La teoria dell’universo simulato

Una guida per orientarsi nell’idea che ciò che ci appare reale sia in realtà un’immensa e sofisticatissima simulazione digitale

Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

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Ricordo ancora con piacere, e un pizzico di sgomento, un libro di Isaac Asimov che lessi da ragazzo. Si intitolava “Catastrofi a scelta” (Mondadori, 1980) e analizzava con ricchezza di dettagli i numerosi modi in cui l’umanità avrebbe potuto finire distrutta. La disamina di Asimov spaziava dalle minacce create da noi stessi, quali guerre atomiche e inquinamento, ai disastri naturali di origine terrestre (maremoti, terremoti, glaciazioni, fenomeni vulcanici colossali), alle minacce provenienti dallo spazio: caduta di asteroidi e comete, morte del Sole, esplosioni di supernova, raggi cosmici e altro ancora.

Asimov non aveva pensato però a un’altra possibile fine improvvisa dell’umanità (o almeno di quella che a noi sembra essere l’umanità), cioè qualcuno che, dall’esterno, stacca la spina al potentissimo supercomputer in cui viene simulata la nostra esistenza: un mondo virtuale che, però, per noi è l’unica realtà possibile, nella quale siamo immersi con i nostri pensieri, la nostra coscienza, le nostre relazioni umane e le nostre percezioni del mondo esterno.

L’idea che il mondo dell’esperienza sia un’illusione

Quella del supercomputer che simula il mondo reale è, in effetti, l’ultima e più moderna incarnazione di un’idea antica, che occupa un posto importante nella storia della filosofia: l’idea, cioè, che la nostra esperienza quotidiana del mondo sia falsa, sia il risultato di un’illusione.

Il mito della caverna di Platone ne è un esempio classico: noi esseri umani — sosteneva il filosofo ateniese ne La Repubblica (IV secolo a.C.) — siamo come prigionieri in una caverna, che scambiano le ombre delle persone e delle cose all’esterno, proiettate sul fondo della caverna, per la vera realtà, senza rendersi conto che quelle ombre sono solo copie sbiadite degli esseri che vivono all’esterno della caverna.

Un altro esempio è il genio maligno immaginato dal filosofo francese Cartesio nelle Meditazioni metafisiche del 1641:

Io supporrò, dunque, che vi sia, non già un vero Dio, che è fonte sovrana di Verità, ma un certo cattivo genio, non meno astuto e ingannatore che possente, che abbia impiegato tutta la sua industria ad ingannarmi. Io penserò che il cielo, l’aria, la terra, i colori, le figure, i suoni e tutte le cose esterne che vediamo, non siano che illusioni e inganni, di cui egli si serve per sorprendere la mia credulità. Considererò me stesso come privo affatto di mani, di occhi, di carne, di sangue, come non avente alcun senso, pur credendo falsamente di aver tutte queste cose. Io resterò ostinatamente attaccato a questo pensiero.

Dal dubbio che tutto il mondo intorno a noi sia un inganno, Cartesio trasse la certezza, se non altro, della sua esistenza come essere pensante. Ma non poté liberarsi dal dubbio che le nostre idee sul mondo siano false, se non confidando nel fatto che esse provengano da Dio, un essere perfetto e infinito, che, in quanto tale, non può essere ingannatore. Scrive infatti Cartesio nel Discorso sul metodo (1637):

Se non sapessimo che quanto vi è in noi di reale e vero viene da un essere perfetto e infinito, per chiare e distinte che fossero le nostre idee, non avremmo nessuna ragione di essere certi che posseggono la perfezione di essere vere.

L’idea che l’universo intorno a noi sia una sorta di grande illusione nasce probabilmente dalla natura mediata della conoscenza: noi non conosciamo le cose per come sono in se stesse, ma per come ci appaiono attraverso i canali sensoriali e le abilità cognitive di cui la natura ci ha dotati. Sappiamo per esperienza che i sensi e la ragione possono in qualche misura ingannare. Anche le conoscenze più astratte e complesse derivano in fondo da “mattoni” semplici. Se quei mattoni che stanno alla base del nostro sapere sono per qualche ragione almeno in parte illusori, tutto ciò che abbiamo costruito sopra di essi può del pari essere illusorio, anche se ci appare internamente coerente.

La forma attuale che ha assunto questa idea antica è appunto quella della simulazione digitale. Il crescere esponenziale della capacità di calcolo dei computer negli ultimi 60 anni ha portato nell’orizzonte del verosimile la possibilità di creare mondi simulati sempre più perfetti, popolati da esseri come noi, ignari di vivere all’interno di una simulazione. La trilogia di Matrix è una popolare e ben riuscita trasposizione cinematografica di una simile possibilità.

