L’universo si espande senza sosta, ma a che velocità esattamente?

Michele Diodati
Through the optic glass
11 min readFeb 2, 2017

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Rappresentazione grafica del metodo della scala delle distanze, usato dal team di Adam Riess per determinare il valore della costante di Hubble. Credit: NASA, ESA, A. Feild (STScI), A. Riess (STScI/JHU)

L’universo è in continua espansione. Questa espansione si manifesta come creazione di nuovo spazio tra le galassie, le quali, in conseguenza di ciò, appaiono allontanarsi quasi senza eccezione le une dalle altre. La velocità con cui l’universo si espande prende il nome di costante di Hubble, dal nome del grande astronomo Edwin Hubble, che ne determinò il valore nel 1929, misurando lo spostamento verso il rosso degli spettri di una serie di galassie. La scoperta di Hubble, anticipata da misurazioni compiute da Vesto Slipher già nel 1917, confermava in via sperimentale l’espansione dell’universo, predetta in via teorica da George Lemaître nel 1927 sulla base delle equazioni della relatività generale.

Il valore della costante di Hubble, che Hubble medesimo aveva enormemente sovrastimato, è stato più volte aggiornato nel corso del tempo, con diversi metodi. Le due misurazioni più recenti sono state pubblicate in una serie di studi tra il 2016 e l’inizio del 2017, grazie al lavoro di due team di ricercatori, che hanno prodotto stime molto simili tra loro, pur adoperando due metodi completamente differenti.

La costante di Hubble calcolata per mezzo della scala delle distanze

Il primo dei due team — guidato da Adam G. Riess, premio Nobel 2011 insieme a Saul Perlmutter e Brian Schmidt per la scoperta dell’espansione accelerata dell’universo — ha pubblicato i suoi risultati su The Astrophysical Journal a luglio 2016. In questo studio, il valore della costante di Hubble è stato calcolato con il metodo della scala delle distanze, basato sulle cosiddette candele standard: oggetti celesti che hanno comportamenti ben noti, in virtù dei quali gli astronomi sono in grado di inferire la loro luminosità intrinseca a partire dalla luminosità apparente, osservata dalla Terra. Dal rapporto tra luminosità apparente e luminosità intrinseca è possibile poi derivare la loro esatta distanza dalla Terra.

Le variabili Cefeidi sono le candele standard che il team di Riess ha adoperato come gradini iniziali della scala delle distanze. Si tratta di stelle che pulsano ritmicamente (come la Stella Polare), con lunghezze del periodo di pulsazione strettamente correlate alla loro luminosità: una scoperta di importanza fondamentale per l’astrofisica, il cui merito va a Henrietta Swan Leavitt.

Estendendo molto oltre i limiti precedenti il metodo della parallasse trigonometrica grazie ad alcune sottigliezze nell’utilizzo del telescopio Hubble, i ricercatori hanno potuto determinare con precisione la distanza di diverse Cefeidi galattiche. Si sono serviti poi del rapporto luminosità/periodo per stimare la distanza di oltre un migliaio di altre Cefeidi dislocate in varie galassie (375 nella sola galassia di Andromeda), fino a una distanza massima di 25 megaparsec, cioè circa 81 milioni di anni luce, oltre la quale le stime non risultavano più affidabili. L’intero set di dati sulle Cefeidi è stato ricavato da osservazioni compiute con il telescopio spaziale Hubble, in modo da eliminare i fattori di incertezza che sarebbero stati introdotti con l’uso di strumenti differenti.

Il gradino successivo usato per costruire la scala delle distanze sono state le supernovae di tipo Ia. Poiché anche per queste supernovae esiste una relazione precisa tra luminosità intrinseca e luminosità apparente, è possibile ricavare la loro distanza dalla Terra analizzando le loro curve di luce (cioè l’evoluzione nel tempo della luminosità), una volta che sia stata ottenuta per altri mezzi la distanza effettiva di alcune di esse.

Ed è esattamente quello che i ricercatori hanno fatto: di 19 galassie in cui erano esplose supernovae di tipo Ia, il team di Riess ha potuto ottenere stime molto precise della distanza, sfruttando il fatto che in quelle stesse galassie era presente anche una serie di variabili Cefeidi, la cui distanza era già stata definita con accuratezza con il metodo descritto più sopra.

Una volta costruito anche questo gradino, la scala delle distanza è stata estesa, infine, alle galassie più lontane in cui erano esplose supernovae di tipo Ia, per un totale di 300 supernovae in tutto.

