Il gioco delle ombre digitali

Sociologia dell’identità e finzione metaletteraria estrema

Valerio Pellegrini
Lo sguardo di Tiresia
10 min readNov 7, 2012

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Riusciamo a immaginare cosa parlerà di noi nel futuro, tra dieci o venti anni? La copertina di Time? Filmini di famiglia? Vecchie foto? O forse qualcosa di più vischioso e personale come ad esempio un diario? Essere Ricardo Montero, il primo romanzo del sociologo Gianfranco Pecchinenda, è una provocatoria trasfigurazione metaforica di quel laborioso gioco intellettuale che accompagna ogni tentativo di definire con certezza l’identità individuale oggi.

In un contesto di identità precarie, maschere sociali, mondi digitali è facile intuire quanto possa essere bugiarda una fotografia, specie se ingiallita dal tempo. L’atto di immobilizzare tecnologicamente l’essenza di una persona intrattiene un rapporto quanto meno ambiguo con la realtà: non sappiamo cosa resta fuori dal quadro e ciò che è nel quadro non può certo sfuggire all’interpretazione o al lavorio del tempo. Oggi la società dei consumi comunicativi non fa che incoraggiare la produzione di istantanee e di altre tracce digitali quasi come se nella moltiplicazione spensierata dell’atto di guardarci allo specchio possa davvero esserci la chiave per definire ciò che ci rende definibili. Ma va bene così: quasi sempre chi si mette in posa sa benissimo che la realtà è più complessa e sfumata di uno scatto. E chi allestisce la messa in scena lo sa ancora meglio.

Tracce digitali

Resta il problema di capire sé stessi e raccontarsi al di là del gioco impressione/esposizione. Ad ogni salto, la corsa tecnologica conferisce a questo gioco una splendente verniciatura che rende ogni gesto eccitante e nuovo. Ma il processo rischia sempre di cadere nella routine di una ottundente ed eterna celebrazione della riproducibilità tecnica in sé. Ci sono dei bisogni comunicativi umani che non sempre le macchine da sole riescono a soddisfare, nemmeno nella loro attuale incarnazione social.

Lo sharing di massa, celebra un’idea di condivisione piena, di conoscibilità assoluta che seduce l’individuo e le sue cerchie. Dagli album di famiglia alle comunicazioni epistolari, dalla cronologia delle ricerche sul web alla lista dei movimenti di una carta di credito: frammenti si accumulano disordinatamente a formare un unico racconto che l’immaginazione, coadiuvata dalle protesi digitali, può puntellare o adulterare a seconda dei bisogni del momento. La neutrale immobilità di transazioni simboliche codificate, registrate e archiviate dalla rete, sembra dire agli altri e a noi stessi tutto quello che c’è da dire sul conto di una persona. Ma quando il gioco comunicativo lambisce la scala planetaria e millanta la sua eternità digitale, le trasmissioni uno a molti possono seguire strade non sempre prevedibili.

Dati sensibilissimi

Nell’era delle carte di credito e delle truffe informatiche accettiamo senza fatica l’idea che un’identità possa essere rubata. Nella società dell’informazione, non lascia sgomenti la circostanza che un particolare diario basato su ricordi inventati e informazioni verosimili possa tratteggiare l’esistenza di un personaggio insinuando il dubbio che questo sia reale tanto quanto lo siamo noi. Ma quello che lascia sgomenti in questo romanzo è che un Ricardo Montero possa muoversi alla luce del giorno invadendo il dominio degli esseri in carne ed ossa, pronto a prendere il nostro posto in virtù di informazioni vitali quali i nostri ricordi o i dettagli dei nostri spostamenti, del nostro ménage familiare. Sullo sfondo i social media e la privacy sempre più schiacciata dalle esigenze industriali della trasparenza assoluta. Le bacheche delle vite degli altri esposte su Facebook rappresentano «personaggi senza corpo» ma anche narrazioni che, come tali, hanno a disposizione un varco per invadere la nostra quotidianità. Uno squarcio lascia passare i piccioni congiungendo simbolicamente diversi livelli di consapevolezza della realtà. Il sogno e la realtà sono solo due di questi livelli. Essere Ricardo Montero gioca dunque con la paura ancestrale del doppelgänger aggiungendo al racconto sfumature psico-sociologiche proprie dell’evo digitale.

