L’ing. Gadda spiega la scoperta del metano

Marco Fulvio Barozzi
Through the optic glass
12 min readFeb 18, 2016

Nella seconda metà del ‘700 si cominciò a studiare sistematicamente la natura dei gas ad opera dei chimici pneumatici. Nel 1750, il medico scozzese J. Black studiò le proprietà delle sostanze che oggi sono note come carbonato basico di magnesio e ossido di magnesio, perché era interessato a comprendere il funzionamento delle basi che venivano utilizzate nella cura dei calcoli alla vescica. Nel corso delle sue ricerche isolò per primo il biossido di carbonio, che egli chiamò aria fissa, intuendo che si trattava di una sostanza diversa dall’aria che normalmente si respira. Fu l’aria fissa a convincere i chimici della generazione successiva che era possibile analizzare e sintetizzare le sostanze inorganiche riconducendole non più agli elementi aristotelici o ai principi paracelsiani, che mai si erano potuti vedere, ma a nuovi elementi, isolabili chimicamente e dotati di precise caratteristiche chimiche. Dopo il biossido di carbonio fu la volta dell’ossigeno (Scheele 1771, e Priestley, 1774) e dell’idrogeno (Cavendish, 1776), ma gli scienziati erano a conoscenza anche di una specie di “aria infiammabile” che si poteva trovare presso le paludi, i pozzi neri e i letamai, dove si decomponeva del materiale organico. Fu Alessandro Volta (1745–1827), che proprio oggi compirebbe 271 anni, il primo a identificare e isolare in quell’aria infiammabile il metano e a studiarne le proprietà di combustibile. Di questo primo risultato dello scienziato comasco, precedente i celeberrimi studi sull’elettricità, parla Carlo Emilio Gadda nelle vesti di divulgatore scientifico, in un articolo pubblicato originariamente nel 1956 che traggo da Azoto e altri scritti di divulgazione scientifica, edito nel 1986 dalla Libri Scheiwiller con il contributo della Montedison.

Gadda, con lo stile che gli è proprio, illustra le modalità della scoperta prendendo spunto dalle lettere inviate da Volta all’amico Carlo Giuseppe Campi (1738–1790), che era stato suo insegnante e aveva tradotto in italiano e pubblicato gli scritti di Benjamin Franklin nel 1774. Lo scrittore lombardo non omette di evidenziare le ingenuità di Volta, in un’epoca in cui erano ancora vive concezioni come quella del flogisto, il misterioso principio di infiammabilità contenuto nei metalli (che sarà abbandonato dopo la legge di conservazione della massa di Lavoisier), e non erano ancora note le proprietà comburenti dell’ossigeno. Si tratta di una lettura che raccomando per comprendere come la ricerca scientifica proceda per tentativi ed errori, sia un impresa collettiva e richieda tanto l’osservazione e la sperimentazione quantitativa quanto l’elaborazione teorica e persino la costruzione di un linguaggio.

Alessandro Volta e il metano

(…) Nel 1776–77, al tempo dell’«aria infiammabile», era nel suo trentaquattresimo anno: un giovane: ma con un valido corso, al suo attivo, di letture, di meditazioni, di esperimenti nella povertà dei mezzi e dei sussidi, e in una tal quale scarsità e durezza del vivere. Tutti riconosciamo in lui non soltanto l’uomo serio e modesto di altissimo ingegno, ma l’appassionato fedele della «verità scientifica» e della ricerca di codesta verità, l’osservatore del «fatto naturale», il devoto alunno dello «sperimento», ch’egli medita, predispone, eseguisce, integra con la potente ragione. Grati alla sua geniale fatica amiamo in lui il concittadino onesto, fermo, sano, saggio; l’uomo che fu in corrispondenza con Lavoisier, con Priestley, con Laplace, che richiama ad onore Newton e Boerhaave e Franklin, che mostra d’aver a mano e direi sott’occhio le loro opere o le loro lettere, e ne medita i paragrafi e gli enunciati: e nelle sue li discute, li discrimina. Il Volta del 1776–77 è per professare fisica nelle Scuole di Como, ma non anco docente universitario allo Studio di Pavia: lo sarà nel ’79. (…)

