La prima foto della Terra vista dalla Luna
Storia poco nota di un’immagine dal fascino inimitabile
Molti pensano che le prime foto della Terra vista dalla Luna siano state scattate dagli astronauti delle missioni Apollo. Ma non è così: furono scattate qualche anno prima dalle sonde robotiche della serie Lunar Orbiter.
Tra il 1966 e il 1967 la NASA inviò in rapida successione ben cinque Lunar Orbiter a mappare dall’alto il suolo lunare, con lo scopo di scegliere i luoghi migliori per l’allunaggio delle successive missioni Apollo.
La prima immagine in assoluto della Terra osservata dall’orbita lunare fu ripresa da Lunar Orbiter I il 23 agosto 1966 alle 16:36 ora del meridiano di Greenwich. La sonda era alla sua 16ª orbita, quando, poco prima che scomparisse dietro la faccia nascosta della Luna, furono inviati da Terra i comandi necessari a farla ruotare su se stessa quel tanto che bastava per inquadrare la Terra crescente, dietro l’orizzonte lunare.
Dobbiamo ricordare che nel 1966 la fotografia digitale non esisteva. Il Lunar Orbiter I era stato spedito in orbita lunare soprattutto per fare fotografie, ma occorreva un sistema per inviare via radio delle foto analogiche: far tornare fisicamente le bobine sulla Terra sarebbe stato, infatti, estremamente complicato e costoso.
La Eastman Kodak, che aveva realizzato il sistema fotografico del Lunar Orbiter, risolse il problema costruendo un laboratorio di sviluppo automatizzato, integrato nell’apparecchio fotografico installato sulla sonda. Una volta sviluppate, le immagini erano scandite da un fotomoltiplicatore e trasmesse via radio a Terra, una riga dopo l’altra, come una specie di FAX ante litteram. L’immagine della Terra scattata il 23 agosto fu inviata appunto in questo modo e fu ricevuta da un’antenna del Deep Space Network della NASA, situata a Robledo De Chavela in Spagna.
La foto inquadrava superbamente la Terra crescente, fornendo per la prima volta un’immagine del nostro pianeta, la casa di ogni forma di vita a noi nota, osservato da un altro corpo celeste. Divenne un’immagine iconica e gli aggettivi per definirla assunsero toni epici. Negli Stati Uniti, e non solo, fu etichettata come la foto del secolo (“the picture of the century”) o, anche, come il più grande scatto dall’invenzione della fotografia (“the greatest shot taken since the invention of photography”). Fu necessario attendere altri sei anni perché una nuova immagine della Terra superasse in maestosità e suggestione emotiva quel primo scatto del Lunar Orbiter I: la celebre vista totale della Terra, passata alla storia come “Blue Marble”, ripresa il 7 dicembre 1972 dagli astronauti dell’Apollo 17.
Una parte poco nota della storia è che la foto della Terra scattata dal Lunar Orbiter I fu un azzardo, un rischio che la NASA decise di correre solo dopo molte discussioni e titubanze. La questione era che la manovra necessaria per far ruotare la sonda lateralmente, seppure possibile in teoria, non era mai stata tentata prima. I responsabili tecnici della missione sapevano che, se non fossero poi riusciti a ripristinare l’assetto corretto della sonda verso la Luna, avrebbero mandato in fumo milioni di dollari e rallentato l’operazione di mappatura del suolo lunare, che era l’obiettivo principale del Lunar Orbiter I.
Per di più, fotografare la Terra non era di per sé un obiettivo scientifico. Era più che altro un’esigenza filosofica e artistica. Prevalse alla fine la linea del rischio, anche in considerazione del fatto che, in caso di successo, i membri del Congresso sarebbero stati favorevolmente impressionati dalla possibilità di usare a fini politici, per primi nel mondo, una vista reale della Terra ripresa dallo spazio.
