Giacomo Zanella, prete e poeta scientifico

Marco Fulvio Barozzi
Through the optic glass
11 min readJul 27, 2016

Sopra la conchiglia fossile – nel mio studio

Non è strano che uno dei pochi poeti scientifici italiani sia stato un prete? Oramai quasi dimenticato dalle antologie, citato di sbieco nelle storie della letteratura, il poeta vicentino Giacomo Zanella (1820–1888) fu sacerdote, patriota e professore di lettere e filosofia (un suo allievo fu Antonio Fogazzaro). Venne allontanato dall’insegnamento a causa delle sue idee patriottiche e solamente dopo che il Veneto fu annesso all’Italia poté ritornare ad insegnare all’Università di Padova, di cui divenne anche rettore.

La sua prima raccolta di versi di tendenza romantica vide la luce nel 1868. La produzione poetica del Zanella durò per circa vent’anni, fino alla morte, e fu originale rispetto al panorama letterario del suo tempo per la capacità di presentare in versi argomenti di carattere scientifico e il tentativo di conciliare religiosità cattolica, cultura positivista e problemi sociali (come il lavoro operaio e la povertà). Zanella visse in un’epoca di trasformazioni politiche, letterarie e soprattutto scientifiche, che accolse con favore e inserì in una visione provvidenziale della storia.

Le scelte poetiche dello Zanella contribuirono a collocarlo, nell’ambiente culturale del suo tempo, in una posizione anomala. Egli, infatti, fu mal visto sia dal mondo culturale laico, per il suo rifiuto delle tesi materialistiche, sia da una parte delle autorità ecclesiastiche per il patriottismo, la scienza e l’interesse per la “questione sociale”.

La sua poesia più famosa è Sopra la conchiglia fossile – nel mio studio. Motivo d’ispirazione fu la vista di una conchiglia fossile, trovata in un luogo montano e adoperata come fermacarte. Il poeta, contemplando la conchiglia, medita sulle età più antiche della terra e sul destino dell’umanità, il cui futuro nasce dalle ceneri del passato attraverso un percorso che coinvolge l’intero universo.

Quest’ode, di cui sotto riporto un estratto, fu scritta di getto tra l’8 e l’11 marzo del 1864 e fu apprezzata. anche da Alessandro Manzoni, come testimonia lo stesso Zanella nella lettera, datata 30 aprile 1869, inviata al collega Pietro Mugna: «è qui il marchese d’Adda di Milano, che volle conoscermi per dirmi che Manzoni aveva imparata a memoria la mia “Conchiglia” e che egli stesso lo aveva udito recitarla…»

Sul chiuso quaderno

di vati famosi,

dal musco materno

lontana riposi,

riposi marmorea

dell’onde già figlia,

ritorta conchiglia.

.

Occulta nel fondo

d’un antro marino,

del giovane mondo

vedesti il mattino;

vagavi co’ nautili,

co’ murici a schiera,

e l’uomo non era.

.

Per quanta vicenda

di lente stagioni,

arcana leggenda

d’immani tenzoni

impresse volubile

nel niveo tuo dorso

de’ secoli il corso!

(…)

Tu, prima che desta

a l’aure feconde,

Italia la testa

levasse da l’onde,

tu, suora de’ polipi,

de’ rosei coralli

pascevi le valli.

.

Riflesso nel seno

de’ ceruli piani,

ardeva il baleno

di cento vulcani:

le dighe squarciavano

di pelaghi ignoti

rubesti tremoti.

(…)

Pur baldo di speme

l’uom, ultimo giunto,

le ceneri preme

d’un mondo defunto:

incalza di secoli

non anco maturi

i fulgidi augùri.

.

Su i tumuli il piede,

ne’ cieli lo sguardo,

a l’ombra procede

di santo stendardo;

per golfi reconditi,

per vergini lande

ardente si spande.

.

T’avanza, t’avanza,

divino straniero;

conosci la stanza

che i fati ti diêro:

se schiavi, se lagrime

ancora rinserra,

è giovin la terra.

.

Eccelsa, segreta

nel buio de gli anni,

Dio pose la mèta

de’ nobili affanni:

con brando e con fiaccola

su l’erta fatale

ascendi, mortale!

(…)

Milton e Galileo

L’incontro avvenuto nel 1638 nell’esilio ad Arcetri tra John Milton e Galileo Galilei colpì molto l’immaginario ottocentesco. Giacomo Zanella dedicò all’episodio un poemetto, scritto in uno stile un po’ ostico per la sensibilità odierna e dalle vaghe tentazioni miltoniane, intitolato proprio Milton e Galileo, che uscì nella sua prima raccolta poetica.