La copertina di Essere Ricardo Montero

La spiazzante copertina di Essere Ricardo Montero è forse il miglior compendio di questo evanescente discrimine tra persone reali e mondi virtuali. Non fa una piega che in copertina ci sia una immagine rubata ingrandendo in maniera apparentemente casuale la copertina di un altro libro. Si tratta della copertina dell’edizione spagnola del romanzo Doctor Pasavento di Enrique Vila-Matas. In alto si intravede appunto la parte inferiore del titolo. Al centro dell’ingrandimento regna una vecchia foto datata 1924. L’uomo col cappello è Emmanuel Bove, «il più grande tra gli scrittori francesi sconosciuti», ritratto con sua figlia Nora ai Giardini del Lussemburgo di Parigi. Si tratta di un progetto grafico fuori da ogni seminato ma con una eloquenza che nessuna quarta di copertina riuscirebbe a centrare: c’è la beffarda ironia di un ricalco quasi letterale; c’è l’apparente casualità di una regia che sembra non esserci ma che invece c’è; ci sono i percorsi della memoria simbolicamente richiamati da una foto vecchia di quasi cento anni. Soprattutto c’è la figura di Emanuel Bove, uno scrittore osannato dalla critica ma inspiegabilmente invisibile nel corso della storia della letteratura tanto da sembrare un fantasma, un personaggio inventato.

Pseudonimi e pseudouomini

Pseudonimi, piccioni, personaggi di finzione, uomini col cappello: esseri liminali, intermediari che che stanno sullo sfondo e improvvisamente balzano in primo piano facendoci intravedere altre dimensioni, invischiandoci in continue imposture narrative, denudando verità oniriche prive di ogni sospensione morale. Osservatori silenti ci scrutano e si tengono pronti a prendere il nostro posto, creando nuovi mondi, imponendo le loro assurde distopie dove il virtuale può diventare reale.

L’Homunculus

Il senso di identità precaria si propaga dalla copertina a tutti i personaggi che popolano Essere Ricardo Montero. Anzitutto Ricardo Montero: un personaggio di finzione che si crede reale e narrandosi cerca di dimostrare la sua assoluta normalità. Alter ego interinale del suo ideatore, vive «brevi momenti, per essere successivamente sostituito da altri come lui». Il suo discorso interiore (e quindi egli stesso) non è altro che una bozza e la sua continua riscrittura riproduce una confusa autocoscienza. A ogni pagina diventa sempre più difficile riconoscere l’ego narrante. Emerge solo il cardine antropologico dell’autonarrazione.

Ricombinando pagine di letteratura classica, scene di film, titoli di opere d’altri e un assillante senso di déjà vu il sociologo dei mondi virtuali Gianfranco Pecchinenda sceglie un vertiginoso gioco di specchi per affrontare il problema della narrazione dell’identità. Essere Ricardo Montero è la continuazione (con altri mezzi) del discorso sull’Homunculus in cui si spiegava il rapporto tra il sé e le facoltà autonarrative. Nel saggio Homunculus. Sociologia dell’identità e auto narrazione Gianfranco Pecchinenda scriveva: «Autonarrarsi è l’unico modo che conosciamo per delimitare la nostra identità qualificandoci come soggetti agenti». In quel saggio le facoltà autonarrative, così importanti per le teorie sulla costruzione dell’identità, venivano evocate, teorizzate, collocate all’interno di un flusso storico che lega Omero alle moderne narrazioni video ludiche.

Accendi/Spegni l’homunculus che è in te

Con Essere Ricardo Montero il sociologo torna su quelle tracce e soddisfa la fantasia estrema di mettere in scena le teorie rendendole avvincenti in forma di romanzo. Smarcandosi dalla forma-saggio, l’approccio è più libero e creativo, forse addirittura più efficace proprio sul piano didattico. Con le sue ambizioni narrative l’homunculus di Ricardo Montero si fa ambasciatore dell’autocoscienza umana nel nascente millennio dello storytelling digitale.

L’albero genealogico

Ricardo Montero si rende credibile ai più perché prova ad affermare la sua identità documentando un albero genealogico. Commuove quasi la forza con la quale la creatura cerca meticolosamente la concretezza dei nessi storici tra padri e figli e tutto quello che numerosi individui hanno dovuto patire per giungere all’approdo della sua nascita. In tema di architettura identitaria, l’homunculus Montero sceglie astutamente di scandagliare il luogo e il tempo delle origini. Qui il sociologo Gianfranco Pecchinenda, sottolinea come venga giocando la carta dell’appartenenza familiare, insinua l’idea che quel «delirio di credersi uno scrittore» alberga in chiunque si ponga delle domande sulla propria identità, anche semplicemente mettendosi alla ricerca delle proprie radici partendo da Facebook. Del resto chi è davvero quell’essere che aggiorna il nostro status su Facebook? Quali sono i suoi scopi? Come Ricardo Montero, chi partecipa al gioco dell’autonarrazione in un social network si costruisce stratificando e selezionando informazioni che possono essere vere, false o di una sfumatura intermedia tra verità e falsità. In Essere Ricardo Montero aspiranti scrittori, persone reali e personaggi di finzione possono manipolare quei legami che tradizionalmente costituiscono il cemento dell’identità: il corpo, il nome, la propria storia personale e magari il proprio albero genealogico. La facilitazione di questa attitudine narrativa è il grande dono concesso al moderno Narciso da internet e dalle chat room digitali. Facebook all’incrocio tra ricerche identitarie e consapevole (?) rinuncia alla libertà garantita dalla privacy e dall’anonimato. Ma poi cosa resterà di Ricardo, del suo creatore, dei suoi antenati, dei suoi lettori?