Alla fine il rischio pagò. L’iniziativa fu coronata da un successo che andò oltre ogni aspettativa. L’immagine inviata a Terra era magnifica e suggestiva e la sonda fu riposizionata correttamente, potendo così continuare il suo lavoro di rilievo topografico. Nel complesso, le cinque missioni Lunar Orbiter mapparono il 99% del suolo lunare riuscendo a risolvere dettagli fino a 60 metri. Grazie a questo lavoro di mappatura, gli ingegneri della NASA poterono disporre di tutte le informazioni necessarie per scegliere i siti di allunaggio che offrissero le migliori possibilità scientifiche con il minor livello di rischio per la vita degli astronauti delle missioni Apollo.
Ma c’è ancora un altro capitolo che riguarda la storia della prima foto della Terra vista dalla Luna.
Tutto il materiale fotografico inviato dai Lunar Orbiter era stato archiviato su chilometri di nastri magnetici (l’era dei dischi fissi e del cloud era ancora di là da venire). Le fotocamere Kodak delle sonde erano equipaggiate con due obiettivi, un tele da 610 mm per le foto in alta risoluzione e un grandangolare da 80 mm per le foto in bassa risoluzione. Ogni coppia di foto inviata alle antenne terrestri veniva registrata su una bobina di nastro magnetico. Poiché si trattava di dati analogici, lo spazio di archiviazione necessario era enorme. Serviva un’intera bobina per archiviare una sola foto nelle due risoluzioni previste. Ogni nastro magnetico conteneva in media l’equivalente di 39 GB di dati, di cui un massimo di 34 GB per la versione in alta risoluzione dell’immagine e di 10 GB per la versione in bassa risoluzione.
Una volta che le 1.478 bobine di nastri magnetici non servirono più per gli scopi del programma Apollo, finirono dimenticate in un magazzino del Maryland. Verso la metà degli anni ’80 furono poi trasferite al Jet Propulsion Laboratory (JPL), sotto la custodia di Nancy Evans, co-fondatrice del Planetary Data System (PDS) della NASA.
Alla fine degli anni ’80, la Evans, in collaborazione con Mark Nelson del Caltech, avviò un progetto per ottenere dei lettori di nastri magnetici FR-900 Ampex in esubero, ormai rarissimi, con lo scopo di rimetterli in funzione, così da poterli utilizzare per digitalizzare — finalmente — il prezioso contenuto delle bobine delle missioni Lunar Orbiter.
L’iniziativa riuscì solo in parte. La Evans e Nelson si scontrarono con problemi tecnici ed economici, tra i quali la difficoltà di rimettere in esercizio gli obsoleti e complicatissimi FR-900. Tempo dopo, Nancy Evans andò in pensione e Mark Nelson ritornò a lavorare nell’industria privata. Le bobine con le foto dei Lunar Orbiter, insieme con quattro lettori FR-900, finirono a prendere polvere per altri decenni in un capannone agricolo di Sun Valley, in California.
Ma c’era un destino migliore in serbo per quel materiale quasi dimenticato. Nel 2005 l’imprenditore Dennis Wingo e l’astrobiologo Keith Cowing del sito informativo NASA Watch vennero a conoscenza dei falliti tentativi di ripristinare il contenuto di quelle bobine e si appassionarono all’idea. In seguito, grazie a fondi privati e al supporto della NASA diedero vita al progetto LOIRP (Lunar Orbiter Image Recovery Project), che aveva finalmente le competenze e i mezzi per portare avanti la digitalizzazione delle foto scattate dai Lunar Orbiter.
Nel 2008, le 1.478 bobine furono trasportate in un McDonald’s abbandonato, in attesa di demolizione, che si trovava presso l’Ames Research Center della NASA, a Mountain View, sempre in California. Allestita lì la loro base operativa, Wingo e Cowing cominciarono a riversare in digitale il contenuto delle bobine, tra cui la famosa prima foto della Terra vista dalla Luna.
La versione digitale dell’immagine, pubblicata nel 2008, sorpassa enormemente per risoluzione e nitidezza l’originale del 1966. Ma quell’originale — con la sua grana grossa da FAX e l’aspetto datato — conserva intatto il fascino insuperabile della prima volta, un fascino che nessuna magia digitale potrà mai eguagliare.
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