Lo scheletro metallico dello stellarator Wendelstein 7-X. Credit: Max-Planck-Institut für Plasmaphysik (IPP)

Piccoli Soli da laboratorio

Il tokamak e lo stellarator: la risposta umana alla fusione nucleare che avviene nel Sole

Michele Diodati
Through the optic glass
16 min readOct 28, 2015

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I primi computer che comprai negli anni ’80, un’era geologica fa, non avevano disco fisso. Il Commodore aveva solo 64 kilobyte di memoria con cui fare tutto e un lentissimo registratore a nastro come memoria esterna.

Un dischetto da 5,25 pollici. Credit: Mentalo 67

Il computer che comprai in seguito, un Amstrad, aveva il sistema operativo, il DOS della IBM, che si caricava in memoria da un dischetto da 5 pollici e ¼, uno strano oggetto che i ragazzi del 2016 probabilmente non hanno mai neppure sentito nominare. All’inizio degli anni ’90 acquistai il mio primo disco rigido: 40 megabyte a un costo equivalente a diverse centinaia di euro attuali. Poco più di vent’anni dopo, e per una cifra molto minore, ho potuto comprare un disco rigido da 2 terabyte, la cui capienza è 50.000 volte maggiore del disco che pagai a caro prezzo ai tempi della prima guerra del Golfo.

Qualcosa di ancor più incredibile è accaduto alla potenza di elaborazione dei computer domestici: si è passati dalla grafica minimale di Pac-man a mondi simulati dagli scenari iper-realistici, così estesi che non basterebbe una vita intera per esplorarli completamente. Tutto ciò senza parlare di Internet, della banda larga, della possibilità di trasferire terabyte di dati da un capo all’altro del mondo in pochi minuti o addirittura secondi. Certo, moltissimi non hanno ancora accesso alle tecnologie più sofisticate, però è un fatto che esistono. E comunque un qualsiasi modello di smartphone — un aggeggio che si trova ormai nelle tasche di chiunque, dalla Mongolia alla foresta amazzonica — ha molta più potenza di elaborazione del computer di bordo del modulo di allunaggio delle missioni Apollo.

La rivoluzione che non c’è stata

Nel campo dell’energia, invece, siamo ancora lontanissimi da una rivoluzione paragonabile a quella che c’è stata in campo informatico. Agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso cominciavano le vendite di UNIVAC I, il primo computer commerciale della storia: era una sorta di mostro preistorico a confronto di un MacBook o di un Microsoft Surface odierni. Negli stessi anni in cui UNIVAC I era il computer di punta dell’industria informatica, le automobili andavano a benzina già da molto tempo… e vanno a benzina ancora oggi, 65 anni dopo. Sì, è vero, abbiamo anche le auto elettriche e persino quelle a idrogeno come la Toyota Mirai, ma il grosso dell’energia — per i trasporti, l’industria, il riscaldamento ecc. — viene ancora dai combustibili fossili. In Cina quasi non si respira più, perché un miliardo e mezzo di persone vive ancora usando il carbone e i derivati del petrolio per larga parte dei suoi bisogni energetici. Si stanno facendo, in verità, grandi sforzi per aumentare la produzione di energia solare ed energia eolica, ma sono altrettanto grandi gli sforzi per ricavare, pericolosamente, petrolio e gas da giacimenti come quelli canadesi, in cui la produttività è scarsa e la distruzione ambientale notevole. Gli impianti nucleari a fissione, dal canto loro, sono una soluzione controversa e certamente provvisoria: le scorte di uranio e plutonio sono limitate e i rischi ecologici enormi (vedi Fukushima).

La fusione nucleare, dunque, era e resta il vero sogno nel campo dell’energia. Poter ricreare sulla Terra le condizioni che consentono a quattro nuclei di idrogeno di fondersi, formando un nucleo di elio e liberando energia secondo le vantaggiosissime condizioni dell’equazione di Einstein (E=mc²), vorrebbe dire procurarsi un piccolo Sole a uso e consumo degli umani. Significherebbe avere improvvisamente a disposizione una quantità di energia pressoché infinita.

È per questo sogno che, da almeno settant’anni, alcune delle menti più brillanti del pianeta si arrovellano per trovare un sistema praticabile per replicare la fusione nucleare qui sulla Terra. I problemi teorici e pratici da superare sono immensi e nascono da un limite invalicabile che impedisce di creare un meccanismo del tutto simile a quello con cui funziona il Sole: la gravità.