Il valore della costante di Hubble ottenuto dal gruppo di Riess al termine di questo complesso lavoro è stato di 73,24 ± 1,74 km/s per megaparsec, con un margine d’errore che corrisponde a un’incertezza del 2,4%. Se, dunque, tale stima è corretta, per ogni secondo che passa le dimensioni dell’universo crescono di 73,24 km per megaparsec.

Le implicazioni a lungo termine del valore della costante di Hubble

Ma quanto è lungo un megaparsec? Molto. In termini umani un megaparsec è una distanza immensa. Equivale a 3,262 milioni di anni luce, che, tradotto in chilometri, fa 30.856.776.000.000.000.000. Davvero troppe cifre! Usando la notazione scientifica, molto più compatta, “riduciamo” 1 megaparsec a 3,1 × 10¹⁹ km. Il valore calcolato per la costante di Hubble indica, allora, che, ogni secondo che passa, la distanza di 3,1 × 10¹⁹ km si allunga di 73,24 km.

Un simile ritmo di espansione — poco più di 73 km ogni 31 miliardi di miliardi di km — potrebbe suggerire a uno sguardo superficiale che l’espansione dell’universo è, su scale intergalattiche, un fenomeno pressoché insignificante: lo spazio si espande, infatti, tutto sommato, di poco più di 2 miliardesimi di miliardesimo di megaparsec al secondo (2,37 × 10⁻¹⁸ Mpc/s per la precisione).

Sembra pochissimo, ma a ben vedere non lo è. Il fatto è che, di secondi, nella storia dell’universo — vecchia di ben 13,8 miliardi di anni — ce ne sono stati veramente tantissimi. E continuano inesorabilmente ad aumentare ogni volta che l’orizzonte del presente si sposta in avanti di un nuovo secondo. Al ritmo calcolato dal team di Riess ci vogliono 4,213 × 10¹⁷ secondi (0,421 miliardi di miliardi di secondi) perché venga creato così tanto spazio che la distanza di 1 megaparsec raddoppi a 2 megaparsec. È un tempo che corrisponde a 13,36 miliardi di anni, pari al 97% dell’età stimata dell’universo.

Si potrebbe obiettare che, in un tempo così lungo, un raddoppiamento delle distanze non è poi una gran cosa. Ma l’obiezione non tiene conto del fatto che l’espansione dell’universo funziona un po’ come funzionano gli interessi composti in economia, con conseguenze che sono stupefacenti (o mind boggling, come direbbero gli anglosassoni).

Una delle conseguenze, per esempio, è la dimensione dell’orizzonte dell’universo osservabile, cioè il limite massimo di distanza a partire dal quale un segnale luminoso, emesso subito dopo il Big Bang, può aver avuto il tempo di raggiungere un osservatore qui sulla Terra. Visto che la velocità della luce è fissa, si potrebbe pensare che tale limite di distanza corrisponda all’età dell’universo: 13,8 miliardi di anni luce. Invece, grazie all’ininterrotta espansione dell’universo avvenuta dal Big Bang a oggi, il confine dell’universo osservabile si trova molto più lontano: a circa 46,2 miliardi di anni luce da noi.

Un’altra conseguenza impressionante è che, data una distanza sufficiente tra due galassie, la quantità di spazio che viene creata ogni secondo tra di esse è maggiore della distanza che si può coprire alla velocità della luce, sicché la luce di ciascuna delle due galassie non potrà mai raggiungere l’altra, in nessuna epoca futura: ognuna delle due galassie si trova, cioè, al di là dell’orizzonte degli eventi dell’altra. In sostanza, a mano a mano che l’universo continua a espandersi, diminuisce il numero delle galassie che potremo mai sperare di raggiungere, sia pure solo con segnali luminosi, in una qualsiasi epoca futura. Il futuro remoto dell’universo è fatto di “isole” galattiche tenute insieme dalla gravità, disperse in un mare pressoché infinito di oscurità.

La costante di Hubble calcolata per mezzo di quasar e lenti gravitazionali

Visto che ha implicazioni così enormi, siamo sicuri che il ritmo di espansione dell’universo espresso dalla costante di Hubble sia un fenomeno reale? Pare proprio di sì. In una serie di articoli scientifici pubblicati negli ultimi mesi, un secondo team di ricercatori ha presentato una nuova stima del valore della costante, usando un metodo del tutto indipendente da quello adoperato dal gruppo di Riess, ma ottenendo alla fine un risultato molto simile.