Nella dedica all’amico Fedele Lampertico della prima edizione dei suoi versi, scrisse: «I soggetti che più volentieri ho trattato sono quelli di argomento scientifico, ma non è già l’oggetto della scienza che mi paresse capace di poesia, bensì i sentimenti che dalle scoperte della scienza nascono in noi; per questo non ho mai posto mano ad uno di questi soggetti, che prima non avessi trovato il modo di farvi campeggiare l’uomo e le sue passioni, senza cui la poesia, per ricca che sia d’immagini, è senza vita. Ciò si vedrà ne’ versi, che hanno per titolo MILTON E GALILEO (…) Milton giovane, viaggiando in Italia, ebbe agio di vedere Galileo. Lo ricorda egli stesso nella sua Aeropagitica; e da due passi del poema, in cui tocca della Luna veduta col telescopio del Toscano geometra, si può argomentare che l’Italiano facesse godere l’Inglese quello spettacolo allora nuovo. Quella visita mi parve soggetto opportuno ad esporre alcune idee sulla religione e sulla scienza, che altrimenti non mi sarei avventurato a mettere in versi».

Le “idee sulla religione e sulla scienza” dello Zanella sono innovative per un sacerdote della sua epoca (sul soglio pontificio sedeva Pio IX), in quanto cercano di inserire le scoperte scientifiche e le novità tecnologiche in un disegno provvidenziale. Così Galileo ci viene presentato come un cattolico osservante, quasi comprensivo per i suoi inquisitori, pronto a controbattere alle osservazioni indignate del giovane protestante Milton fino quasi a convincerlo. Trovo tuttavia curioso ed inquietante che si tratta dello stesso Galileo che ci viene presentato oggi, dopo centocinquanta anni, dai vertici ecclesiali e dalla saggistica parascientifica e agiografica degli scienziati devoti alla Zichichi.

L’opera si apre con l’arrivo di Milton nell’esilio di Arcetri, dove lo scienziato, vecchio, malato e ormai quasi cieco, è accudito dalla figlia Maria, suora del vicino convento:

A te levo il pensier, Milton divino.

Ed a te, Galileo, quando seduti

Sui toschi poggi a libero sermone

L’ eccelse anime apriste. E non v’ intese

Altri che l' ombre della queta sera,

Le mute siepi e le sorgenti stelle

Che parean su’ romiti orti d’ Arcetri

Piovere ossequiiose il primo raggio.

L’orgoglio dello studioso è il primo a emergere nell’animo di Galileo:

“Aprimi il ver. Son io creduto ancora?

Fra i magnanimi pochi a cui rifulse

De’ novi dommi il raggio, i miei volumi

Ancor son vivi? Ovver dal dì che affranto

Dall’ etade e da’ morbi, io derelitto

Vecchio tremante, delle corti ignaro.

Avvolto di nemici e combattuto

Da mortali terrori, alle minacce

Del Vatican m’ arresi e la parola

Rinnegatrice di mie glorie emisi,

Tutto forse perii ? Perì la luce

Ch’io primo accesi? Nell’antica notte

Ricadranno le genti, a cui sì bella

Di secolo miglior l'alba sorgea?”

Milton lo rassicura:

“De’ tuoi naufragi il Vaticano, e chiuso

Nel silenzio sperò di questi colli

L’ odiato vero. Ma la tua parola

Indefessa viaggia, e non del Reno

Alle rive soltanto e del Tamigi,

Ove già franco de’ vetusti ceppi

Liberissime vie batte il pensiero;

Ma del nemico Tevere sull’onde

Venerata risuona; e qualche pio.

Cui la porpora ancor dell’ intelletto

Il lume non offese, a’ novi veri

Segreto applaude, e sulle tue sventure.

Che immortale di Roma onta saranno,

Versa, arrossendo, generoso pianto”.

Ma il pisano lo sorprende con una dichiarazione di fedeltà alla chiesa romana:

“Ma de’ miei padri mi sarà giocondo

Addormentarmi nella Fé : ne andranno

Le mie figlie felici; e di riposo

A questa faticata anima Iddio

Largo sarà, di cui l’augusto accento

A riverir nel Roman Padre appresi”.

