Riflessioni su pulci e vita extraterrestre

Michele Diodati
Through the optic glass
7 min readOct 31, 2016
Credit: Science Photo Library / Getty Images

In questa incredibile immagine ottenuta al microscopio elettronico è ritratta la testa di una comune pulce, nome scientifico Pulex irritans. È uno dei parassiti più comuni al mondo. Vive nella pelliccia di cani, gatti, maiali, ratti e altri animali. Fino a un recente passato non disdegnava di abitare e prolificare anche su ospiti umani, almeno finché l’igiene personale non ha fatto un deciso salto in avanti.

Con il suo complesso apparato boccale, ben visibile nell’immagine, la pulce punge la pelle dell’ospite per succhiarne il sangue, iniettando al contempo la sua saliva che contiene enzimi e altre sostanze fortemente irritanti. È un vettore di malattie infettive anche letali, come peste e tifo.

Dotate di forti zampe posteriori, le pulci sono i più grandi saltatori del regno animale: possono saltare anche 200 volte la propria lunghezza, che, negli adulti, oscilla tra 1,5 e 3,3 millimetri. Una femmina depone 800–1000 uova nell’arco della sua vita, che può durare fino a due anni. Una vita che attraversa quattro stadi: uovo, larva, pupa, adulto.

Bene. Detto tutto ciò, cosa hanno a che fare le pulci con l’argomento trattato da questa raccolta? Apparentemente nulla, se non per il fatto che stimolano alcune riflessioni sulla complessità della vita e delle sue manifestazioni, il che riveste qualche interesse per l’astrobiologia, la scienza che studia la possibilità di trovare vita su altri pianeti e le caratteristiche che la vita extraterrestre potrebbe avere.

La prima riflessione che viene in mente osservando una pulce con la ricchezza di dettagli che un microscopio elettronico è in grado di fornire è l’enorme diversità che la vita ha generato sul nostro pianeta nel miliardo circa di anni trascorsi da quando il primo organismo pluricellulare, probabilmente un’alga, fece la sua comparsa.

Cosa hanno in comune un essere umano e una pulce? Ben poco. Siamo diversi per dimensioni, durata e fasi della vita, tipo di riproduzione, abitudini alimentari e sociali, struttura, complessità e disposizione degli organi interni, giusto per citare le prime cose su cui si appunta l’attenzione.

Ma, scavando a fondo, emergono anche importanti punti di contatto: le pulci, come gli umani, sono forme di vita basate sul carbonio. Hanno come noi un DNA e un sistema di replicazione fondato sul DNA e la divisione cellulare. Hanno una simmetria bilaterale come gli umani. Hanno un metabolismo, cioè una serie di processi biochimici che, in ogni fase della loro vita, utilizzano per estrarre energia dall’ambiente (da sangue, detriti, pelle morta ecc.). Usano come noi quell’energia per riparare i danni subiti dall’organismo, muoversi e riprodursi. Hanno una capacità di rigenerazione limitata, proprio come gli umani (e come miliardi di altri organismi), sicché alla fine muoiono e i loro corpi si decompongono.

La seconda riflessione riguarda la definizione di vita e ciò che dovremmo cercare su corpi celesti diversi dalla Terra per scoprire se sono o sono stati abitati.

C’è un grande antefatto alla ricerca di vita su altri pianeti (o lune): la rappresentazione che ne hanno dato la letteratura e il cinema. Tralasciamo per brevità la letteratura e concentriamoci sul cinema, che con la sua capacità di coinvolgere più sensi e rivolgersi anche ai meno acculturati possiede oggi una capacità di penetrazione sociale certamente maggiore.

La grande maggioranza dei film di fantascienza che descrivono incontri e scontri con alieni, li rappresenta in un modo banalmente e assurdamente simile agli esseri umani (Avatar, per esempio). Prendiamo le due saghe più note e amate dal pubblico, Guerre stellari e Star Trek. Contengono una moltitudine di personaggi “extraterrestri”, che a ben guardare sono di gran lunga più simili agli umani che alle pulci.

Gli alieni di questi film possono essere alti o bassi, con strane protuberanze sul volto, con arti differenti dai nostri, con pelle squamata o colorata, con improbabili ali, ma hanno quasi sempre una testa, degli occhi, una bocca, arti superiori e inferiori, simmetria bilaterale e, soprattutto, si vestono, parlano un qualche tipo di linguaggio e hanno istinti e motivazioni del tutto analoghi ai nostri (cercano per esempio potere, prestigio e ricchezza per mezzo della guerra, della violenza e dell’inganno).

Tutto ciò è comprensibilissimo: lo richiedono le esigenze narrative del film. Rappresentare alieni veramente estranei a ciò che ci è familiare renderebbe la comunicazione e lo “scontro di civiltà” impossibile o, quantomeno, poco spettacolare.

Ma l’astrobiologia non ha per fortuna le zavorre del cinema e può fare piazza pulita di tutti i presupposti “umanizzanti” che annebbiano il concetto essenziale di cosa può essere vita e cosa no, evitando di gettarvi dentro le nostre aspettative ed esperienze pregresse.

Se solo sul nostro pianeta la vita è riuscita a diversificarsi al punto da produrre esseri con caratteristiche così lontane tra loro come gli umani e le pulci, viene naturale domandarsi quale grado di diversità abbiano raggiunto eventuali forme di vita evolutesi su pianeti con condizioni completamente diverse da quelle della Terra.

Che impressioni potrebbero suscitare ai nostri sensi esseri siffatti? Per esempio, che forme può aver assunto la vita — se esiste o se è mai esistita — su Proxima b, il pianeta recentemente scoperto intorno a Proxima Centauri?