Il gruppo di astronomi, guidato da Sherry Suyu, fa parte della collaborazione H0LiCOW (H₀ Lenses in COSMOGRAIL’s Wellspring, in cui H₀ è il simbolo adoperato in gergo scientifico per indicare la costante di Hubble). Il nome richiama ironicamente un’esclamazione di sorpresa della lingua inglese — “Holy cow!”, letteralmente “Santa mucca!” — ma si riferisce, nello specifico, all’uso di fenomeni di lente gravitazionale per determinare il valore della costante di Hubble.

Alla base di questa nuova misurazione c’è infatti l’osservazione pluriennale di una serie di lontanissimi e brillantissimi quasar (nuclei galattici attivi dell’universo primordiale), le cui immagini sono state moltiplicate da lenti gravitazionali, prodotte dalla massa di galassie interposte a metà strada tra quei quasar e la Terra lungo la nostra linea di vista.

I cinque quasar con immagini multiple prodotte da lenti gravitazionali, studiati dalla collaborazione H0LICOW per determinare il valore della costante di Hubble. Credit: ESA/Hubble, NASA, Suyu et al.

La lente gravitazionale è un fenomeno previsto dalla relatività generale di Einstein: la massa di una galassia interposta agisce come una lente d’ingrandimento cosmica, producendo immagini multiple, amplificate e distorte degli oggetti di sfondo — nel nostro caso i quasar — che si trovano casualmente allineati con la lente. Se, come spesso capita, l’allineamento non è perfetto, le immagini multiple si formano seguendo ognuna un percorso della luce di lunghezza differente. In tal caso, se la sorgente remota, cioè il quasar, varia di luminosità nel corso del tempo, la serie delle sue variazioni di luminosità apparirà in ciascuna immagine prodotta dalla lente gravitazionale con un ritardo caratteristico, strettamente dipendente dalla geometria del percorso seguito dalla luce per formare quella particolare immagine.

Ma il ritardo con cui appaiono le variazioni di luminosità dei quasar nelle immagini multiple create dalla lente dipende anche, altrettanto strettamente, dalla misura dell’espansione dell’universo, cioè dalla costante di Hubble. Ecco dunque che, se si riesce a ricostruire con sufficiente precisione la medesima serie di variazioni di luminosità in tutte le immagini del quasar prodotte dalla lente gravitazionale e a misurarne il ritardo, si ha un metodo molto potente — dipendente solo dalla geometria e dalla relatività generale — per stimare il valore della costante di Hubble.

Il risultato finale ottenuto dalla collaborazione H0LiCOW è stato di 71,9 km al secondo per megaparsec, con margini di errore di +2,4 e −3,0 km al secondo per megaparsec: un’incertezza che corrisponde al 3,8% (contro il 2,4% di incertezza nel calcolo della costante fornito dal gruppo di Riess).

Rappresentazione schematica del fenomeno di lente gravitazionale

Tensione tra i valori della costante di Hubble e possibili spiegazioni

Dunque, i valori della costante ottenuti dai due team di ricercatori, pur nella diversità dei metodi usati, sono molto simili. Ciò rappresenta evidentemente un forte indizio a sostegno della correttezza del valore stimato della costante di Hubble e, di conseguenza, della velocità di espansione dell’universo che essa simboleggia.

Ma le cose sono davvero così chiare e sicure? Non proprio.

Nel 2015 erano stati resi noti gli ultimi e più accurati risultati della misurazione della costante di Hubble, ottenuti a partire dai dati accumulati dal satellite Planck dell’ESA nella sua missione durata dal 2009 al 2013. Il valore calcolato sulla base dei dati forniti da Planck è stato di 66,93 ± 0,62 km al secondo per mepagarsec, una stima minore di 4–6 km/s rispetto a quella ottenuta dal team di Riess.

Come si spiega questa differenza?

Innanzitutto, va chiarito che il valore della costante misurato dal satellite Planck si basa su dati completamente differenti da quelli utilizzati dal team di Riess e dalla collaborazione H0LiCOW. Planck ha osservato, infatti, per quattro anni le fluttuazioni della CMB, la radiazione cosmica di fondo, che pervade l’universo in ogni direzione e rappresenta — secondo il modello cosmologico dominante — l’eco del Big Bang.

Ciò vuol dire che il valore della costante di Hubble determinato attraverso i dati di Planck è una “fotografia” della velocità di espansione dell’universo agli albori della storia dell’universo medesimo, poche centinaia di migliaia di anni dopo il Big Bang. Invece, il valore della costante calcolato dai due gruppi facenti capo ad Adam Riess e Sherry Suyu si basa sulla velocità di espansione dell’universo misurata nel presente e nell’universo locale. C’è di mezzo, in sostanza, l’intera evoluzione dell’universo dall’epoca della CMB a oggi.