Provocando l’indignata reazione dell’inglese, che critica lo sfarzo del papa e dei cardinali:

“Supremo regnator l'uom che de’ servi

Servo si chiama. Allor dal tempio in bando

Le virtù se n’ andar che fean la stola

Venerabile al mondo. Allor d’ imperi

E di porpore e d’ oro una superba

Febbre i cori riarse : empio mercato

Di mendaci dispense e di perdoni

Entro il tempio s’ aprì : la terra accorse

Credula, e l’oro al poverel negato

Cesse all’altar, perchè più sontuosi

Ondeggiassero i manti al sacerdote,

E di fuggenti colonnati e d’aule,

Come il deserto, paurose, avvolti

Fossero al molle Archimandrita i sonni.

(…)

Tal Roma io vidi. E tu, Divino, a questo

Di bugiardi splendori idol caduco

La fronte inchini trepidando? Tu

Sovra la curva de’ rotanti soli

Uso a colloqui coll’ Eterno, udirne

Credi la voce d’ un Urban sul labbro?»

Il Galileo di Zanella replica, rimproverando coloro che si sono allontanati da Roma, con la tipica visione ecumenica dei cattolici: tutti uniti, ma sotto il papa:

“Figlio, dell’ uomo tu nel cor non leggi,

E poeta non sei. L’ Onnipotente

Ben io nel volto delle stelle adoro :

Pur quando all’alba l'umile chiesuola,

Che vedi là, m’accoglie, e l’inno ascolto

Delle devote vergini, lo Sposo

Propizianti a’ nostri error, più cara

Né nien solenne dentro mi risuona

La voce dell’ Eterno”.

(…)

Nel superbo pensier tutto raccolto,

«Perchè, dicea, perchè l’ eroica gente

Che pe’ lati Oceàni alle venture

Schiatte prepara gli opulenti seggi

D’ inclite industrie, se comuni i fasti

Ed il sangue ha comun, perchè l’altare

Non ha comune, ed unica non suona

De’ fratelli la prece ? A suo talento

Perchè ciascuno Iddio si foggia, e muta,

Come muta stagion, riti e costumi?

Ah, se custode de’ celesti veri

Autorità non siede e sola il pane

Di sapienza a’ parvoli non frange,

D’ umane fantasie ludibrio, o fìglio.

Vedrai farsi l’Eterno; e stanca l’alma

Del vano fluttuar, come fanciullo

Indispettito che le case atterra

Fabbricate per gioco in sulla sabbia,

Gl’idoli suoi respingere, e la creta

Delirando abbracciar, ultimo nume».

Il dialogo viene interrotto dai canti delle suorine intente al vespro serale nella chiesa del vicino convento. Riprende con la richiesta di Milton di provare il telescopio. Galileo lo fa portare dalla figlia e si lancia in una lunga apologia della rivoluzione resa possibile dallo strumento, con la Terra che ha perso la sua posizione privilegiata (ma la ragione dell’uomo ne è stata glorificata) e con il Sole diventato il centro dell’universo (ma le sue macchie mobili ne turbano la perfezione) :

E questa Terra che un vetusto orgoglio

Dell’ universo salutò reina,

Stabil reina, a cui ministri intorno

Il sole si aggirassero e le stelle

Disseminate per l’immenso vano,

Io, giusto librator, balzai di trono

E fra l’ancelle rilegai. Le toghe

Furibondi squarciar, d’alti clamori

Assordarono i chiostri e le tribune

I novi Scribi, a cui l’adulterato

Aristotile e l’irto sillogismo

Fruttavan agi, riverenza e fama.

Me temerario novator; di Roma

Me schernitor gridarono i maligni.

Me blasfemo e sacrilego: le genti

Teser l’orecchio abbrividendo; un motto

Poi lanciar sul caduto e dileguaro.

Io di Roma nemico? Se di Dio

A lei cale diffondere l’onore.

Opra feci diversa io, che nel tempio

Delle divine glorie non fumante

Cera o vile licor, ma sterminati

Gruppi di soli, pria non visti, accesi?

Io rapitor di sua corona all’ uomo ?

Io che tratta di dosso al vanitoso .

Una porpora irrisa, ale gli diedi

Da spaziar nell’ Infinito, e gli astri.

Ultime scolte a’ limiti del mondo,

Di sua ragion sommettere al comando?

(…)

E tu, vase di fiamma, astro gigante,

Che regalmente la movenza affreni

De’ seguaci pianeti, augusto Sole,

Dell’ immoto tuo soglio e de’ torrenti

Lucidi, che pel nero etra diffondi.

