La memoria del vino: una lettura del romanzo Il paradiso degli interstizi di Gianfranco Pecchinenda

di Giustina Orientale Caputo

Tiresia vede
Lo sguardo di Tiresia
7 min readMar 6, 2020

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L’unico schiaffo alla morte non può che essere vivere e rivivere quell’esperienza unica della memoria del gusto del vino. Se la letteratura, come ha scritto Pessoa, è la confessione che la vita da sola non basta, Gianfranco Pecchinenda lo sa e sceglie, nel suo ultimo romanzo Il paradiso degli interstizi, di immergersi (e immergerci) nel mondo meraviglioso delle mille altre possibilità che l’immaginazione regala.

Il paradiso degli interstizi, Inknot editore
Il paradiso degli interstizi, inKnot Edizioni

La scrittura, come la lettura, non allunga la vita, ma la allarga, ci consente di spaziare e di essere altro, molto altro, forse quasi tutto quell’altro che non siamo stati, perché come tutti i lettori sanno, i libri, le storie e la letteratura, ci fanno entrare e vivere — per poco o per molto che sia — altre vite, altri amori, altri percorsi, avere altri comportamenti, fare altre scelte, che non sono le nostre, che forse avrebbero potuto essere e non sono state. O che forse sono state solo nei sogni. Le riflessioni sulla vita, la morte, l’io, l’immaginazione e l’inganno, la verità e la sua vacuità attraversano in maniera decisa tutto il romanzo e sono a mio avviso un gioco raffinato che corrisponde a quel desiderio che Pecchinenda dichiara ad un certo punto nel libro, quando scrive che è necessario, almeno di tanto in tanto, esercitarsi a scompaginare, offuscare, confondere.

La vita, quella incomprensibile combinazione di caso e necessità che caratterizza l’esistenza di ogni essere umano, accade, sembra scrivere Pecchinenda, e non è detto che si trovi in essa sempre un senso; è un bisogno, un desiderio non sempre realizzabile, quello di attribuire un significato macroscopico a quello che ci accade. Lì dove invece poi, la verità è molto più banale, deludente o addirittura inesistente. E nel frattempo, accadono eventi, altre cose: persone che ci lasciano, che non ci amano, che non capiscono o che noi non capiamo, e ci perdiamo, sbagliamo, ci facciamo male, gli uni con gli altri. Le cose vanno diversamente, scrive l’autore, le nostre storie piene di causa-effetto ci fanno perdere di vista che siamo esseri inquieti, precari.

E lì lo scafo della nostra illusione — quella di potere governare e pianificare la nostra esistenza — comincia a creparsi e in queste crepe, in questi piccoli interstizi, sostiene Pecchinenda, ci è consentito di vedere e di capire che non esiste nessuna verità e che la vita poteva essere altro o forse solo ci consentiamo di sognare quello che saremmo potuti essere, o quello che si annida dentro di noi. Gli avvenimenti centrali della nostra vita finiscono per essere quelli che non si sono realizzati e il desiderio di fantasticare, dunque l’immaginazione, è la sola dimensione capace di ricucire ciò che è stato e ciò che no, o ciò che, pur non essendosi realizzato, è stato quanto meno desiderato. Una dimensione che può essere esperita forse solo con la scrittura, il racconto e la parola.
Ed è questo un primo elemento che, pur non dichiarato, a me pare centrale, che dà valore a questo lavoro di Gianfranco Pecchinenda — forse perché io, come lui, sono ‘contaminata dalla scrittura’ — ossia che questo non è altro che un elogio alla scrittura, che sola, forse, consente di scavare in quell’eccesso di mondi possibili interiori, di esprimere quella stravagante ricerca di stupore, di dare voce a quel bisogno anche sproporzionato di contemplare tutto ciò che ci circonda che caratterizza forse tutti noi.

Se nel romanzo sul padre e poi in quello sulla madre [1], l’autore ci aveva raccontato il suo passato, certo per comprenderlo più a fondo, qui è quel passato che non è stato o che forse sarebbe potuto essere, l’oggetto del suo riflettere.

Ma un riflettere che si fa romanzo e che nel dipanarsi di una storia — quella di alcune persone che si muovono e lavorano nel mondo universitario — trova in fondo solo la scusa per affrontare diversi temi cari all’autore. E i temi, per chi lo conosce come scrittore o come docente, non possono che essere la cultura della morte, la contemplazione della propria e della altrui irrilevanza, l’inganno e l’immaginazione, ma anche le storie di vita segnate dalle emigrazioni, il gioco del calcio, il rapporto fra maschi, il mistero dell’amore, le archetipiche figure dei maestri o della madre e del padre.
Il libro a me pare costruito come una matrioska, quelle scatole russe che contengono al loro interno altre scatole e poi ancora altre scatole. Può cioè essere letto in diverse maniere, come sempre accade con la letteratura vera. Ed ognuno è libero di scegliersi il libro o il gioco che più gli si confà. È infatti, certamente un romanzo, in cui c’è cioè una storia, il racconto del legame e della crescita di due giovani studenti universitari che diventeranno uomini e colleghi di dipartimento, fatta di amicizia e segnata dall’amore per una stessa donna, per uno stesso maestro, ma anche da un destino che li porterà ad avere una diversa carriera con un segreto che si svelerà solo alla fine, come nei migliori gialli.