L’«aria infiammabile delle paludi», cioè il metano, si sviluppa in bolle (in gallozzole dice il Volta) dai fondi degli stagni, dai cumuli di alghe putride o dalle radici dei canneti, e ovunque siano degli steli o sia del legno a marcire. Mescolandosi all’aria, entro certe proporzioni, da luogo ad una miscela esplosiva: ossigeno (dell’aria) più metano: O2 + CH4. Il metano è l’insidioso e terribile grisou delle miniere, massime delle miniere di carbone. È il costituente principale delle sorgenti gassose infiammabili, uno dei componenti delle cosiddette mofete (ivi mescolato ad acido carbonico CO2) e delle cosiddette putizze (ivi mescolato ad acido solfidrico H2S): si libera, è noto, fra i prodotti di distillazione secca del legno, della torba, dei carboni fossili. (…)

Si tratta di sette lunghe lettere indirizzate dal Volta al Padre Carlo Giuseppe Campi. Riguardano il ritrovamento del metano che esala dai canneti dei laghi, dalle pozzanghere, dalle gore paludose, dagli aquitrini melmosi, dai cumuli di letame in fermentazione. La prima lettera è datata da Como il 14 novembre 1776: le altre sono del 21 e 26 novembre, 18 dicembre; 2 gennaio, 14 gennaio, 15 gennaio 1777, tutte da Como. Il volumetto, di 147 pagine, reca eleganti incisioni nelle testate d’ogni lettera: raccolta dell’aria infiammabile ossia del metano in caraffe capovolte sull’acqua, sullo specchio lacustre: sperimenti di accensione e di combustione del medesimo. (…).

Il volumetto si apre con una missiva dedicatoria (del 15 gennaio ’77 essa pure): All’Illustrissimo – Signor Marchese – Francesco – Castelli. «Se negli anni addietro, Illustrissimo Signor Marchese, mancava cos’alcuna alla felice Lombardia Austriaca, perché direttamente» (cioè a buon diritto) «potesse gareggiare colle più famose contrade d’Oltremonti», (oggi diremmo d’oltralpe) «era lo Spirito d’Osservazione, e delle Sperienze». Osservazione. Sperienze. È il «la» nella musica mentale del grande Volta, che in ciò sembra togliere a sua divisa il celebre motto dell’accademia fiorentina del Cimento, istituita nel giugno del 1657 da Leopoldo de’ Medici, l’ultimo figlio di Cosimo II e perciò il minor fratello del Granduca Ferdinando II. «Provando e riprovando», col fornello e coi tre crogioli, fu l’impresa del Cimento. La battuta, ben sapete, è ripigliata da Dante: solchè nel Paradiso dantesco ell’ha un senso meramente logico, vale «dimostrando e ridimostrando per sillogismi». Il Cimento, riprendendola dal Poeta con reverente, con sottile ironia, gioca sul doppio significato del vocabolo, al quale attribuisce il valore ch’esso avrà quind’innanzi per i fisici: «sperimentando e ripetendo l’esperimento».

Quanto poi al marchese Castelli, si trattò d’un brav’uomo, il quale operava da «privato». Seguitò per una cinquantina d’anni a raccattare, e ad accatastare nel suo palazzo imprevedibili paradigmi di crogioli, di fornelli: distillatori, storte, carni le, pinze, grossi barometri torricelliani: tutta la genia polverosa dei vetri e dei turaccioli di che il profano si attedia, e al solo vederli si preoccupa «di non domandare a che cosa servono».

Egli incoraggia il Volta a dare alle stampe le sue lettere: le quali ci recano oggi menzione della scoperta (dell’aria infiammabile) e della conseguente indagine voltiana circa la natura, la consistenza, la accensione, la combustione di quest’aria medesima, che conosciamo essere il gas CH4. Tommaso Henry ne stabilì, 1805, la formula; Marcellino Berthélot, il celebre chimico, arrivò, 1856, ad ottenerlo per sintesi.

