Joyce, la matematica, la fisica

Fortuna scientifica di una parodia

Marco Fulvio Barozzi
Through the optic glass
7 min readJan 6, 2017

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Nel penultimo episodio dell’Ulisse di James Joyce (1922), intitolato Itaca, il protagonista, Leopold Bloom, accompagnato dal giovane intellettuale Stephen Dedalus, dopo abbondanti bevute e una visita in un bordello, torna a casa al numero 7 di Eccles Street a Dublino, la notte successiva al 16 giugno 1904 in cui si sono svolte le vicende della sua Odissea. Joyce concepì il capitolo parodiando il catechismo cattolico in uso nella Chiesa pre-conciliare. Così scriveva nel 1921:

“Sto scrivendo Itaca in forma di catechismo matematico. Tutti gli eventi si risolvono nei loro equivalenti fisico-cosmici, psichici ecc. (…) sicché non solamente il lettore saprà tutto e lo saprà nel modo più secco e freddo, ma Bloom e Stephen diverranno corpi celesti, erranti come le stelle che essi contemplano.”

In seguito definì Itaca “una sublimazione matematico-astronomico-fisico-meccanico-geometrico-chimica di Bloom e Stephen” E, ancora, sosteneva che “l’episodio dovrebbe essere letto da chi è fisico, matematico, astronomo e molte altre cose. Spero tuttavia di trovarne almeno uno”. In realtà la presunta oggettività della forma e dei continui riferimenti scientifici contrasta con il minimalismo delle scene e dei dialoghi descritti, con effetti paradossali. In Itaca non possiamo dire chi faccia le domande e chi dia le risposte: il contesto è spersonalizzato, così come il linguaggio, che sembra talvolta la parodia di un gergo specialistico.

Nell’episodio si trova di tutto, da questioni eminentemente scientifiche ad altre assai pratiche e minimaliste: fisica della materia, termodinamica, arte della perfetta rasatura, filologia, linguistica e fonetica ebraica e gaelica, elenchi di libri e oggetti presenti nella casa, idraulica, comunicazione pubblicitaria, ottica, economia, musica, molta astronomia, studio comparato delle traiettorie dei getti di pipì, l’elenco dei possibili amanti della moglie di Bloom, matematica, con un mucchio di particolari sovrabbondanti e apparentemente inutili, che hanno fatto parlare di “superfetazione verbale”.

Sulle conoscenze matematiche di Joyce i critici sono discordi. Alcuni danno risalto al fatto che egli scrisse di aver odiato da giovane la geometria euclidea, e concludono che non ne sapesse granché, anche a causa di alcuni evidenti errori presenti nell’episodio. Altri invece sono convinti che la sua competenza matematica era buona, mettendo in evidenza come egli si fosse preparato con scrupolo, prima e durante la stesura del capitolo, leggendo molte opere di divulgazione scientifica, tra le quali La scienza e l’ipotesi di Henri Poincaré (1902) e l’Introduzione alla filosofia della matematica di Bertrand Russell (1919). Molti (non tutti) degli errori presenti nel testo sarebbero quindi intenzionali, al punto che c’è chi ha definito l’errore uno dei principali temi del capitolo. In un episodio precedente, a proposito di un presunto sbaglio di Shakespeare, Joyce fa dire a Dedalus una frase significativa: “Un uomo di genio non fa errori. I suoi errori sono voluti e sono i portali della scoperta”.

Gli errori principali, a parte la data 1904 scritta in numerali romani MXMIV invece che MCMIV, sono costituiti da:

  • il riferimento alla partecipazione di Bloom a un concorso governativo con in palio un milione di sterline per chi fosse riuscito a quadrare un cerchio (l’impossibilità della quadratura del cerchio con riga e compasso era già stata dimostrata da Ferdinand Lindemann nel 1882);
  • la confusione a proposito della temperatura dello zero assoluto: “Il freddo dello spazio interstellare, migliaia di gradi sotto il punto di congelamento o zero assoluto Fahrenheit, centigrado o Réaumur (…)”. Qui Bloom sembra ignorare che lo zero assoluto, la temperatura più bassa possibile in tutto l’universo e tuttavia mai raggiungibile, corrisponde a -273,15 °C, cioè a 0 K (Kelvin);
  • le considerazioni assolutamente insensate di Bloom riguardo alle future proporzioni tra le età sua e di Stephen, che differiscono di 16 anni,: “il rapporto cresce e la differenza diminuisce all’aumentare del numero degli anni futuri”, mentre invece il rapporto delle età con il passare del tempo diminuisce costantemente e la differenza rimane costante.

