Marat, tra fisica e rivoluzione

Un caratteraccio, non un ciarlatano

Marco Fulvio Barozzi
Through the optic glass
10 min readOct 7, 2016

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Sembra piuttosto strano trovare fra i precursori del concetto di lente gravitazionale il nome di Jean-Paul Marat. Sì, proprio Marat, colui che è accusato di aver ordinato i massacri del settembre 1792 e di aver fatto ghigliottinare il chimico Lavoisier, l’inflessibile giacobino Amico del Popolo, ucciso nella vasca da bagno da Charlotte Corday e ritratto in un famoso quadro di David.

Non tutti infatti sanno che Marat, oltre che giornalista e politico, fu sperimentatore di fisica. Nato nel 1743 a Neuchâtel, acquisì una cultura medica da autodidatta; a ventidue anni si trasferì in Gran Bretagna, dove diventò massone e ottenne nel 1775 la laurea in medicina nell’università scozzese di St. Andrews. Tornato in Francia l’anno successivo, fu nominato medico delle guardie del Conte d’Artois, il fratello del re. La sua abilità gli consentì una rendita cospicua, con la quale poté comprare la strumentazione scientifica per eseguire esperimenti su vari soggetti, in particolare sul fuoco, i fenomeni elettrici e quelli ottici.

Il periodo più intenso della sua attività sperimentale fu tra il 1778 e il 1782. Le sue principali opere sul calore (Recherches physiques sur le feu, 1780), la luce (Découvertes sur la lumière, 1780) e l’elettricità (Recherches physiques sur l’électricité, 1782) furono pubblicate in quegli anni. Marat godette di un certo prestigio: i suoi libri furono tradotti e pubblicati in Germania, recensiti da giornali importanti e citati nelle opere di altri filosofi naturali e sperimentatori. Anche Alessandro Volta fece una visita al laboratorio di Marat, durante la quale espresse il suo scetticismo su un’ipotesi. che adirò Marat e originò una mutua inimicizia.

L’Accademia delle Scienze parigina nominò per due volte delle commissioni affinché assistessero ai suoi esperimenti e ne facessero una relazione. Nel 1778, ai quattro accademici incaricati si aggiunse Benjamin Franklin, che partecipò a una serie di visite al laboratorio di Marat per verificare la sua teoria sulla natura del calore. Nella memoria che aveva presentato, Marat sosteneva che il fluido igneo – diverso dal fluido dell’elettricità e della luce – è costituito di corpuscoli pesanti e trasparenti, il cui movimento produce gli effetti del calore. Il rapporto ufficiale della commissione, pubblicato il 17 aprile 1779, fu abbastanza favorevole, anche se non si pronunciava sull’esistenza del fluido igneo.

Nel 1780, invece, quando la commissione fu chiamata a osservare il suo lavoro nel campo dell’ottica, il rapporto fu intenzionalmente redatto con mesi di ritardo, ed era breve ed evasivo. In Découvertes sur la lumière, Marat esprimeva esplicitamente la sua intenzione di correggere un dogma fondamentale della teoria dei colori di Newton, il che equivaleva a un atto di lesa maestà, perché l’autorità dell’inglese era indiscussa. I membri dell’Accademia serrarono i ranghi contro di lui, rifiutando di prendere in considerazione le sue idee. Il fatto che, con il senno di poi, sia risultato che Marat avesse torto non giustifica una chiusura così preconcetta alla luce delle conoscenze di ottica che si avevano allora. Le indagini di Marat sulla curvatura della luce quando passa vicino alla superficie degli oggetti, fenomeno riportato per primo dal gesuita italiano Francesco Grimaldi in un’opera postuma nel 1665, ponevano l’attenzione su una classe di fenomeni poco indagati, che avrebbero potuto dimostrarsi di importanza cruciale per lo sviluppo della disciplina.

L’osservazione comune che un’intensa sorgente di luce disegna un’ombra ben definita porta naturalmente all’idea che i raggi di luce viaggino lungo linee perfettamente rette. Negli esperimenti condotti in una camera oscura, tuttavia, Grimaldi scoprì una leggerissima deviazione della luce quando passa accanto ai bordi degli oggetti.

Grimaldi aveva chiamato “diffrazione” questo comportamento inatteso della luce, dicendo che ciò comportava che la luce è un fenomeno ondulatorio. Forse ancor più sorprendente fu la sua osservazione di bande di colori appena percettibili nelle frange delle ombre proiettate sulle pareti della sua camera oscura. Nel 1672, sette anni dopo la pubblicazione del libro di Grimaldi, Robert Hooke osservò la stessa particolare deviazione della luce e le frange colorate, senza tuttavia conoscere l’opera dell’italiano.

