Trasgredire le frontiere
Note matematiche per tromboni filosofici
«I filosofi, muovendosi in mezzo al concetto di infinito senza l’esperienza e le precauzioni dei matematici, sono come navi immerse nella nebbia in un mare pieno di scogli pericolosi, e ciononostante felicemente ignari del pericolo»
(Max Born, 1954, citato da Enrico Bellone)
Nella primavera del 1996 il fisico americano Alan Sokal mandò alla rivista Social Text un lungo articolo intitolato Trasgredire le frontiere: verso un’ ermeneutica trasformativa della gravità quantistica, che fu subito pubblicato, benché fosse costellato di assurdità inserite di proposito nello stile strutturalista che piaceva ai curatori, in cui dimostrava che i settori più avanzati della fisica e della matematica confermano le tesi post-moderniste di autori come Lacan, Lyotard, Kristeva, Baudrillard, e, più tardi, anche di Guattari, Derrida e Deleuze. Nell’articolo, Sokal attaccava «il dogma imposto da una lunga egemonia successiva al secolo dei Lumi, dal punto di vista intellettuale occidentale» che esiste un mondo esterno governato da leggi di natura che noi possiamo comprendere in modo imperfetto utilizzando il metodo scientifico. Egli sosteneva al contrario che la «realtà fisica (…) è in fondo una costruzione sociale e linguistica».
La nozione di struttura, elaborata dopo una lunga gestazione negli anni ‘60, nasceva in campo linguistico e si estese poi alla critica artistica e letteraria e infine alla psicanalisi e alle scienze sociali. Secondo gli strutturalisti, la realtà è un insieme organico scomponibile in elementi e unità, il cui valore funzionale è determinato dall’insieme dei rapporti fra ogni singolo livello e tutti gli altri. Scompariva l’oggetto dell’indagine, o, meglio, diventava invisibile, mentre ci si concentrava sulla rete di relazioni stabilita al suo interno o tra esso e altri oggetti, di cui si studiavano gli effetti. Fu ben presto evidente che la matematica, non più vista come scienza della rigida razionalità, poteva essere avvicinata alle scienze umane, in quanto anch’essa scienza della struttura, della relazione, dell’astrazione dalla realtà materiale. Si celebrò allora il matrimonio tra scienze umane e scienze matematiche (preceduto a dir la verità da un lungo fidanzamento con la statistica), unione feconda tanto di nuove potenzialità quanto, soprattutto, di equivoci. La matematica e la fisica moderne venivano ora viste come uno strumento ulteriore a disposizioni delle discipline dell’uomo. Fu, soprattutto in Francia, e poi negli Stati Uniti, un’epoca di grande fervore intellettuale e di scoperte, di entusiasmi improvvisi, in cui si coniugavano liberamente la topologia con la psicanalisi, il Tao con la fisica quantistica, le geometrie non euclidee e quelle pluridimensionali, spesso confuse tra loro, con il femminismo, il trotzkismo o il teatro d’avanguardia.
Tra i concetti matematici preferiti di questa ubriacatura intellettuale c’erano quelli che, allo sguardo poco esperto degli umanisti, mettevano in discussione la linearità della conoscenza. Nacque una vera e propria infatuazione per oggetti come il nastro di Möbius, la bottiglia di Klein, il cross-cap (berretto incrociato), per teoremi come quello d’incompletezza di Gödel, e, in campo fisico, per la meccanica quantistica, in particolare per l’indeterminazione di Heisenberg. Si trattava di figure e concetti bizzarri, di cui si coglieva non il valore reale, espresso in linguaggio formale e non equivoco, ma quello estetico e metaforico, in cui la matematica e la fisica diventavano oggetto di gioco narrativo. Successe a questi concetti ciò che era accaduto negli anni ‘30 alle superfici algebriche, diventate oggetto di ispirazione per alcune correnti artistiche ma mai considerate al di là del loro valore estetico.
Il controverso psicologo e filosofo Jacques Lacan si faceva costruire modellini di tori e di nastri di Möbius per studiarvi gli effetti topologici di tagli e suture. Il nastro di Möbius, costituito da una sola superficie con un solo bordo, era il paradigma di quel rapporto tra esteriorità e interiorità che il soggetto lacaniano riconosceva non definito e privo di un confine certo tra esterno e interno, tra coscienza e inconscio.