Padre Campi aveva osservato (autunno 1776) delle scaturazioni di aria infiammabile nei pressi di San Colombano al Lambro e ne aveva riferito ad Alessandro Volta. Sfumato il disegno di recarsi in loco ad ottobre con un gruppo di «amatori della Scienza» il Volta s’era dato a barcheggiare, a cercare: cioè a rimestare con un legno certi fondi lacustri del suo Lario e del non remoto Verbano: Como, Angera. S’avvide che, muovendo la melma, dell’aria infiammabile aggallava gorgogliando: e la captò in certi vasi di vetro capovolti sull’acqua. Si prese la briga di accostarvi uno zolfanello acceso, una candela; esito costante la fiamma. Ecco, dalla prima lettera (Como, 14 novembre 1776): «Lo svolgersi e il salir su dal fondo attraverso l’acqua (di) vivi gorgogli di aria infiammabile, fenomeno estremamente curioso, in quanto ci sembra o raro, o quasi nuovo, e ci apre la via ad altre importanti ricerche, non è né debbe più riputarsi cosa propria della sorgente da voi osservata» (e invece sì, poiché a San Colombano il gas CH4 era di provenienza geologica) «da poi che io ho raccolto di tal aria in diversissimi siti, da laghi, da stagni, da fonti; ove però non si voglia aver in conto di singolar prerogativa il gorgogliare spontaneamente e tratto tratto» (cioè per impulsi naturali intermittenti) «e in copia grande, come fa l’aria del vostro fonte, quando negli altri conviene, per lo più, eccitare il gorgoglio, con rimestare il fondo».

E nella lettera seconda (da Como, 21 novembre): «Alcuni fossati e certe acque morte, corrotte e puzzolenti brulicano tutte di gallozzole d’aria solo che dolcemente se ne smuova il fondo; anzi, molte di cotali bolle veggonsi comparire qua e là spontaneamente… portatesi a galla, durano ivi gran tempo senza crepare». Altre volte rimuove il fondo nerastro «d’un terreno paludoso, lasciato quasi in secco pel ritiramento del nostro Lario» e provoca l’esalazione di gas con l’affondar nel suolo un bastone, «là dov’era più nericcio o d’erbe guaste ricoperto», così da ricavare un piccolo invaso a bicchiere. Presenta una candelina accesa alla bocca dell’invaso. «Era pur bello il veder nascere subitamente una fiamma azzurrina». Ricavate poi in terra molte fossette contigue, «gli occhi non sapean saziarsi di mirare la fiamma scorrere da una all’altra, ed ora a questa ora a quella appiccar fuoco…» (lettera seconda, pagina 19).

Dal finale della seconda lettera in poi, Don Alessandro considera l’accensione e l’infiammabilità della «sua» aria, al fine di identificarne l’essenza, le proprietà, l’utilizzazione eventuale. Paragona l’aria infiammabile da lui raccolta ad altre arie infiammabili (p. e. a quella che sappiamo essere idrogeno, da acido solforico e limatura di ferro), cerca d’interpretare il significato e la consistenza del fumo, polemizza col Boerhaave riguardo al «puro infiammabile», che il Boerhaave sosteneva esser l’alcool etilico, mentre lui, Volta giurerebbe il metano.

Il nostro fisico è scrittore avvincente, elegante: il suo referto accurato ci viene incontro come un bel disegno, evoca il fatto con estrema nitidezza, e le circostanze del fatto: si penserebbe al Manzoni. Ma s’imbatte in una terminologia pressoché invalida alla quale metton capo, senza ch’egli tuttavia lo sospetti, le idee moribonde del tempo. Egli ricorda (lettera quinta, pagina 69) che l’aria infiammabile, certe volte non s’infiamma per nulla, quando, per esempio, nella caraffa piena s’introduce un carbone. «Un carbone rovente non alluma l’aria infiammabile, ma anzi sommerso in essa vi si estingue». «Se però il carbone è gagliardamente attizzato, non così tosto vien presentato alla bocca della caraffa, ecco l’aria (infiammabile) s’accende…».

In realtà egli erra nel valutare i due fatti: il metano accende nel secondo caso non tanto perché il carbone sia «gagliardamente attizzato» quanto perché viene accostato alla bocca della caraffa, là dov’è presente anche l’ossigeno dell’aria atmosferica. Immergendolo, si spegne soffocato per mancanza di ossigeno.