Sappiamo che è un pianeta più grande della Terra, che si trova vicinissimo alla sua stella, una nana rossa grande un settimo del Sole e quasi mille volte meno luminosa. È probabile dunque che Proxima b abbia una gravità superficiale maggiore di quella terrestre, due emisferi con climi completamente diversi (uno rivolto sempre verso la stella, l’altro perennemente al buio), un’atmosfera percorsa da forti venti a causa della differenza di temperatura tra i due emisferi, paesaggi immersi in una luminosità fioca e rossastra, per via del tipo di radiazione emanato dalla stella.

Ma è davvero troppo poco per immaginare come potrebbe essere la vita su quel pianeta: non sappiamo se c’è acqua, non sappiamo se c’è un’atmosfera, non sappiamo quale sia la densità del pianeta né abbiamo idea della sua composizione chimica. Non sappiamo se è protetto da un campo magnetico oppure se è esposto all’attività superficiale probabilmente violenta della vicinissima nana rossa.

Ma il vero problema non è tanto che ignoriamo le condizioni ambientali su Proxima b, quanto il fatto che non sappiamo davvero quali forme e strutture la vita può, o potrebbe, assumere al di fuori della Terra.

In sostanza, tutto ciò che sappiamo della vita lo abbiamo appreso in un unico posto: il nostro pianeta, con i suoi vari habitat. E se in fondo è normale non avere alcuna informazione diretta su un pianeta extrasolare come Proxima b e sulle probabilità che ospiti, o abbia ospitato, forme di vita, molto più strano invece, almeno in apparenza, è non avere alcuna certezza sull’esistenza passata o presente della vita sui pianeti e le lune del sistema solare, che conosciamo molto meglio di Proxima b.

C’è innanzitutto una serie di problemi tecnici che ci impediscono di saperne di più: l’esplorazione di altri mondi è complessa, lunga, difficile e costosissima. Per esempio, scavare la superficie di Marte in molteplici luoghi e a varie profondità alla ricerca di fossili e tracce di vita è un’impresa che per il momento è al di là delle nostre possibilità. Altrettanto difficile, allo stato attuale, è inviare una sonda robotica sulla luna di Giove Europa, che abbia la capacità di scavare il ghiaccio di superficie per diversi chilometri, fino a raggiungere il probabile oceano sotterraneo e inviarci immagini e rilevazioni scientifiche sulle eventuali forme di vita che lo abitano.

Ma, se potessimo superare rapidamente questi problemi tecnici e finanziari, i nostri strumenti saprebbero riconoscere con ogni probabilità segni di vita conformi a ciò che l’esperienza acquisita sulla Terra ci ha insegnato: strutture cellulari, proteine, acidi nucleici, metabolismo, movimento, organi di senso ecc.

La vera sfida, però, è ricoscere come vita qualcosa di completamente diverso. Qualcosa di molto più diverso delle pulci.

E ciò riporta alla domanda più importante: c’è qualche caratteristica assolutamente universale della vita, che permetta di riconoscere qualcosa come vivente (o, nel caso peggiore, come morta), anche se esula da qualsiasi esperienza e conoscenza umana precedente?

Forse la capacità di riprodursi e il codice genetico sono i veri marcatori universali della vita? E se esistesse invece una forma di vita che non muore, che sappia autoripararsi perennemente e non abbia perciò bisogno di riprodursi?

E se, ancora, il vero indicatore universale della vita fosse la presenza di una struttura proteica basata sul carbonio? Potrebbe essere, ma cosa vieta di immaginare che su un altro pianeta la chimica della vita abbia scelto come elemento base il silicio, per esempio, invece del carbonio (piccoli chip crescono)?

E se l’unico elemento veramente universale della vita fosse il metabolismo, cioè la capacità di estrarre energia dalla materia? Sì, ma in questo caso come riconoscere un essere morto, in cui non c’è più alcuna attività metabolica?

Allora forse, infine, l’unico criterio che non è possibile eliminare dal concetto di vita è l’organizzazione per uno scopo: è vita ciò che ha una struttura ordinata, qualcosa che ha meno entropia dell’ambiente circostante, qualcosa che è passibile di evoluzione, di raffinamento progressivo.

Ma è possibile distinguere ciò che è vita da ciò che non è vita solo in base alla presenza di una struttura ordinata? I reticoli cristallini sono strutture altamente ordinate, ma, almeno sulla Terra, appartengono al regno delle cose inorganiche.

In conclusione, identificare ciò che è veramente essenziale al concetto di vita, separandolo dagli elementi accidentali che riguardano le forme, sia pure diversissime, che la vita ha assunto sul nostro pianeta, è un’impresa difficile e dagli esiti incerti. Parafrasando ciò che Sant’Agostino scrisse del tempo, si potrebbe concludere che ognuno sa cos’è la vita finché non gli si chieda di spiegarlo a parole.

Quest’incertezza ha la sua radice, probabilmente, nel fatto che, nonostante tutte le conoscenze finora accumulate dalla ricerca in biologia, genetica e paleontologia, ignoriamo di fatto in che modo la vita abbia attecchito sul nostro pianeta. Ciò vuol dire che non sappiamo se si tratta di un fenomeno universale e ripetibile né se esistano delle “regole” fisse per la “costruzione” della vita, dalle quali non si può prescindere in nessun luogo dell’universo (così come la velocità della luce deve essere la stessa dovunque).

Per quello che ne sappiamo, la vita potrebbe essere un incredibile scherzo del destino, verificatosi per qualche ragione solo una volta nella storia dell’universo, proprio qui sulla Terra. È altamente improbabile, dato lo sterminato numero di pianeti e sistemi stellari esistenti, ma è una possibilità che, per ora, non abbiamo informazioni sufficienti per escludere.

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Michele Diodati
Through the optic glass

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.