Nel frattempo, Newton aveva iniziato le sue osservazioni ottiche. La sua attenzione principale era diretta verso la produzione di colori nel passaggio della luce solare attraverso un prisma. Alla fine di una serie di esperimenti con la camera oscura, annunciò che i diversi colori dello spettro erano tutti presenti originariamente in un raggio di luce solare; essi erano separati e dispersi dal prisma in una banda iridata perché ogni colore e rifratto un po’ più o un po’ meno degli altri. Egli chiamò questo fenomeno “rifrangibilità differenziale”.

Sebbene Newton avesse posto la rifrazione al centro della sua dottrina dei colori, mostrò anche un certo interesse per la inaspettata curvatura della luce intorno agli oggetti. In una comunicazione del 1672, in cui annunciava la sua teoria ottica, egli ammise di non essere sicuro di come essa potesse conciliarsi con il resto delle sue scoperte e lasciò il problema insoluto per i fisici del futuro. Tuttavia, le prime indagini sulla diffrazione di Grimaldi, Hooke e Newton non ebbero alcun seguito degno di nota fino a che Marat incominciò a occuparsi del fenomeno.

Secondo Marat, i colori non sono originati dalla diffrazione della luce solare, come riteneva Newton, bensì dalla curvatura della luce ai margini degli oggetti. La separazione dei colori non avveniva nel prisma di Newton, ma soprattutto ai bordi della fessura attraverso la quale la luce solare entrava nella stanza: il prisma serviva solamente ad amplificare il fenomeno. Inoltre Newton aveva commesso un altro errore: i colori dell’iride non sono sette, ma solamente tre. Essi «si limitano al giallo, al rosso e al blu, perché quando si scompongono i raggi di luce ai quali è esposto un corpo isolato, essi si limitano a questi soli tre colori differenti, sia in una camera oscura sia all’esterno, per la luce solare o quella di una candela».

Che cosa attirava la luce verso i bordi della fessura? Secondo Marat, «Da questi esperimenti e da altre centinaia simili, concludiamo che i corpi attraggono la luce». Marat si dimostrò piuttosto ambiguo sui motivi e sulle modalità di questa attrazione e sembrava propenso a darne più una spiegazione chimica (“un facteur d’affinité”) che gravitazionale, anche se la modalità è newtoniana (“en raison du carré inverse de la distance”). Egli riteneva si dovesse riconoscere questo fenomeno, importante quanto la riflessione e la rifrazione.

La commissione prese le distanze da queste conclusioni, argomentando che gli esperimenti di Marat non erano sufficienti a provare quanto da lui sostenuto, che, essendo in contrasto con quanto era generalmente conosciuto sul soggetto, non poteva ottenere l’approvazione richiesta. Insomma, gli illuminati membri dell’Accademia utilizzavano il principio di autorità: Marat andava contro Newton, perciò aveva torto.

La reazione di Marat fu di profonda delusione, ma non esprimeva l’astio che più tardi manifestò contro l’Accademia. La rabbia maturò per un altro episodio, avvenuto tre anni più tardi, che inacidì lo sperimentatore e compromise definitivamente i suoi rapporti con l’istituzione, portando a reciproche accuse di ciarlataneria.

Nella seconda metà del 1783, su iniziativa di un suo nobile ammiratore, Philippe Roume de Saint Laurent, si prospettò la nomina di Marat a presidente dell’Accademia delle Scienze spagnola, ma la cosa non ebbe seguito. L’ambasciatore spagnolo a Parigi, incaricato di raccogliere informazioni sul suo conto, riferì che gli accademici francesi avevano scarsissima considerazione di Marat, sia sul piano scientifico che su quello politico: lo si definiva un sovversivo. La candidatura fu abbandonata e, poiché quelle notizie raggiunsero la corte, egli perse il suo incarico presso il conte d’Artois. Improvvisamente impoverito, colpito da una malattia della pelle che non l’avrebbe più abbandonato, egli tuttavia continuò la sua attività scientifica, che espose in alcuni opuscoli di discreta qualità, nei quali descriveva accuratamente gli esperimenti e la strumentazione usata e cercava di dare una spiegazione teorica alle sue osservazioni. Nelle accademie della provincia Marat poteva contare su amici influenti e continuò a intrattenere relazioni produttive con alcune di esse fino alla fine del decennio.

Un episodio del marzo 1783, che fece molto rumore nella comunità scientifica parigina, testimonia il carattere difficile e irruento di Marat. Egli venne infatti alle mani con il fisico Jacques Charles, che allora era poco noto, ma in seguito divenne membro dell’Accademia (da lui prende il nome la legge che mette in relazione il volume di un gas con la temperatura assoluta). In una conferenza pubblica, Charles aveva fortemente criticato gli esperimenti ottici di Marat e la sua pretesa di confutare Newton. Venutolo a sapere, questi affrontò il collega. Ne seguì un alterco che degenerò in una violenta lite. Ne seguì una sfida a duello, impedito dall’intervento preventivo della polizia.