La gravità rende il Sole una perfetta macchina per la fusione nucleare. Una massa di quasi due quadriliardi di tonnellate preme sul nucleo solare, creando condizioni di pressione, densità e temperatura tali da consentire a una sufficiente quantità di nuclei di idrogeno di superare la reciproca repulsione elettromagnetica (la barriera di Coulomb) e di fondersi, dando il via alle reazioni che producono l’energia che il Sole irradia senza sosta nello spazio. L’enorme massa che grava sul nucleo solare agisce inoltre come un ottimo sistema di confinamento: il plasma denso e caldo all’interno del quale l’idrogeno si trasforma in elio non ha la possibilità di disperdersi all’esterno e di raffreddarsi, sicché le reazioni possono continuare a tempo indeterminato, come stanno facendo da oltre 4 miliardi e mezzo di anni.

Sulla Terra non abbiamo purtroppo nulla di simile alla gravità del Sole. Così gli scienziati hanno dovuto inventare qualcosa che potesse simulare, sia pure molto alla lontana, le condizioni che esistono nel nucleo solare. Il problema non è tanto quello di innescare la fusione, ma di tenerla sotto controllo. La bomba all’idrogeno esiste dagli anni ’50 del secolo scorso: si usa una bomba a fissione per generare la pressione e la temperatura necessarie a innescare la fusione dell’idrogeno, ma il risultato è, come dire, devastante… Il Sole, d’altra parte, non funziona come una bomba (per nostra fortuna), ma piuttosto come una stufa nucleare: il ritmo di fusione nel nucleo è talmente blando che viene prodotto in media solo 1 watt per ogni due tonnellate e mezzo circa di materia solare.

Pensa e ripensa, l’unica forza che possiamo manipolare con sufficiente libertà, qui sulla Terra, per cercare di creare le condizioni che possono permettere una fusione nucleare controllata, è la forza elettromagnetica. Usando dei potentissimi magneti opportunamente posizionati, è possibile riscaldare ad altissime temperature un plasma di isotopi dell’idrogeno e tenerlo confinato per il tempo necessario a ottenere delle reazioni di fusione nucleare.

Tuttavia, in un nucleo stellare la bassissima probabilità che si verifichi un evento di fusione è compensata dall’enorme densità della materia, che favorisce una quantità di collisioni tra protoni tale da far accadere ripetutamente anche l’improbabile. Purtroppo per noi terrestri, invece, le tecnologie di cui disponiamo attualmente sono ancora ben lontane dalla capacità di ricreare le densità tipiche dei nuclei stellari. A titolo di esempio, la densità del plasma nello stellarator W7-X, di cui parleremo più avanti, è 3×10²⁰ particelle per metro cubo, mentre la densità media nel nucleo solare è di circa 2,31×10³¹ protoni per metro cubo: una differenza di undici ordini di grandezza! Dunque, non potendo aspettare miliardi di anni che si verifichino in un reattore nucleare eventi di fusione secondo il loro (basso) grado di probabilità, non resta che alzare di brutto la temperatura: così, mentre nelle stelle bastano circa 10 milioni di gradi perché si avvii il motore a idrogeno, le macchine a fusione finora costruite sulla Terra hanno bisogno di temperature che oscillano tra i 100 e i 150 milioni di gradi.

Con simili limitazioni non deve meravigliare che l’obiettivo di produrre energia per scopi commerciali tramite macchine a fusione sia ancora una chimera (o quasi). Tuttavia, dopo circa sette decenni di sperimentazione, si sono fatti discreti passi in avanti sulla strada verso la fusione nucleare controllata ed esistono organismi e progetti internazionali che puntano seriamente verso l’obiettivo finale.

Sono principalmente due le tecnologie che si contendono il campo in questa difficilissima corsa ad ostacoli verso la fusione nucleare controllata: il tokamak e lo lo stellarator.

Il tokamak

Il tokamak, il cui nome è un acronimo russo che significa più o meno “camera toroidale magnetica”, fu inventato negli anni ’50 del secolo scorso dagli scienziati sovietici Igor Tamm e Andrei Sakharov. Nella sua essenza, si tratta di una camera sotto vuoto a forma di toro (cioè di ciambella), che viene riempita con una miscela di deuterio e trizio, due isotopi dell’idrogeno.