«Sei sicuro di voler disattivare il tuo account?»

Il romanzo sposta gradualmente il fuoco della riflessione sociologica e filosofica verso il nesso identità-narrazione-memoria. In ogni universo narrativo l’identità viene definita per accumulo di dettagli caratterizzanti. Se la letteratura può essere un modo per sopravvivere ai padri o ai maestri, la narrazione del sé attraverso l’esercizio quotidiano delle protesi digitali dell’autocoscienza può essere una strategia (più o meno consapevole) attraverso cui l’individuo cerca di garantirsi una sopravvivenza idealmente posta in un punto indefinito oltre il transito biologico.

Permanenze non permanenti

«Sei sicuro di voler disattivare il tuo account?» Gli occhi sbarrati dell’Autore fissano un monitor assillati da un dubbio: la materia che vediamo di fronte a noi è una semplice coltura romanzesca o è vera vita? È davvero possibile tirare una linea tra i due livelli? Siamo arrivati ad affidare alle macchine i nostri segreti, le nostre memorie, parti sempre più importanti della nostra coscienza. Lo scrigno digitale è protetto da una password e da una privacy policy: entrambi elementi ridicolmente precari. Ecco come viene cambiata la nostra vita mentale: se il web costituisce un tessuto connettivo che collega punto a punto allora il passato ha a disposizione più tempi per un ritorno mentre il presente è sempre più carico di elettrizzanti opportunità. Così la fatalità di un addio è meno drammatica, la speranza di un incontro più concreta. In Essere Ricardo Montero la rete, senza alcun preavviso, può avviluppare un individuo e trasformarsi in una colla di emozioni. Frasi burocratiche come «il tuo account è stato disattivato» evadono dal linguaggio delle macchine e diventano vettori di emozioni. Nel caso del povero Ricardo Montero, uno straziante grido di dolore. Facebook, subdolo e infaticabile Cupido meccanico, ha sempre da scoccare frecce contro chi vuole allontanarsi: «Speriamo che tu possa tornare presto» oppure «Questo amico sentirà la tua mancanza. Inviagli un messaggio».

Postfazioni

La postfazione di Essere Ricardo Montero, affidata alle parole di un altro personaggio di finzione nato prima di Ricardo, è rivolta a tutte le possibili persone virtuali, alle nuove generazioni appartenenti a quel «genere di umanità diversa». «La differenza la fanno proprio il corpo, la faccia, e tutti quegli attributi che tutti loro hanno e che noi invece non abbiamo. […] Il problema, forse, sono oggi proprio queste nuove tecnologie, tutte queste strane diavolerie che tendono ad illudere alcuni dei più giovani tra noi, per poter diventare degli esseri più autonomi, più indipendenti, più liberi e forse anche più veri di quello che potremmo mai essere. Il fatto è che noi non siamo e non potremo mai essere degli individui come gli altri. Il frutto della carne è dell’altra carne. Il frutto del pensiero è dell’altro pensiero, tutto qui.» Suona piuttosto lapidario, ma è pur sempre il pensiero di un personaggio fittizio. Da notare che la creatura letteraria rivendica una propria dignità, un diritto al riconoscimento dell’identità non certo un corpo fisico. Prima di congedarsi Ricardo Montero si rassicura così: «essendo stato, non avrei più potuto evitare di essere ancora». La trasmissione della vita mentale di un individuo è dunque possibile sebbene il prezzo da pagare sia quasi sempre un tortuoso viaggio nel tempo e nello spazio tra supporti tecnologici che semplificano e standardizzano, foto che mentono, reminiscenze che tradiscono, narcisismi che manipolano. La voglia di raccontare a tutti i costi è la grande verità antropologica che emerge dalla vicenda e se alla fine risulterà incerta l’attribuzione di questo memoriale (auto?) biografico non sarà certo un dramma.

Qual’è la scadenza?

Tutto sommato il nostro Ricardo Montero avrà la sua occasione per imporsi nella imprevedibile e lunghissima partita a scacchi che ogni individuo gioca contro il tempo e contro l’oblio. In futuro, potrebbe capitare che qualcuno vorrà cercarci curiosando tra faldoni che non fanno polvere e fiumi di immagini che non ingialliscono. Nello sguardo dei posteri, nativi digitali, si materializzerà bit dopo bit una visione. Costoro osserveranno noi o il nostro simulacro digitale? Vedranno qualcosa che parlerà di noi o sarà la nostra ombra tramata dall’homunculus? Ciascun Montero avrà ottime possibilità di sopravvivere al proprio autore-creatore prendendosi una clamorosa rivincita.

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