Esiste solo lo 0,1% di probabilità che la differenza tra il valore della costante di Hubble derivata da Planck e il valore calcolato con il metodo della scala delle distanze sia il frutto di una casualità statistica. Se dunque la differenza è reale, devono esserci altre spiegazioni.

Valori della costante di Hubble e relativi margini di incertezza calcolati con i diversi metodi illustrati dalla legenda. “Local Universe” rappresenta il valore della costante ottenuto considerando congiuntamente i risultati del metodo della scala delle distanze e quello delle lenti gravitazionali. Credit: V. Bonvin et al., MNRAS (2016) 465 (4): 4914–4930

Una possibilità è che vi siano stati degli errori sistematici non ancora individuati nelle misurazioni della costante fatte nell’universo locale o in quella basata sui dati di Planck.

Una seconda possibilità — proposta nell’articolo pubblicato dal team di Riess — è che la differenza dipenda dalla concentrazione di materia (oscura più barionica) nella regione di universo in cui ci troviamo. In un universo del tutto isotropico e omogeneo, il valore della costante di Hubble calcolato a partire dalla radiazione cosmica di fondo dovrebbe essere uguale a quello ricavato dalle misurazioni fatte nell’universo locale usando candele standard come le variabili Cefeidi e le supernovae di tipo Ia. Ma la Via Lattea — la galassia a cui il sistema solare appartiene — rappresenta una concentrazione di materia che rende la sua distribuzione disomogenea rispetto alla distribuzione universale media. Tale disomogeneità potrebbe essere all’origine della differenza riscontrata nel valore della costante, anche se il calcolo basato sui quasar e le lenti gravitazionali dovrebbe essere molto meno sensibile a questo problema.

Un’altra possibilità è che vi sia una caratteristica inattesa, non prevista dall’attuale modello cosmologico, che connette le misurazioni nell’universo locale e quella basata sulla CMB. La differenza potrebbe essere, per esempio, la conseguenza di una variazione improvvisa della spinta della cosiddetta energia oscura sulla velocità di espansione dell’universo. Nell’articolo scientifico prodotto dal gruppo di Riess si ipotizza, appunto, che la differenza nel valore della costante di Hubble potrebbe essere stata causata da una forte variazione dell’energia oscura avvenuta o molto di recente o in un passato molto remoto (cioè in tempi cosmologici in cui z, il valore dello spostamento verso il rosso, è compreso tra 3 e 1000). Tuttavia, gli autori avvertono anche che una simile spiegazione, benché non possa essere esclusa del tutto, è viziata in partenza dal fatto che richiede una taratura ad hoc, molto precisa e stringente, del parametro rappresentato dall’energia oscura.

Un’ulteriore possibilità è che la tensione tra i valori della costante di Hubble dipenda dalla radiazione oscura. Il termine “oscuro” ricorre spesso nelle teorie cosmologiche degli ultimi decenni: secondo il modello teorico dominante, gran parte della materia/energia che riempie l’universo esiste proprio nella forma di energia e di materia oscura. Nell’ipotesi formulata dal team di Riess per spiegare la discrepanza tra i valori della costante di Hubble, la radiazione oscura è da intendersi come una forma di radiazione che, a differenza della radiazione elettromagnetica, non interagisce in alcun modo con la materia comune. Il candidato ideale che soddisferebbe la differenza riscontrata nei valori della costante di Hubble sarebbe una quarta specie di neutrino, in aggiunta alle tre già accettate nel modello cosmologico standard (il cosiddetto modello ΛCDM, acronimo di Lambda cold dark matter, al quale fanno riferimento le varie misurazioni della costante di Hubble).

È impossibile per il momento decidere quale misurazione del valore della costante di Hubble sia quella corretta. E non si può conciliare la tensione tra i valori calcolati, se non ricorrendo ad assunzioni ad hoc. L’unica possibilità per capirne di più è ottenere nuove misurazioni della costante con margini d’incertezza sempre più ridotti. Per esempio, le precisissime misurazioni degli angoli di parallasse che il satellite Gaia dell’ESA sta effettuando su milioni di stelle consentiranno con ogni probabilità di affinare ulteriormente la scala delle distanze, con la speranza di arrivare entro pochi anni a un margine d’incertezza nel calcolo della costante di Hubble non superiore all’1%.

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Michele Diodati
Through the optic glass

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.