Certo progresso egli fa quando ammette che prima di dar luogo alla fiamma alcuni combustibili solidi (carboni, legno) subiscano un processo di gassificazione (noi sappiamo parziale), di distillazione secca. Ma poi nega al Boerhaave e ad altri che nel fumo sussistano «carbonchioli», cioè particelle di carbone polverizzato, non bruciato. I fenomeni della combustione imperfetta, per cui la ciminiera effonde CO e CH4 e granuli di carbone incombusto, sono un guaio tecnologico dei più frequenti, dei più evidenti.

Paragonata allo zolfo, alla polvere da sparo, l’aria infiammabile si manifesta più pronta ad accendersi: «Sì, ella è di tempra delicatissima, è prontissima ad ardere, avvampando finanche per l’urto momentaneo d’un fomite, a cui resistono gli altri corpi. In una parola ella è tutta infiammabilità» (lettera quinta, pagina 77). Siamo piuttosto lontani da quello che verrà chiamato, nell’Ottocento, il «sapere scientifico». (…)

Se il vocabolo gas, con particolare applicazione ai gas carbonici e solforosi, naturali o preparati, era già stato coniato da Van Helmont un secolo avanti, in italiano (1775) valeva ancora la parola «aria», plurale «arie», come del resto in inglese. (…) Questa parola comportava il rischio, a non dire la certezza, di un equivoco nozionale insuperabile, cioè di una errata nozione circa la costituzione dei gas: e riusciva, beninteso, di ostacolo a un’indagine ulteriore. È legge pressoché generale, nel meccanismo della conoscenza, che un errore di linguaggio, in quanto errore di rappresentazione, induca in altre rappresentazioni «sbagliate», in altri abbagli, in ulteriori stravaganze.

Galileo, nel suo famoso Dialogo (1629) ci mostra, fra l’altro, come un linguaggio inadeguato ci risospinga indietro verso una cognitiva inadeguata. Il Manzoni sembra aver tratto dal Dialogo di Galileo, dalle argomentazioni di Simplicio, i ragionamenti del suo Don Ferrante, così ferrati nella sillogistica, così stupendamente spropositati di fronte alla realtà della peste, che deposita il filosofo all’altro mondo. Alessandro Volta, nel suo ascendere verso le regioni della fiamma, verso la sfera del fuoco, non poteva non ritrovarsi zavorrato dalla terminologia «scientifica» e soprattutto dalle idee «fisiche» e «chimiche» del tempo, dalle immagini vigenti allora circa le «arie», dette oggi gas. Anzitutto: si credeva che l’aria atmosferica fosse una entità elementare (e non una miscela, come di fatto è) più o meno dotata della capacità d’infiammarsi (deflogisticata-flogisticata), che fosse un «elemento», uno dei quattro di Empedocle: (terra, acqua, aria, fuoco). Con le scoperte di Priestley (azoto, 1776: respirazione delle piante) e con le ulteriori di Cavendish (isolato d’idrogeno, 1776–78: proprietà dell’idrogeno: composizione dell’acqua) e di Lavoisier (ossigeno, acido carbonico, essenza e composizione dell’aria) tutto il castello delle idee sbagliate rovinò, come un castello di carta investito da sternuto. Si vide con chiarezza che l’aria… non è un’aria semplice: è un’aria composta: ossigeno 21 per cento, azoto 78, altri gas 1 per cento. L’aria (atmosferica) flogisticata di Stahl e dei seguaci flogistici è, nelle lettere stesse di Volta, l’aria che ha ripreso il flogisto per aver dato fuoco e fiamma: dunque proporzionalmente più ricca di azoto, e «satura» di acido carbonico: proprio il contrario di quanto uno (oggi) si aspetterebbe. Al limite è una miscela… di azoto e… di acido carbonico. Per contro l’aria deflogisticata è quella che ha buttato fuori il suo flogisto, rendendolo disponibile per un bel focherello. È l’aria ricca di ossigeno: al limite è l’ossigeno. Ciò risulta in modo indubbio da numerosi passi delle lettere voltiane: p. e. lettera terza, pagina 73; lettera settima, pagina 131: immergono uno zolfanello acceso nell’aria deflogisticata. «Non sapevamo saziarci di rimirare la fiammella cilestre, al primo toccar dell’aria, avvivata prodigiosamente e di luce candidissima risfolgorante». Si trattava dunque di ossigeno, certo non di azoto, dove la fiammella si sarebbe estinta. L’aria deflogisticata ha messo fuori il suo flogisto, la sua «buona disposizione» (ibidem) e il metano si accende. Come dire che un orologio va perché ha «messo fuori» la voglia di fare tìc tàc: o che un motore elettrico gira perché «ha messo fuori» la buona disposizione a girare, mentre prima, da fermo, se la teneva ricucita nelle trippe. E ancora, ibidem pagina 131–132 «dentro all’aria deflogisticata che è quanto dire sitibonda e bibace del flogisto…» (dunque, dentro l’ossigeno) «…alcuno dei colori giallo, rossiccio, azzurro, compagni sol di fiamma languida e poco vorace, vi può mai aver luogo; fintante che a poco a poco, deteriorandosi anche quell’aria, pel flogisto che dal corpo che arde vi si scarica addosso, non viene a toccare a mezzana condizione dell’aria comune, o è depravata anche più in là». All’aria comune del corpo che arde «si scarica addosso» (frase deliziosamente coniata, e direi popolare) acido carbonico CO2 = gas residuo della combustione totale del carbonio.