Il trilemma di Bostrom

Il filosofo Nick Bostrom, professore all’Università di Oxford, ha usato l’idea di una crescita futura quasi illimitata della potenza di calcolo dei computer come base per formulare logicamente il problema della simulazione. In un articolo del 2003 propose all’attenzione del pubblico un trilemma, una serie di tre proposizioni disgiuntive (cioè che si escludono a vicenda), delle quali una deve essere necessariamente vera:

  1. è molto probabile che la specie umana si estingua prima di raggiungere un livello “post-umano” (intendendo per “post-umano” il livello di una civiltà tecnologicamente avanzata, in possesso di computer con capacità di calcolo incomparabilmente maggiori rispetto a quelle dei più potenti supercomputer attuali);
  2. è estremamente improbabile che una qualsiasi civiltà post-umana faccia partire un numero significativo di simulazioni della propria storia evolutiva (o di sue variazioni);
  3. noi stessi quasi certamente viviamo all’interno di una simulazione digitale.

Il trilemma di Bostrom dice, in parole povere, che, se i nostri discendenti non si estingueranno prima, allora raggiungeranno un livello tecnologico post-umano che consentirà loro di creare simulazioni dei loro antenati indistinguibili, per le menti simulate, dalla vera realtà.

Ora, può succedere che questi discendenti post-umani, per qualche ragione, decidano di non usare la loro capacità tecnologica per avviare tali simulazioni o di farlo solo in rarissimi casi. Se, però, una o più civiltà di una qualsiasi epoca futura decideranno di ricorrere pesantemente all’uso di simulazioni in grado di ricreare i loro antenati, a un certo punto il numero delle menti simulate diventerà esponenzialmente alto a confronto delle menti esistenti in corpi naturali. In tal caso, è allora molto, molto probabile che ciascuno di noi non sia un vero essere umano, ma piuttosto una mente digitale all’interno di una simulazione creata dai discendenti di umani come noi, una mente che crede di vivere nel mondo fisico reale, ma si trova invece in un universo digitale.

Le tre proposizioni di Bostrom si basano sull’idea che la mente e l’autoconsapevolezza siano caratteristiche che possono sorgere ed esistere anche al di fuori dei corpi biologici creati dall’evoluzione. Secondo quest’ipotesi, una tecnologia abbastanza avanzata potrebbe creare una simulazione dell’universo così ricca, completa e realistica che, ad un certo punto, in essa si produrrebbero esseri pensanti come noi. A tali esseri la realtà simulata in cui vivono deve apparire per forza come l’unica vera realtà, perché è interesse dei creatori della simulazione che gli antenati simulati non sappiano di vivere in un universo creato apposta per loro.

Un esempio di applicazione di una simile idea è la serie di fantascienza Westworld, nella quale esiste un parco a tema in cui sono stati ricreati i luoghi dell’epopea del West, abitati da una popolazione di androidi che possiedono una mente digitale. Gli androidi sono stati costruiti per soddisfare i desideri più violenti e perversi di ricchi vacanzieri umani, ma non lo sanno: si percepiscono come normali esseri umani, che vivono (e più spesso muoiono) nella “vera realtà”, un mondo di diligenze e cavalli che per loro è il presente, ma per la società post-umana che gestisce la simulazione è il passato.

Dal trilemma di Bostrom segue una conseguenza sorprendente: la credenza che vi siano chance significative che potremo diventare un giorno una civiltà post-umana in grado di creare simulazioni dei nostri antenati è falsa, a meno di non ammettere che proprio noi, oggi, viviamo all’interno di una simulazione creata ad hoc da una civiltà post-umana.

Lo stesso Bostrom non pensa di vivere realmente in una simulazione, anche se dà a questa possibilità una probabilità piuttosto elevata. Nel proporre il trilemma, il suo scopo non era di convincere il mondo che siamo tutti esseri simulati, ma solo di indurre a riflettere sul fatto che, se le capacità di calcolo dei computer continueranno a crescere nei prossimi secoli con il ritmo esponenziale che hanno avuto negli ultimi decenni, allora esiste davvero un’elevata probabilità che il mondo della nostra esperienza quotidiana non sia la vera realtà, ma un mondo simulato, creato da lontani discendenti di esseri umani come noi (che però non siamo noi).

Come scoprire se viviamo in un universo simulato oppure no?

Se esiste, dunque, la concreta possibilità che il nostro mondo sia una simulazione, come possiamo accorgercene?