La struttura essenziale di un tokamak. Credit: Max-Planck-Institut für Plasmaphysik (IPP)

Un grande magnete posizionato nel buco centrale del toro insieme a una serie di altri magneti avvolti intorno alla ciambella sono usati per confinare la miscela di gas, mentre una corrente elettrica la attraversa in modo da riscaldarla fino a farla diventare un plasma, cioè un insieme di particelle cariche: nuclei atomici ed elettroni separati gli uni dagli altri.

Grazie all’accorto dosaggio di campi magnetici e impulsi elettrici, le particelle cariche, soggette alla forza di Lorentz, sono guidate a muoversi seguendo una traiettoria elicoidale all’interno della camera, in modo tale da non toccarne le pareti. Il buon funzionamento del confinamento magnetico è fondamentale perché la densità e la temperatura del plasma raggiungano la soglia necessaria a innescare la fusione nucleare. Quando il confinamento per qualche motivo fallisce e le particelle cariche collidono con le pareti della camera, il plasma perde calore e densità e la fusione non è più possibile.

I due sistemi addizionali di riscaldamento: l’iniezione di particelle neutre ad alta velocità e la risonanza indotta da onde radio ad alta frequenza. Credit: Consorzio ITER

Il riscaldamento indotto dalla corrente elettrica, chiamato riscaldamento ohmico, non è comunque sufficiente, da solo, a raggiungere la temperatura necessaria ad avviare la fusione dei nuclei di idrogeno. La corrente, infatti, può riscaldare il plasma solo finché le particelle che lo compongono offrono resistenza. Ma, a mano a mano che la temperatura aumenta, diminuisce anche la resistenza, finché diventa inutile aumentare il flusso di corrente, perché comunque la temperatura non crescerebbe oltre.

Servono, perciò, dei sistemi aggiuntivi per portare il plasma alla temperatura richiesta. Uno di questi consiste nello sparare all’interno del toro un getto di particelle elettricamente neutre, ma dotate di altissima velocità, le quali, collidendo, trasferiscono parte della loro energia cinetica al plasma, così da alzarne ulteriormente la temperatura. Un terzo e ultimo sistema, necessario per raggiungere l’incredibile temperatura di 150 milioni di gradi centigradi, consiste nell’esporre il plasma alla risonanza di onde radio ad alta frequenza: un meccanismo analogo a quello usato nei forni a microonde per riscaldare i cibi.

Lo scopo finale di questo complesso marchingegno è ottenere che i nuclei di deuterio e trizio si fondano, producendo un nucleo di elio, energia e un neutrone. Non è lo stesso tipo di reazione che avviene nel Sole, ma è la migliore che si possa utilizzare sulla Terra, in virtù delle tecnologie oggi disponibili.

Credit: IPP

In una situazione ideale, le reazioni di fusione dovrebbero autoalimentarsi, fino ad arrivare al punto di generare più energia, anzi molta più energia, di quella introdotta nel sistema per innescare la fusione. È questo il risultato a cui mira il progetto ITER (da una parola latina che vuol dire ‘cammino’, ‘via’), un consorzio formato dalle nazioni più industrializzate del mondo, che sta costruendo a Cadarache, nel Sud della Francia, il tokamak più grande di sempre. La speranza dei costruttori dell’ITER è che il macchinario non solo raggiunga il cosiddetto breakeven point, cioè il punto di pareggio tra energia immessa ed energia prodotta, ma riesca a produrre dieci volte più energia di quella spesa per avviare la fusione: 500 megawatt per ogni 50 megawatt assorbiti.

Bisogna dire, però, che finora nessun tokamak ha mai raggiunto il punto di pareggio. Il record è attualmente detenuto dal JET (Joint European Torus) che, nel 1997, riuscì a raggiungere un rapporto del 65% tra energia generata ed energia immessa nel sistema: furono misurati 16 megawatt prodotti per meno di un secondo e 5 megawatt per cinque secondi, a fronte di una potenza in ingresso di 24 megawatt.

Il grosso problema dei tokamak è proprio quello di riuscire a mantenere le reazioni di fusione abbastanza a lungo. Se la struttura essenziale della macchina è relativamente semplice (una ciambella ricoperta di magneti), molto difficile è invece gestire la coordinazione degli impulsi elettromagnetici in modo da tenere il plasma confinato e caldo fino a che le reazioni di fusione non diventino produttive. Per ora il record mondiale di durata appartiene al Tore Supra, un tokamak costruito a Cadarache, la stessa sede dell’ITER, che nel 2003 riuscì a sostenere un plasma per 6 minuti e 30 secondi.

