizzato dall’Istituto Nazionale di Ottica (INO) del C.N.R di Firenze ha rilevato il disegno sottostante il dipinto conservato alla Pinacoteca di Brera. Dall’indagine sono infatti affiorati i contorni del volto di Cristo, degli apostoli, delle mani, oltre alla presenza delle incisioni tipiche della fase giovanile del Caravaggio e che Hockney attribuisce all’uso di dispositivi ottici. Si può quindi concludere che Caravaggio, contrariamente a quanto generalmente si pensava, faceva uso di disegni preparatori.

Inoltre, e ciò è assai importante per la nostra piccola indagine, lo scanner del CNR ha rivelato anche la presenza di un significativo cambiamento nel corso della realizzazione dell’opera. Sul lato sinistro, dietro la figura in piedi, è emersa una finestra da cui si scorge un paesaggio dominato da un albero frondoso. Tale apertura era la fonte di luce naturale che illuminava i personaggi. Nella stesura definitiva, il pittore occultò questi elementi a favore di uno sfondo scuro, adatto alla resa di un’atmosfera più spirituale, illuminata da una luce di taglio, dall’effetto “soprannaturale”, rivelatrice della presenza divina. I risultati del Multi-NIR CNR consentono di affermare che la Cena di Emmaus rappresenta lo spartiacque stilistico nella carriera pittorica del maestro lombardo. E gettano una nuova luce (è proprio il caso di dirlo) sulla tecnica pittorica adottata dal Caravaggio negli ultimi suoi anni di vita.

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