L’ultimo mattone della materia

peppe liberti
Through the optic glass
5 min readNov 10, 2016
credit: Piera Torrano 2016

“La freccia esplicativa punta sempre verso il basso” è lo slogan-manifesto della fisica riduzionista. Stephen Weinberg, premio Nobel per la fisica nel 1979 (con Sheldon Glashow e Abdus Salam) per il suo contributo alla teoria che unifica le interazioni elettromagnetica e debole, ne è sempre stato convinto: riusciamo a comprendere sempre meglio le leggi che regolano l’Universo man mano che osserviamo la materia a distanze sempre più piccole e portiamo alla luce i mattoncini, sempre più fondamentali, con cui rimontare il Lego della Natura. Weinberg, a cui la presunzione non ha mai fatto difetto, ritiene di esser stato il primo ad aver chiamato Standard il modello che raccoglie, organizza e spiega i fenomeni che occupano il gradino più basso nella scala di quelli che siamo in grado di osservare, il limite raggiunto nei grandi acceleratori di particelle. Probabilmente non fu lui ma Sam Treiman, poco importa. Quello che è davvero importante sapere è che il Modello Standard si fonda sulla teoria quantistica dei campi.

Un campo è una grandezza fisica che, da un punto di vista classico, conosciamo fin nei minimi dettagli: è la regione di spazio in cui determinate sorgenti, particelle cariche o pianeti, fanno sentire i loro effetti. Che una calamita sia in grado di spostare la limatura di ferro senza toccarla o che la presenza della Luna non sia indifferente per la Terra (e viceversa) non è certo una novità. Nel mondo subatomico invece, dove le distanze e i tempi tipici dei fenomeni non sono quelli a cui siamo abituati nella nostra esperienza quotidiana, i campi fanno sentire i loro effetti in maniera un po’ diversa. Nel caso dello scontro tra due elettroni, ad esempio, il campo elettromagnetico partecipa al gioco manifestandosi come una particella che media tra i due, il “quanto” della radiazione elettromagnetica, un fotone. L’elettrone, a sua volta, è un oggetto ben diverso da come siamo abituati a immaginarlo, non è più la sorgente di un campo classico ma la manifestazione materiale di un campo quantistico, il “quanto” di quel campo. La teoria quantistica del campo elettromagnetico prende il nome di Elettrodinamica quantistica (QED).

La medesima “visione” si applica ai quark, i costituenti elementari della materia “dura”, quella fatta di adroni appunto, come ad esempio i protoni e i neutroni di cui son costituiti i nuclei atomici. Anche i quark, portatori di una carica detta di colore, sono connessi a un campo detto, per un’analogia imprecisa, cromodinamico (sarebbe stato più corretto chiamarlo cromatico, secondo me) e son legati dentro agli adroni da un’interazione che si chiama forte, perché estremamente più intensa di quella elettromagnetica, mediata dai gluoni. La teoria quantistica del campo “cromatico” si deve a Murray Gell-Mann ed è chiamata Cromodinamica quantistica (QCD). L’analogia nei termini questa volta è perfetta.

Il manuale di montaggio della fisica delle alte energie era stato in gran parte già scritto a meta degli anni ’70 del secolo scorso, contiene alcuni ingredienti di base e ricette assai sofisticate: i quark, che son di sei tipi o “sapori”; i leptoni, le particelle elementari che non son fatte di quark, roba più “leggera”, anche questi in numero di sei (e tra questi l’elettrone e i neutrini); le particelle che mediano le interazioni, non solo fotoni e gluoni ma anche i bosoni W e Z, per l’interazione debole, responsabile dei processi di decadimento radioattivo e che coinvolge i neutrini. L’ultimo ingrediente, ma non il meno importante, è una particella che si manifesta all’interno di un meccanismo in grado di fornire la massa a tutte le altre particelle elementari: il bosone di Higgs, diventato la “particella di Dio” sulla copertina di un celebre libro di Dick Teresi e Leon Lederman (sottotitolo: Se l’Universo è la risposta, qual è la domanda?) e poi onnipresente tra le righe degli articoli divulgativi. Lederman avrebbe preferito chiamarla maledetta (goddam) ma non riuscì ad imporsi, scoprendo che le regole editoriali potevano essere ben più rigide di quelle della fisica.

La formulazione matematica del modello standard, quella che ricorre ai campi, concilia meccanica quantistica e relatività ristretta e due interazioni, quella elettromagnetica e quella debole diventano, in certe condizioni, due facce della stessa interazione, quella elettro-debole. L’interazione forte però se ne sta per conto suo e non c’è la gravità, ché riuscire a conciliare meccanica quantistica e relatività generale, la scala del mondo ultramicroscopico e quella astronomica, è una roba da far vibrare i polsi. Se lasciamo da parte l’ansia unificatrice e guardiamo il modello per quello che è, scopriamo una lista di grandezze fisiche costanti - le masse delle particelle elementari e quelle che specificano l’intensità relative delle varie interazioni - che possono essere determinate solo sperimentalmente e poi incorporate, ad hoc, nella teoria. Questa cosa non deve stupirvi, tutte le teorie scientifiche richiedono dati iniziali al di fuori della teoria prima che possano essere usati per fare previsioni. Il problema del modello standard è che ne ha qualcuno di troppo. Funziona maledettamente bene però, talmente bene che a scommetterci contro ci si rimette di sicuro. Come è capitato a Stephen Hawking, che dopo aver puntato e perso cento dollari contro l’Higgs, ha cominciato a lamentarsi che con la scoperta dell’Higgs la fisica era diventata meno interessante. Una particella, ai suoi occhi, maledetta davvero.

Geoffey Chew, di questa ricerca spasmodica dell’ultimo mattone della materia, non se ne voleva far ragione, e la Teoria Quantistica dei Campi, per lui, era “sterile come un vecchio soldato”. Le individualità era meglio lasciarle da parte: le particelle venivano descritte come elementari e composte allo stesso tempo, impegnate a scambiarsi energia ed informazioni in una fitta ragnatela di interazioni. Nel mondo subatomico di Chew vigeva così una specie di “democrazia” che poteva essere estesa fino all’atomo di Uranio e che per questo veniva chiamata “democrazia nucleare”. La “democrazia” venne spazzata via dalla Rivoluzione di Novembre, con l’annuncio (nel 1974) della scoperta della prima e unica particella a cui avrebbero affibbiato due lettere nel nome, la J/ψ. Una particella davvero speciale, non per il nome ma perché non era più interpretabile come combinazione di qualcuno tra i tre quark all’epoca già rivelati ma di un quarto quark, il charm, previsto dalla teoria, e della sua antiparticella.

Lo sforzo della scuola di Chew, degli olisti, se così si posson chiamare, non aveva retto alla verifica sperimentale e aveva infine prodotto solo un bel po’ di cattiva filosofia, quella tracciata nel Tao della fisica da Fritjof Capra, e tanta buona matematica, buona anche per la scuola avversa, quella guidata da Gell-Mann. La teoria di Chew, va detto, si limitava a interpretare a modo suo l’universo che i nuovi grandi acceleratori stavano portando alla luce, nulla che fosse al di là del misurabile. Tra le sue pieghe però stava prendendo forma, ben celata, qualcosa di ben più ambizioso e radicale, una teoria che non avrebbe mai potuto essere verificata o smentita da alcun esperimento, quella che avrebbe fatto sputare le particelle da cordicelle vibranti nascoste ai limiti del conoscibile. Qua è dove ve la racconto.

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