Il modo più semplice che viene alla mente, per chi conosce i limiti della programmazione, è attraverso i bug, i bachi del software: anche il programma digitale più sofisticato ha delle pecche e, prima o poi, si verifica una serie di eventi imprevista che le routine esistenti nel programma non sono in grado di gestire.

Il fatto è che, se viviamo davvero in un universo simulato e se i creatori della simulazione sono stati davvero bravi, nessuna mente simulata conserverebbe la memoria di essere incappata in un baco del programma: cosa impedirebbe, infatti, ai creatori della simulazione di riprogrammare la memoria degli antenati simulati, cancellando i ricordi pericolosi ogni volta che qualche indizio fa sorgere dubbi e domande sulla natura della realtà?

Tuttavia, esiste forse anche un’altra possibilità. I creatori della simulazione, per ragioni che hanno a che fare per esempio con la scientificità dei risultati delle loro simulazioni, potrebbero decidere di non intervenire mai, anche se le menti simulate scoprono indizi pericolosi. In tal caso esiste almeno in linea di principio la possibilità di scoprire di trovarsi all’interno di un universo simulato.

Tale possibilità riguarda, più che errori di programmazione, i limiti delle risorse di calcolo disponibili. Anche una civiltà ipertecnologica avanzatissima dovrà, infatti, fare i conti con i limiti di calcolo, quali essi siano, dei loro computer. Dovranno aver studiato, pertanto, un modo per economizzare le risorse da utilizzare.

Se, per esempio, l’obiettivo della simulazione è osservare l’evoluzione sulla Terra degli antenati della civiltà post-umana, serve davvero simulare tutte le infinite stelle e i sistemi planetari dei circa duemila miliardi di galassie nell’universo osservabile? Non sarebbe molto più pratico ed economico approssimare soltanto gli oggetti più lontani, nei limiti in cui è possibile ingannare i nostri più potenti telescopi, in modo che gli astronomi che vivono nella simulazione credano comunque di star osservando delle vere, lontanissime galassie?

E, passando al territorio dell’infinitamente piccolo, serve davvero riprodurre i nuclei di tutti gli atomi fino alla scala dei femtometri (10⁻¹⁵ metri, cioè un milionesimo di milionesimo di millimetro)? Non sarebbe molto più economico allocare le risorse di calcolo necessarie a simularli solo quando qualcuno all’interno dell’universo simulato si prende la briga di fare osservazioni sulla scala dei femtometri?

Anche in questo caso, se i creatori della simulazione sono stati sufficientemente bravi a gestire le risorse di calcolo, le menti nella simulazione non potrebbero accorgersi di nulla. Ogni volta che spingessero lo sguardo lontanissimo nello spazio o fino ai limiti dell’osservabile nel campo submicroscopico, si troverebbero infatti davanti qualcosa che a loro appare reale a tutti gli effetti, perché coerente con ciò che si aspettano di trovare.

Insomma, per portare alla luce indizi della natura simulata del nostro universo, l’unica possibilità che resta è quella di sperare di essere per caso i protagonisti di una simulazione piuttosto primitiva, pur nella ricchezza di mezzi a disposizione di una civiltà post-umana. In tal caso, le risorse di calcolo allocate per la simulazione potrebbero essere così limitate da consentirci di scoprire, spingendo l’osservazione dei dettagli fino ai limiti massimi, che non ci troviamo nel “vero” universo fisico, ma all’interno di un universo simulato.

Ma quali sarebbero poi questi indizi? Principalmente uno: il fatto che, se vivessimo in una simulazione con limiti stringenti di risorse di calcolo, a un certo punto lo spazio-tempo cesserebbe di essere continuo; apparirebbe invece costituito da intervalli discreti, come se avesse una sorta di granularità.

La causa di ciò sarebbe che, alla base di un universo simulato, dovrebbe esserci una griglia, un reticolo di punti che costituiscono gli intervalli minimi lungo i quali ci si può spostare. A una scala sufficientemente piccola, si scoprirebbe pertanto che non si può passare dalla posizione 1 alla posizione 2 passando per un’arbitraria posizione 1,5, ma che esiste solo la possibilità di saltare da 1 a 2. O che gli oggetti non possono avere dimensione 1,5, ma solo dimensione 1 o dimensione 2. Al di sotto della dimensione 1, infine, non apparirebbe più alcuna struttura ulteriore.

Alla ricerca di prove

Esiste qualche prova sperimentale che l’universo in cui viviamo possieda una simile granularità? Per ora no. Uno studio pubblicato nel 2015, con Eric Perlman come primo autore, non aveva a che fare direttamente con l’ipotesi dell’universo simulato, ma ha raggiunto dei risultati che si rivelano interessanti per l’argomento della “granularità” dello spaziotempo.