Il Volta non distingue, né altro poteva allora accadergli in quel palude di bubbole e di gazzòzzole, non distingue fra miscela e gas elementare, fra aria viziata dai residui della combustione, per esempio da CO2, e aria depauperata di azoto, arricchita dunque (proporzionalmente) di ossigeno. E chiama ancora aria (infiammabile, è vero) il metano, o in genere, col tempo suo, un gas risultante dalla miscela di più gas, elementari o composti, utili o inutili (cioè combustibili o no), poniamo la miscela classica metano + idrogeno + prodotti carboniosi «volatili» + azoto + acido carbonico.

Scarso è ancora il senso della complessità degli ingredienti secondari, occasionali, provvisori, in una data miscela, da distillazione o da combustione imperfetta: e delle continue mutazioni di equilibrio chimico o semplicemente percentuale tra i vari composti, in relazione soprattutto al regime termico, al tempo.

Per giungere alla conoscenza dell’aria e, poi, del metano, ci volevano ancora alcuni anni, molte idee nuove e chiare, le comunicazioni di Priestley, la rivoluzione scientifica promossa da Lavoisier, Antonio Lorenzo Lavoisier, il fondatore della chimica moderna, l’uomo appunto dell’aria (atmosferica), dell’ossigeno, dell’azoto, il signore della sempiterna bilancia, il «fermier général» (appaltatore generale delle imposte), colui che ricinse Parigi di una inesorabile cintura… daziaria: le mur d’octroi. Scrive di lui A. Quartaroli (Storia della chimica): «Lavoisier comprese per primo la funzione chimica e biologica dell’ossigeno (ossidazione; combustione; respirazione animale) e ne fece il centro di un sistema scientifico in senso moderno. Il fenomeno della combustione, per merito suo, esce dalla confusa penombra delle teorie flogistiche: (Stahl e seguaci). Egli escluse una volta per sempre che il calore fosse una sostanza: lo concepì come un fatto».

Il Volta ci dimostra, con le sue lettere, di avere intuito e di sicuramente credere che l’«aria infiammabile delle paludi», il metano della futura formula di Henry e della futura chimica organica, è un aeriforme ben caratterizzato; il quale si raffiguri in due costanti, geofisica e fisica: emana dai fondali paludosi, dagli acquitrini: si accende all’accostarvi la candela accesa, e dà fiamma bluastra. Il Volta intuisce altresì che l’«aria infiammabile» delle miniere di carbone (il grisou) gli somiglia molto, se pur non è la stessa cosa: e avendo constatato che il «suo» metano può esplodere, ove si affochi in determinate circostanze (noi sappiamo: in determinate proporzioni con l’aria) ci ricorda di avere scritto a Giuseppe Priestley per… avvertirlo del pericolo. Badino, i minatori del Nord, a non soffregare l’acciarino in presenza di aria infiammabile mescolata con l’aria… ordinaria. Il Volta ha dunque individuato una entità geologica o almeno geofisica, e quando anche non sia stato in grado di riconoscerne la formula, cioè la vera natura, il titolo di scopritore del «gas delle paludi» gli spetta direttamente, cioè a buon diritto.

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