La struttura generale di un futuro impianto elettrico alimentato da un reattore a fusione nucleare di tipo tokamak. Il divertore, indicato in figura, è un elemento essenziale: serve per raccogliere ed eliminare le particelle esauste del plasma. Il blanket, che forma le pareti della camera di fusione, è un altro elemento essenziale. Contiene infatti litio, indispensabile per produrre il trizio, uno dei due isotopi dell’idrogeno che serve per sostenere le reazioni di fusione nucleare (Il trizio si forma in seguito al bombardamento del litio, da parte dei neutroni prodotti nel corso delle reazioni di fusione). Credit: IPP, Karin Hirl

Se e quando saranno risolti i numerosi problemi di esercizio che ancora affliggono i tokamak, la prospettiva è, comunque, quella di ottenere grandi quantità di energia a basso prezzo. Se un impianto elettrico a carbone della potenza di 1.000 megawatt ha bisogno di 2,7 milioni di tonnellate di carbone all’anno, un impianto a fusione della stessa potenza può essere alimentato con soli 250 kg di deuterio e altrettanti di trizio: un’efficienza energetica incomparabilmente superiore a quella dei combustibili fossili, senza peraltro l’aggravio dell’inquinamento ambientale. La fusione nucleare, infatti, non produce gas serra né scorie. L’unica probabile forma di inquinamento sarà data dai materiali che formano le pareti del toro di contenimento del plasma: il bombardamento di neutroni a cui saranno sottoposti in una situazione di esercizio continuato finirà per renderli radioattivi. Terminata la loro vita utile, dovranno perciò essere stoccati in luoghi sicuri, ma per un tempo tutto sommato molto breve rispetto a quello tipico delle scorie radioattive pericolose: 100 anni in tutto.

Per produrre con la fusione nucleare l’equivalente dell’energia contenuta in 360 litri di benzina bastano pochi milligrammi di deuterio (estraibile dall’acqua di mare) e di trizio. Credit: FOM-Rijnhuizen/Verdult — Kennis in Beeld

Nella reazione di fusione che avviene in un tokamak tra un nucleo di deuterio e uno di trizio, l’ottanta per cento circa dell’energia è portata via dal neutrone, che, non essendo elettricamente carico, sfugge al campo magnetico che tiene confinato il plasma e va a sbattere contro le pareti della camera di contenimento. È proprio dallo sfruttamento dell’energia cinetica di quei neutroni che deriverà la produttività economica dei futuri impianti basati su questa tecnologia.

I neutroni che collidono ad alta velocità con le pareti del tokamak producono, infatti, molto calore. Il progetto ITER prevede semplicemente delle torri di raffreddamento, pensate per evitare il surriscaldamento delle pareti della camera che contiene il plasma. Ma se l’ITER funzionerà a dovere, il prototipo che ne sarà il successore, chiamato DEMO, sfrutterà invece il calore generato dagli impatti dei neutroni per produrre vapore. Il vapore sarà poi trasformato in energia elettrica per mezzo di turbine e alternatori, il che rappresenterà l’inizio — così almeno si spera — dello sfruttamento commerciale della fusione nucleare. La data attualmente prevista per questo decisivo passo finale è intorno al 2040.

Spaccato della struttura del tokamak in fase di realizzazione a cura del progetto internazionale ITER. Le dimensioni del uomo visibile in basso danno un’idea della grandezza di questo macchinario. Credit: Consorzio ITER

Lo stellarator

Il principale competitor del tokamak nella corsa alla fusione nucleare fu inventato dall’astrofisico Lyman Spitzer nel 1950 e il primo prototipo fu costruito l’anno dopo presso il Princeton Plasma Physics Laboratory.

Lyman Spitzer fotografato vicino al suo prototipo di stellarator. Credit: Princeton Plasma Physics Laboratory

Lo stellarator, ovvero la macchina per raccogliere l’energia delle stelle, ha lo stesso scopo del tokamak ma lo persegue in modo diverso. La migliore descrizione di ciò che differenzia i due dispositivi si deve a Thomas Klinger, direttore scientifico del progetto Wendelstein 7-X presso il Max-Planck-Institut für Plasmaphysik:

In a stellarator, confining the plasma is like holding a broomstick firmly in your fist; in a tokamak, it’s like trying to balance the same broomstick on your finger.