L’idea alla base dello studio di Perlman e colleghi era quella di trovare verifiche sperimentali del fatto che la struttura dello spaziotempo possa essere soggetta, su scale sufficientemente piccole, alle fluttuazioni previste dai principi della meccanica quantistica. Esistono infatti diversi modelli teorici di gravità quantistica che prevedono che, a livello della cosiddetta lunghezza di Planck (circa 1,6 × 10⁻³⁵ metri), lo spaziotempo non sia continuo, ma formi una sorta di “schiuma” fatta di piccole bolle, che sono l’effetto di fluttuazioni quantistiche.

Intuire l’aspetto di questa strana realtà submicroscopica non è facile. Un paragone utile può essere quello di immaginare di sorvolare l’oceano a bordo di un aeroplano che vola a grande altezza: da lassù la superficie delle acque appare assolutamente continua, piatta e uniforme. Ma, scendendo di quota, cominciano ad apparire le creste e gli avvallamenti delle onde. Scendendo ancora più in basso, si arriva finalmente a scorgere la schiuma che ribolle sulle creste delle onde.

Osservare direttamente la schiuma quantistica è impossibile: apparirebbe, se esiste, a grandezze miliardi di miliardi di volte minori di quella di un nucleo atomico. Tuttavia i suoi effetti potrebbero essere osservabili alla scala opposta delle grandezze, quella delle galassie più distanti. Ed è questa, appunto, la verifica sperimentale tentata da Perlman e colleghi nello studio in questione.

Secondo, infatti, i modelli di gravità quantistica messi alla prova dagli autori, le fluttuazioni che formano la schiuma quantistica si accumulerebbero con il tempo e con la distanza, finendo per rendere sfocate, o addirittura per cancellare, le immagini di oggetti celesti lontani miliardi di anni luce. Gli autori dello studio hanno analizzato dunque le immagini di alcuni distantissimi quasar, acquisite nei raggi X e nei raggi gamma da telescopi spaziali e terrestri, alla ricerca di effetti di sfocatura in grado di confermare o smentire i modelli di gravità quantistica presi in considerazione.

Le immagini dei quasar osservati nelle alte energie si sono però rivelate chiare e definite, come ci si potrebbe aspettare se lo spaziotempo mantenesse la sua struttura uniforme e continua, priva di “bolle” quantistiche, anche su scala submicroscopica.

I risultati dello studio suggeriscono, insomma, che almeno due dei modelli di universo alla base della ricerca sono incompleti o da scartare: l’esame della luce proveniente da quei quasar è compatibile con uno spazio continuo, privo di irregolarità, almeno fino a distanze 1.000 volte minori della grandezza del nucleo di un atomo di idrogeno.

Ciò consente anche di scartare, però, fino a quella scala di grandezza, l’ipotesi che viviamo in una simulazione “primitiva”, con un reticolo di distanze minime in grado di essere rivelato dalla degradazione delle immagini di oggetti celesti lontanissimi come i quasar e i blazar.

Rimane un ultimo indizio che potrebbe rivelare che viviamo in un universo simulato: la distribuzione dei raggi cosmici alle più alte energie. Ne parla uno studio pubblicato su arXiv.org nel 2012, che ha come autori Silas R. Beane, Zohreh Davoudi e Martin J. Savage.

I tre hanno calcolato che la distribuzione dei raggi cosmici più energetici dovrebbe mostrare una anisotropia (cioè non essere uniforme), nel caso vivessimo in un universo simulato con risorse di calcolo limitate. In effetti, qualcosa di simile a un limite di questo genere appare nei dati sperimentali sui raggi cosmici più energetici, ma potrebbe non aver nulla a che fare con la teoria dell’universo simulato.

In conclusione, non abbiamo per ora alcuno strumento in grado di determinare con sicurezza se viviamo in un universo simulato o nel mondo reale. Alcuni, come Elon Musk, sono fermamente convinti che siamo i protagonisti di una simulazione. Altri, come i fisici Lisa Randall e Max Tegmark, pensano di no. Gli autori dello studio del 2012, infine, sono su una posizione che potremmo definire possibilista, come si evince dalle chiusa del loro articolo:

Nondimeno, assumendo che l’universo è finito e che, perciò, le risorse a disposizione di potenziali simulatori sono finite, allora il volume contenente una simulazione sarà anch’esso finito e la spaziatura del suo reticolo deve essere diversa da zero; perciò in linea di principio rimane sempre la possibilità per i simulati di scoprire i simulatori.

Sempre che scoprire un “reticolo” sia l’indizio di un universo simulato e non, più semplicemente, la scoperta di un limite intrinseco della natura, dovuto alle sue leggi.

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Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.