Perfidamente, Sokal riportava nell’articolo questa citazione da una conferenza tenuta da Lacan nel 1966:
«Questo diagramma [il nastro di Möbius] può essere considerato la base di un tipo di iscrizione essenziale all’origine, nel nodo che costituisce il soggetto. Ciò va molto al di là di ciò che si possa pensare inizialmente, perché si può cercare il tipo di superficie in grado di ricevere tali iscrizioni. Si può forse pensare che la sfera, antico simbolo della totalità, non sia adatta. Un toro, una bottiglia di Klein, una superficie tagliata possono ricevere tale taglio. E questa diversità è molto importante, in quanto spiega molte cose sulla struttura del disagio mentale. Se si simboleggia il soggetto con questo taglio fondamentale, allo stesso modo si può mostrare che il taglio in un toro corrisponde al soggetto nevrotico, e uno su una superficie tagliata a un altro tipo di disordine mentale».
Sembra abbastanza chiaro perché la lettura dei seminari di Lacan sia considerata unanimemente particolarmente ardua.
Sempre a proposito del nastro di Möbius, Sokal avrebbe potuto essere ancor più cattivo. Lo fa in sue vece Andrea Pasquino, in Il teorema di Queneau. Il concetto matematico come struttura narrativa e investimento estetico (Liguori, 2003), riportando questo brano del filosofo Jean Baudrillard per fornire un esempio della gran confusione matematica sotto il cielo della postmodernità, dove l’oggetto matematico si confonde con il simbolo, il ragionamento deduttivo si fa analogia, la narrazione diventa mitologia, in una commistione di piani che sarebbe piaciuta al mistico esoterico Guénon, o ai surrealisti:
«Non c’è topologia più bella di quella di Möbius per designare questa contiguità del vicino e del lontano, dell’interno e dell’esterno, dell’oggetto e del soggetto all’interno della stessa spirale, dove s’intrecciano sia lo schermo dei nostri calcolatori sia lo schermo mentale del nostro proprio cervello. E’ secondo lo stesso modello che l’informazione e la comunicazione tornano sempre su loro stesse in una circonvoluzione incestuosa, in una indistinzione superficiale del soggetto e dell’oggetto, dell’interno e dell’esterno della domanda e della risposta, dell’evento e dell’immagine, ecc. – che può risolversi solo chiudendo il cerchio, simulando la figura matematica dell’infinito”
(da La trasparenza del male, Sugarco, Milano, 1991).
Se Möbius e la topologia rappresentavano una realtà sempre più aggrovigliata su se stessa, Gödel forniva al bagaglio metaforico dei post-modernisti un’arma formidabile per mettere in dubbio il valore della nostra conoscenza del mondo attraverso il “determinismo” delle scienze esatte. I teoremi di incompletezza, al pari del principio di indeterminazione di Heisenberg, erano citati continuamente per diffondere l’idea che la matematica potesse servire di supporto per significare non più il cosmos del rigore e dell’ordine, ma il caos dell’indicibile e dell’incerto. La realtà diventava complessa, caotica, “rizomatica”, multidimensionale, persino “irrazionale”, e, non appena negli anni ‘70 fece la sua comparsa la geometria frattale, con le sue nozioni di ricorsività e autosimilitudine, subito entrò anch’essa nelle speculazioni pseudo-matematiche degli umanisti.
Poco dopo la pubblicazione dell’articolo, Sokal denunciò la beffa su un’altra rivista, Lingua franca, provocando sia le violente reazioni da parte della cultura umanistica francese e dei suoi seguaci presenti nelle facoltà americane, sia anche l’approvazione di gran parte del mondo scientifico. Così spiegava:
«In tutto l’articolo utilizzo dei concetti scientifici e matematici in una maniera che pochi scienziati e matematici possono prendere sul serio. Ad esempio, suggerisco che il “campo morfogenetico” – una curiosa idea new-age di Rupert Sheldrake – rappresenta una teoria superiore della gravità quantistica. Questa relazione è pura invenzione, e lo stesso Sheldrake non afferma nulla del genere. Io affermo che le speculazioni psicanalitiche di Lacan sono state confermate da lavori recenti nella teoria del campo quantistico. Persino dei lettori non specialisti avrebbero potuto domandarsi come questa diavolo di teoria del campo quantistico c’entri con la psicanalisi, è certo che il mio articolo non forniva alcun argomento ragionevole per sostenere questa relazione.