Ma è anche senza dubbio un libro che può incuriosire, nel tentativo di carpire segreti e retroscena di un mondo abbastanza sconosciuto, come quello universitario, piccola comunità in fondo. E qui va detto che Gianfranco Pecchinenda esprime un’idea molto personale e interessante di cosa sia l’università, non tanto un’istituzione quanto piuttosto una strana congregazione di folli, “una tana kafkiana, in cui finiscono per trovare rifugio coloro che, per una ragione a volte del tutto casuale, hanno raggiunto un grado di consapevolezza di sé tale da sentire di non poter sopravvivere altrove”. Una tesi, confesso, a cui non avevo mai pensato. Su cui toccherà riflettere ancora.
Si può poi farsi prendere dalla tentazione — a cui lo stesso autore, divertendosi a mio avviso assai, più o meno volutamente spinge — quella di riconoscere o credere di riconoscere nelle figure, nei ritratti e nelle descrizioni di luoghi, persone e personaggi questo o quella persona reali, ma è, io credo, un gioco di allusioni e di illusioni che non porterà se non a riconoscere che i confini fra realtà e finzione sono labili, difficili, in-rintracciabili. Il gioco dell’”è lui o non è lui” non porterà che a ritrovarsi nella trama che fin dall’inizio Pecchinenda costruisce di una riflessione sulla realtà che entra nella finzione e della finzione che sovrasta la realtà. Il gioco per altro degli autori da lui più amati, che viene ripetuto e abilmente riprovato, che è stato quello di Sciascia, di Bernard Shaw, di Voltaire.

In questo senso c’è poi un altro libro — e qui confesso che c’è il ‘mio’ libro, ossia quello che io ho letto e riconosciuto come più mio — che è il libro fatto di citazioni, riferimenti più o meno espliciti, omaggi e allusioni agli autori più che amati, quelli imprescindibili e assurti a maestri di una vita, grazie ai quali Pecchinenda ha affinato la sua sensibilità e costruito la sua poetica. E sono Kafka, Gogol, Borges, Cortázar, Bolano, Dostoevskij, Wittgenstein. Per dire solo dei principali.

E nel rimandare a autori e scrittori c’è pure del divertimento, in un libro che certo non si pone questo obiettivo, quel divertimento che solo viene dal piacere di un gioco letterario raffinato fatto di citazioni che agli estimatori della letteratura piace tanto. C’è cioè tutto l’omaggio che Pecchinenda tributa a Roberto Bolano, grande ammiratore di Borges, altro autore a lui particolarmente caro, da cui egli prende il modo di procedere e a cui non ha tema di rifarsi nel lungo episodio dedicato al professor Amalfitano (come è noto protagonista di una delle sezioni del capolavoro di Bolano, 2666).
Infine c’è il libro nel libro costituito da tutti i sogni, che punteggiano il romanzo, e che sono ora dell’uno ora dell’altro protagonista: quelli ad occhi aperti e quelli ad occhi chiusi. Sogni come frammenti surreali della vita, momenti di preveggenza e premonizione: il primo racconto di Capuano, una vecchia lettera che Francesco scrive ad Alice raccontandole un altro sogno, occasioni che servono all’autore per potersi concedere la libertà e lo spazio di esprimere la propria e più profonda visione della vita o le metafore più care, il senso dell’esistenza come una partita di calcio o l’ultimo racconto di Capuano una toccante, poetica e suggestiva fantasticazione sulla morte.
Ma soprattutto — e poi la smetto — se Kafka scrive che un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi, questo di Gianfranco Pecchinenda mi sembra soprattutto essere un libro in cui la scure lui la usi per il mare gelato dentro di lui. A me pare infatti che mai come qui egli si guardi molto dentro e, senza farsi sconti, si metta a nudo e mostri in questo di avere trovato una nuova cifra della sua produzione. A scrivere il copione della propria vita non ci si riesce e certo la vita non ti darà — a differenza dei romanzi — il tempo di rileggere il testo o di ripassarlo in bella copia. Altri lo potranno fare, tu puoi solo disegnarlo inconsapevolmente.

Chissà insomma, mi viene da concludere, se la vita è un viaggio, un sogno, un’attesa (Jorge Luis Borges) o un piano che si svolge, giorno dopo giorno e tu non te ne accorgerai che alla fine, a disegno compiuto (Adriana Cavarero). O se non è più vero che non c’è nessun senso se non quello che attribuiamo noi ogni tanto, sbagliando, ad essa o se infine non abbia ragione Taleb, quando afferma che la vita apprezza l’ironia come l’evoluzione apprezza le anomalie. Occorrerà allora convincersi che in certi momenti il senso non conta e che l’unica cosa che contano sono i legami. O l’amore.
Anche se — sostiene Gianfranco Pecchinenda, ma io non gli credo — l’amore non c’entra.

Note

  • [1] Gianfranco Pecchinenda, L’ombra più lunga, Colonnese 2009 e L’ultimo regalo, Lavieri 2013

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