Non superbir! Col vindice baleno

Le mie pupille saettasti intente

Nel tuo volto sovran ; ma non sapesti

Già le tue macchie ascondermi, o nebbioso

Genitor della luce. Ampi di fumo

Oceani io distinsi e. rubiconde

Isole fluttuar entro il tuo seno

Ch’ incessante bufera agita e squarcia.

Finalmente il giovane Milton può accostare l’occhio alla lente del telescopio. Il dialogo tra i due giunge persino ad ipotizzare l’esistenza degli extraterrestri, ma si conclude con un invito di Galileo a non trarre conclusioni che il libro della natura non può e non vuole svelare:

Lo sguardo v’appressò, né lungamente

Stette l’Anglo a mirar, che si ritrasse

Impaurito dell’ arcana possa

Che al ciel pareva avvicinarlo. Immota

Maria sorrise; ed ei riscosso alquanto

Dall’immenso stupor, «Montagne e valli,

Esclamava, toccai! Tra mondo e mondo

Qual ponte hai steso, o Galileo! Ma dimmi :

Quegli aspetti son veri? O vana immago

Svia con bugiarda somiglianza il senso?»

(…)

«E vi son mari e fiumi? Il suol s’ ammanta

D’ erbe e di mèssi? Le felici lande

Sguardo rallegra d’ anime viventi?»

E l’austero Geometra: «Tu chiedi

Più che non possa mia scienza apporti ;

Né mai giorno verrà che a tanto attinga

Intelletto mortal. Ma quando io scerno

Che abitabili piagge han Marte e Giove,

E di spirabil aere vestita

Iride e nembi Venere conosce.

Credibile non panni che Colui,

Che l’ostel fabbricò, voto il lasciasse

D’ abitatori. Esìl grano d’ arena

Nell’oceàn degli esseri è la terra.

Sé noi, cotanto in fondo, i firmamenti

Pur abbracciam coll’alma, e contemplando

Di giro in giro ci leviamo a Dio,

Chi torrammi la fé, che popolate

Sian di più pure, amanti Intelligenze

Le più nobili sfere, e ripercosso

Da tutti quanti i cieli, unico, immenso

Inno di lode al Creator risuoni?

Tal mi detta una fé; sull’alto arcano

Tace scienza.” (…)

.

“Allor ch’ io venni

Ne’ suoi giardini, a me disse Sofia:

Figlio, del mondo le riposte origini

Non ricercar, né a qual lontano termine

L’ universo si volva : impervie tenebre

All’ umana ragion, quando la fiaccola

La Fé non alzi e l'atro calle illumini.

Modesta più, ma men fallace indagine

A te fia di natura il libro svolgere

Che chiuso giace, di segrete sillabe

Tutto vergato e d’incompresi numeri”.

E l’orgoglio dell’uomo non lo spinga alla perdizione. Galileo (cioè Zanella) denuncia l’arroganza dell’uomo che, pieno della sua scienza, si è sostituito a Dio:

L’ uom trascorre la terra, ed al suo cocchio

Docili aggioga le selvagge forze

Che gli evi tenebrosi empiean di larve.

L’ ali incatena al fulmine: il listato

Cinto fura alla luce; e gli elementi

A suo senno stemprando, a novi corpi

Origin dona : civiltà procede,

E di saper, di costumanze e d’agi

Più nobil fassi e più gentil la vita.

Cotanta di trofei mèsse corranno

Lungo il sentier, che ritentando. non io schiusi,

Le non remote età! Di sue conquiste

Il mortai tuttavia non inorgogli;

Né sé creda alle cose unico sire.

Unica legge e fine. I monti adegui :

Misuri i mari: annoveri le stelle ;

Ma dì non sia, che baldanzoso usurpi

Trono non suo (…)

Milton sembra convinto, e si propone di scrivere un’opera sulla caduta dell’uomo provocata dall’orgoglio (sarà il Paradiso perduto):

Che virtù nova dalla tua parola

Attinge, Galileo. Veglio divino!

Poi che sinistro antiveder t’ accora,

E paventi che tumida d’ orgoglio

Scienza contro Dio l’armi non prenda;

Io rammentando al secolo superbo

L’ antico fallo, ond’ abbia esempio e freno,

Dell’ uom la prima inobbedienza e ‘l frutto

Canterò del vietato arbore, amaro

Frutto letal, che sulla terra addusse

Onda infinita di sciagure e morte.

Oltre l’Eden perduto ; infin che scende

Da’ cieli a ristorarne Alma più grande

E ne racquista le beate sedi”. (…)

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