Tradotto: in uno stellarator confinare il plasma è come tenere un manico di scopa saldamente nel proprio pugno; in un tokamak, invece, è come cercare di tenere lo stesso manico di scopa in equilibrio su un dito.

Il plasma in un tokamak, infatti, è instabile e difficile da controllare. Il buon funzionamento della macchina è legato al mantenimento di un sottile e difficile equilibrio tra campi megnetici e impulsi elettrici. La perdita di confinamento e la distruzione del plasma (plasma disruption) sono problemi all’ordine del giorno. I tokamak, insomma, sono macchine molto potenti, ma altrettanto difficili da gestire, anche per via di limiti costruttivi non eliminabili.

Lo stellarator nasce invece da una diversa filosofia costruttiva: risolvere il problema del confinamento magnetico completamente dall’esterno, cioè senza la necessità di indurre una corrente elettrica nel plasma. A tale scopo, la forma della camera in cui avviene la fusione e quella dei magneti che la circondano sono progettate in modo tale che vi sia sempre, in ogni punto del percorso seguito dal plasma, una combinazione di campi magnetici in grado di cancellare le forze che spingerebbero le particelle cariche al di fuori dell’area di confinamento. È questa la presa salda della mano sul manico di scopa di cui parlava Klinger.

La costruzione del Wendelstein 7-X. Credit: Science

Un simile progetto costruttivo comporta un vantaggio e uno svantaggio.

Il vantaggio, evidentemente, è quello di poter operare in modo stabile e continuo sul plasma, eliminando a monte i problemi che affliggono i tokamak. Grazie a questo diverso tipo di confinamento magnetico, il già citato Wendelstein 7-X (o, più brevemente, W7-X), uno stellarator da poco costruito in Germania, promette di riuscire a mantenere fino a 30 minuti di seguito, una volta superata la fase di test, le condizioni ottimali per la fusione nucleare: una differenza notevole rispetto ai tokamak, il cui record di durata del plasma è, come abbiamo ricordato più sopra, di appena 6 minuti e mezzo.

Questo importante vantaggio è controbilanciato da uno svantaggio di non poco conto, che è in un certo senso l’altra faccia della stessa medaglia: riuscire a costruire uno stellarator veramente efficiente significa affrontare una sfida ingegneristica ai limiti dell’impossibile. Si tratta, infatti, nella sua versione moderna, di una macchina di estrema complessità, basata su un complicatissimo sistema di magneti, che crea una struttura contorta e asimmetrica. Negli anfratti di questa struttura, sfruttando ogni centimetro utile, bisogna poi riuscire a integrare tutte le complesse tecnologie che rendono possibile la fusione nucleare. E parti metalliche che pesano tonnellate devono essere modellate e posizionate con precisione assoluta, rispettando margini di tolleranza nell’ordine dei micrometri.

La struttura essenziale dello stellarator W7-X. In giallo il volume che contiene il plasma, in blu i magneti super-conduttori non planari che servono per garantire il confinamento magnetico. Credit: IPP

Spitzer, in realtà, diede inizialmente allo stellarator una forma molto più semplice, che assomigliava a un 8: le particelle cariche nel plasma dovevano rimanere intrappolate in una sorta di pista infinita, simile a un nastro di Möbius. Ma questa struttura non era perfetta, perché, per evitare l’intersezione al centro tra le due metà dell’8, bisognava sfalsare i percorsi, rendendo più difficile bilanciare i campi magnetici in modo da mantenere il confinamento. Fu ben presto chiaro che bisognava trovare una forma tridimensionale più efficace per confinare adeguatamente il plasma.

Gli stellarator, comunque, dominarono la ricerca nel campo della fusione nucleare fino alla fine degli anni ’60. Dovettero poi cedere il passo ai tokamak, non appena si diffuse in Occidente la notizia dei successi ottenuti dagli scienziati sovietici che avevano inventato e perfezionato questo tipo di macchina.

Il momentaneo declino degli stellarator fu dovuto soprattutto al fatto che i calcoli necessari per progettare la camera di fusione e la gabbia magnetica in modo realmente funzionale richiedevano una potenza di elaborazione che anche i migliori computer dell’epoca non possedevano. Fu solo a partire dagli anni ’80 del secolo scorso che la potenza dei super-computer raggiunse un livello tale da rendere possibile la progettazione di sistemi così complessi. Da allora in poi si sono susseguiti numerosi prototipi di stellarator, fino ad arrivare al W7-X, che è il più grande e sofisticato stellarator mai costruito.