Insomma, ho scritto intenzionalmente l’articolo in modo che ogni fisico o matematico competente (o uno studente di fisica o matematica) si rendesse conto che si trattava di una parodia. E’ chiaro che gli editori di Social Text non si sono posti il problema di pubblicare un articolo sulla fisica quantistica senza preoccuparsi di consultare un qualsiasi persona competente nel settore».
La conclusione che in molti trassero dalla vicenda fu che, siccome certa filosofia non si distingue dalla sua parodia, non è una cosa seria. Alla sua beffa Sokal fece seguire Imposture intellettuali (Garzanti, 1999): un libro scritto con Jean Bricmont, che mostrava con abbondanza di riferimenti come gran parte della filosofia postmoderna francese fosse colpevole di «manifesta ciarlataneria».
Nel suo scherzo, Sokal era mosso da motivazioni serissime, essendo preoccupato dal fatto che quella cultura incoraggiasse il disinteresse per la realtà e per i contenuti concreti, soprattutto riguardo ai problemi sociali e politici che dovrebbero stare a cuore alla sinistra. Un tale disinteresse dipenderebbe proprio da quel «relativismo cognitivo» che ha spinto molti autori postmoderni a dichiarare che ogni cosa, e persino la stessa realtà fisica, non è nient’altro che una costruzione culturale o sociale. Ora, se ciò può essere di poca importanza per le scienze fisiche e matematiche, che comunque seguono paradigmi diversi, le «scienze umane» perdono invece ogni contatto con la realtà umana e sociale che vorrebbero indagare e magari cambiare.
Secondo Sokal, uomo di tendenze politiche progressiste, il fatto che una rivista di sinistra come Social Text fosse cascata in un simile tranello non era episodico, ed era anche preoccupante. Questa tendenza al «relativismo cognitivo», con forti cedimenti alle pseudo-scienze e alle panzane di una certa cultura misticheggiante para- o pseudo- ambientalista stava diventando insopportabile, soprattutto perché caratterizzava molti intellettuali umanisti politicamente impegnati. Presa dalla vertigine strutturalista, la sinistra stava abbandonando le istanze di uguaglianza e l’approccio scientifico alla realtà, per inchinarsi al dominio dei parolai, i quali, ritenendo la realtà stessa una creazione del linguaggio, non riuscivano a vedere la spirale perversa di autoreferenza in cui si erano cacciati. Aprendo la strada allo scetticismo verso il sapere scientifico, queste correnti di pensiero hanno inoltre la responsabilità di aver restituito dignità al pensiero mitologico, alla marea new-age, al proliferare dei furbi di ogni risma, «scienziati indipendenti», che, sull’onda del favore popolare, propongono le loro ricette balzane spacciandole per «scienze alternative». Personalmente condivido appieno queste preoccupazioni, con particolare riferimento a una certa sinistra italiana, tanto attenta ai sondaggi da dimenticare le proprie origini razionali e inseguire le paure o le idee pseudo-ambientaliste oggi tanto in voga.
L’avvertimento di Sokal vale infatti soprattutto oggi, particolarmente osservando il panorama italiano, dove l’analfabetismo scientifico raggiunge livelli impressionanti (anche a sinistra), dove sale la diffidenza verso la scienza e le sue istituzioni e si fanno strada timori infondati riguardanti i supposti pericoli derivanti dalla natura stessa della conoscenza scientifica. Questa situazione allarmante è stata messa in luce anche da Enrico Bellone, il compianto storico della scienza e grande divulgatore, particolarmente in La scienza negata. Il caso italiano (Codice, 2005), che ha individuato precise responsabilità anche in molti intellettuali italiani, filosofi ma non solo.