Marat fu uno dei primi (e fedeli) traduttori in francese della Opticks di Newton, pubblicata nel 1787 dopo essere stata approvata dalla Accademia, alla quale Marat fece arrivare prudentemente una copia in cui non compariva il suo nome. La sua ultima pubblicazione scientifica, le Mémoires académiques (una collezione di quattro saggi di ottica che aveva inviato alle accademie provinciali), fu pubblicata nel 1788, solo un anno prima della Rivoluzione. Egli stava preparando anche un nuovo Traité d’optique, ma la politica interruppe il suo lavoro scientifico.

L’antagonismo che si era sviluppato tra Marat e l’Accademia era basato soprattutto su un diversità di opinioni scientifiche, che successivamente si trasformò in inimicizia personale e politica. Come si è visto, l’Accademia delle Scienze all’inizio non fu affatto ostile agli esperimenti di Marat, ma fu poi disturbata dai suoi tentativi di creare un quadro teorico che si opponeva alle spiegazioni ortodosse. Egli maturò un’avversione nei confronti di molti dei suoi membri, che finì per identificare con l’istituzione nel suo complesso. L’Accademia rappresentava l’élite scientifica dell’Ancien Régime e, quando le vicende politiche gliene fornirono l’occasione, Marat non se la lasciò sfuggire. Nel 1791 pubblicò un lungo pamphlet intitolato Les Charlatans modernes. Il suo rancore non era totalmente immotivato. Egli sapeva che era stato l’intervento dei capi dell’istituzione a far fallire l’ipotesi di diventare presidente dell’Accademia spagnola. La sua traduzione dell’Ottica di Newton nel 1786 era stata bene accolta, fino a che non si seppe che era opera sua. C’era qualcosa nell’istituzione che sembrava averlo in antipatia. Più tardi egli la identifico nella «classe dei geometri e degli astronomi, che ha formato una terribile cabala contro di me». Gli esponenti più in vista di questo presunto gruppo ostile erano Laplace, Lavoisier, Condorcet, Lalande, e Bailly.

Il violento attacco contro Lavoisier nell’opuscolo Les Charlatans modernes e in altri scritti ha portato alla leggenda che vuole Marat nemico della scienza moderna impersonata da Lavoisier e sostenitore di una “scienza giacobina”. Secondo questo schema, Marat e gli altri esponenti dell’ala più radicale dei rivoluzionari furono implacabilmente nemici della scienza perché avrebbero condiviso l’idea di Rousseau, secondo la quale la crescita della conoscenza scientifica aveva portato la società moderna ad essere meno virtuosa e meno felice. Pertanto, una volta preso il potere, essi avrebbero agito in modo da distruggere l’Accademia della Scienze, portando alla morte del suo più alto esponente, Condorcet, e all’esecuzione dello scienziato francese più importante del tempo, Lavoisier. In realtà le vicende furono molto complicate, e alcuni membri dell’Accademia rivestivano ruoli istituzionali e politici che potrebbero aver decretato la loro fine, non in quanto scienziati.

Lavoisier fu giustiziato l’8 maggio 1794, dieci mesi dopo che Marat era stato ucciso nel suo bagno dal pugnale della Corday. Gli attacchi di Marat possono al massimo farlo considerare un mandante morale, non certo colui che ne ordinò l’esecuzione. In realtà Lavoisier non fu l’unico bersaglio dei suoi strali, che furono lanciati contro dozzine di scienziati coinvolti con la monarchia. Lavoisier non era solo uno scienziato, ma da decenni rivestiva importanti incarichi politici e amministrativi. Marat non lo attaccò per le divergenze sulla natura del flogisto o della luce, ma perché egli ricopriva il lucroso incarico di Fermier Général (esattore privato di tasse e imposte), in pratica uno tra gli strumenti più odiati del potere monarchico, al punto che i suoi membri erano comunemente definiti “sanguisughe”.

Tra i membri della odiata casta degli gabellieri, Lavoisier ebbe il torto di essere uno dei più in vista, anche se non era affatto tra i più ricchi. A metà degli anni ’80 aveva fatto erigere un muro lungo 18 chilometri e alto 3 metri intorno a Parigi, in modo da controllare e tassare adeguatamente le merci in ingresso dalle 54 porte sorvegliate dai soldati. Chi non pagava subiva dure pene, in qualche caso la pena capitale. Quando, nel 1794, gli eventi precipitarono, Lavoisier, essendo uno dei 28 esattori francesi che non avevano lasciato il territorio nazionale, fu catturato, processato come traditore e ghigliottinato a Parigi, all’età di 51 anni. Marat giaceva da quasi un anno nella tomba al Club dei Cordiglieri, dove era stato sepolto quattro giorni dopo il suo assassinio del 13 luglio 1793.

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