Schema strutturale generale del W7-X. È impressionante il numero di aperture che serve per dare accesso alle varie sezioni interne della macchina. Credit: IPP

Costato circa 1,2 miliardi di euro, il W7-X è stata terminato alla fine del 2014, a diciotto anni di distanza dalla partenza ufficiale del progetto, avvenuta nel lontano 1996. Nel corso del 2015 tutte le sue parti sono state sottoposte a un’interminabile batteria di test. La prima produzione di plasma è avvenuta il 10 dicembre 2015, ma lo scopo della macchina — similmente al tokamak che sta costruendo ITER — non è quello di creare energia utilizzabile fin da subito, bensì testare a fondo la tecnologia costruttiva, in vista di un possibile uso commerciale futuro.

Modello tridimensionale di uno dei 50 magneti non planari del W7-X. Credit: IPP

Il cuore del W7-X è il contorto anello della camera di contenimento del plasma, costituito da 5 sezioni di uguale struttura, assemblate insieme. Per garantire il confinamento magnetico del plasma, sono stati montati sull’anello 50 magneti super-conduttori non planari, ognuno dei quali ha una forma tridimensionale unica, frutto di complicatissimi calcoli.

I 50 magneti non-planari sono avvolti intorno alla camera di contenimento del plasma in posizione toroidale, simili cioè agli anelli che segmentano il corpo di un anellide. Ma non sono sufficienti ad ottenere un perfetto confinamento magnetico. La struttura è completata, pertanto, da altri 20 magneti super-conduttori, stavolta planari, posizionati in posizione poloidale sopra i magneti non planari, con un angolo di inclinazione di 20° rispetto all’asse verticale della macchina: il loro scopo è cambiare la configurazione del campo magnetico.

Ognuno dei 70 magneti assorbe a pieno regime 12,8 kiloampere di elettricità.

Lo scheletro di una sezione del W7-X. Sono visibili nell’immagine entrambi i tipi di magneti: quelli non planari sono montati direttamente sulla camera che conterrà il plasma, mentre i magneti planari, riconoscibili per il color rame e per la forma più lineare, sono montati esternamente. Credit: IPP

Affinché i magneti siano super-conduttori, cioè totalmente privi di resistenza alla corrente elettrica, occorre portarli a una temperatura di soli 4 gradi sopra lo zero assoluto (-269 °C). A questo scopo tutta la struttura dello stellarator è stata foderata con serbatoi di elio liquido, la cui quantità raggiunge un peso totale di 425 tonnellate.

Buchi dovunque. Credit: IPP

A complicare ulteriormente la struttura del W7-X ci sono i sistemi per innalzare la temperatura del plasma e i circuiti di raffreddamento ad acqua, necessari per portare via il calore in eccesso che si accumula lungo le pareti del toroide. A tutto ciò si aggiungono i numerosi sistemi di diagnostica per monitorare il funzionamento della macchina. In sostanza, lo scheletro dello stellarator non è altro che un immenso “gruviera” di metallo, con centinaia di buchi di ogni forma e dimensione, che servono per accedere a ogni più piccola sezione del dispositivo. E per ogni buco vi sono tolleranze di errore minime, se si vuole che alla fine il marchingegno funzioni come previsto.

È evidente che una macchina di tale complessità, la cui costruzione ha richiesto oltre un milione di ore di lavoro, non avrebbe mai potuto essere progettata né tantomeno realizzata senza disporre di super-computer dall’enorme potenza di calcolo. Una modellazione accuratissima è stata necessaria per anticipare l’effetto anche di minuscole variazioni del campo magnetico sul comportamento del plasma. E ancora più complessa è stata la ricerca dell’ottimizzazione, per ottenere il massimo dagli angusti spazi disponibili, in cui sistemare tutti i dispositivi necessari al funzionamento dello stellarator.

Non resta che aspettare l’esito dei primi mesi di esercizio del W7-X per vedere se un così grande investimento di tempo e risorse da parte dell’Unione Europea e della Germania, principali finanziatori del progetto, sarà servito ad avvicinare l’umanità al sogno di poter disporre un giorno — si spera non troppo lontano — di energia illimitata e pulita.

Una foto che dà un’idea dell’incredibile complessità strutturale del W7-X. Credit: IPP

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Michele Diodati
Through the optic glass

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.