Naturalmente, in Itaca non si trovano solo errori. Dal punto di vista geometrico c’è un bel riferimento al tragitto che i due protagonisti fanno per andare a casa di Bloom, perchè “(…) attraversarono diametralmente insieme la rotonda davanti alla chiesa di St. George, la corda in un cerchio essendo inferiore all’arco che essa sottende”. Poi, verso la fine del capitolo, quando Stephen se ne va, i due si stringono la mano, “le linee delle loro braccia nel gesto d’addio incontrandosi in un punto qualunque e formando un angolo qualunque inferiore alla somma di due angoli retti”.

Soprattutto c’è un passo che è rimasto nella terminologia matematica. Bloom spiega a Stephen le sue meditazioni sull’ordine di grandezza delle distanze e dei volumi delle stelle, del tempo cosmico, del numero degli organismi microscopici e delle cellule. Egli non è a suo agio con numeri così grandi:

“Qualche anno prima, nel 1886, quando era occupato con il problema della quadratura del cerchio, era venuto a sapere dell’esistenza di un numero calcolato con relativo grado di precisione da essere di grandezza tale e di così tante cifre, ad esempio la nona potenza della nona potenza di 9, che una volta ottenuto il risultato, sarebbero stati necessari 33 volumi stampati strettamente di 1000 pagine, (…) per contenere il racconto completo delle sue cifre (…)”.

L’operazione descritta è una torre di potenza, o tetrazione. Si tratta di un elevamento a potenza iterativo, in cui l’elevamento a potenza di a viene iterato n volte:

In onore di questo passo dell’Ulisse, la sequenza che fornisce il numero di cifre di una tetrazione di a^a^a è stata denominata sequenza di Joyce. I primi numeri costituenti la sequenza (OEIS A054382) sono 1, 1, 2, 13, 155, … Partendo da n=0, il decimo posto è occupato da 369.693.100, che è il numero di cifre di 9 alla 9 alla 9 (il numero vero e proprio è circa 1,9662705047555291361807590852691 x 10^77) .

La matematica è poco presente nell’altro celebre romanzo di Joyce, il Finnegans Wake. Tuttavia, questo testo ha meritato un posto d’onore della fisica, perché lo aveva letto Murray Gell-Mann, uno dei teorizzatori dei quark. Secondo quanto egli stesso ha raccontato, egli e George Zweig, che era giunto indipendentemente alle stesse conclusioni, prima di presentare il modello dei quark nel 1964, si trovarono a dover decidere quale nome assegnare a questi costituenti fondamentali delle particelle nucleari. Zweig pensò a Ace, mentre Gell-Mann aveva inizialmente pensato a qualcosa che ricordasse lo starnazzare di un’anatra, tipo quack, ma era incerto. Gell-Mann si ricordò che nel Finnegans Wake c’è la seguente terzina:

Three quarks for Muster Mark!

Sure he has not got much of a bark

And sure any he has it’s all beside the mark.

La parola quark non esisteva: era stata inventata da Joyce per creare un’assonanza con Mark e bark (ringhio, latrato). Gell-Mann spiegò successivamente che la prima riga gli sembrava la storpiatura del comando di un cliente di un pub: “Three quarts for Mister Mark!” (un quart è un enorme boccale di birra da due pinte). Egli aveva comunque trovato il nome che gli piaceva, rafforzato nella decisione dalla presenza del numero tre, che corrisponde ai numero in cui i quark si trovano nel protone e nel neutrone. La suggestione alcolica di Gell-Mann fu preferita all’asettico Ace di Zweig.

C’è da dire che la versione di Gell-Mann è contestata. Altri hanno fatto notare che la parola quark potrebbe essere una sintesi di question mark (punto di domanda), il che, oltre a essere comunque molto joyciano, darebbe la ragione dell’aura di mistero che circondava inizialmente queste subparticelle del nucleo.

Così Joyce ha contribuito sia al linguaggio della matematica sia a quello della fisica: non male per uno scrittore che, a proposito del Finnegans, insistendo sulla quadratura del cerchio, il tentativo di razionalizzare l’irrazionale, scrisse:

“Sto costruendo una macchina con una sola ruota. Senza raggi, naturalmente. La ruota è un quadrato perfetto. Capisci dove voglio andare, vero? Sono terribilmente serio a proposito, ricorda, e non devi pensare che sia una storia ridicola sul topo e l’uva. No, è una ruota, lo dico al mondo. Ed è quadrata”

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Questo articolo è comparso, in forma abbreviata e con il titolo “Joyce e i numeri. Un idillio controverso”, sul numero 8 (2016) della rivista di divulgazione MATE, l’ultimo prima dell’improvvisa chiusura di un periodico che tanto entusiasmo aveva suscitato all’inizio. Un maligno potrebbe addebitarmi la cessazione delle pubblicazioni, visto che era la mia prima collaborazione. I redattori però mi assicurano che i motivi sono altri: meno male.

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