Malati Immaginari — Bambini

Di quando mettevamo in croce i bambini “difficili” e di quando, ancora oggi, il silenzio avvolge i reparti.

flora ciccarelli
TockTock
10 min readApr 20, 2020

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Abandoned Psychiatric Hospital for Children © Steven Siegel — original picture on Flickr

Sole, animaletti, alberi, fiori, arcobaleno.

Sulle pareti del reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico ci sono rassicuranti dipinti murali dai tratti infantili e dai colori vivaci. L’atmosfera è forzatamente rassicurante ma le pareti dell’edificio raccontano praticamente tutto a chi vuole leggerle. Margherita cammina nel corridoio, svolta sicura a sinistra e si accomoda nella saletta dei visitatori del reparto, della quale è ormai assidua frequentatrice. Inaspettatamente accogliente per il ruolo che riveste, la saletta dei visitatori è ampia sugli 8 metri quadri e ospita diverse panche e sedie disposte attorno a un tavolo centrale. Sulle panche sono poggiate alcune riviste, tra le quali Margherita seleziona lo speciale di Wired sulle serie tv. Suo fratello la raggiunge poco dopo, si salutano a malapena, poi si mettono a leggere la recensione di Breaking Bad insieme.

Le pareti della saletta non sono dipinte con i murali rassicuranti ma foderate di disegni dei giovanissimi pazienti. I fogli sono attaccati alle pareti con il nastro adesivo, niente puntine. Niente puntine, niente forbici, niente rasoi e niente tagliaunghie nel reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico. Suo fratello le fa notare questo dettaglio mentre un infermiere che sembra De Rossi gli taglia le unghie con dolcezza. Quella è l’unica frase che le dice di sua spontanea volontà, tutto il resto Margherita deve tirarglielo fuori con la forza: i nomi dei dottori, del compagno di stanza, delle ragazze più carine. Annota tutto su un taccuino perché ha paura di dimenticare qualche dettaglio. La prossima volta vorrà sapere cosa fanno, se sono ancora lì con lui o se li hanno dimessi.

Durante l’orario di visita il reparto si anima un po’, ogni tanto si sente qualcuno ridere o giocare, ma più spesso si sente piangere e urlare, qualcuno che lì non ci vuole più stare, che vuole andare via, che vuole la mamma.

Fiori, animaletti, tagliaunghie, urla dal reparto.

Niente oggetti taglienti, disegni felici alle pareti, di sera a letto presto e d’estate in piscina con gli operatori. Questi posti esistono perché sono necessari e utili, Margherita lo sa bene, vede lo sforzo di rendere la degenza di quei bambini meno negativa possibile. Eppure almeno una volta al giorno qualcuno urla, piange, tenta di scappare. Sono bambini che molti definirebbero “difficili”, hanno dei disagi, a volte persino delle patologie psichiatriche o neurologiche, ma se da un lato le fanno paura le urla che arrivano dal fondo del corridoio, dall’altro quello che le fa ancora più paura è il silenzio glaciale in cui ripiomba il reparto alla fine delle sue visite.

Allo scadere dell’orario Margherita saluta suo fratello e va via: le due porte dell’edificio si richiudono alle sue spalle, due porte che si aprono solo con la chiave a disposizione di dottori e infermieri. E lei torna nel mondo normale, pieno di tagliaunghie e di chiodi, chiedendosi se quando finisce l’ora delle visite in quel reparto c’è sempre quel silenzio che appesta l’aria oppure si riesce anche a stare bene. Perché nei posti dove ci stanno i bambini il silenzio non ci dovrebbe essere, pensa Margherita, e se c’è vuol dire che qualcosa non sta andando come dovrebbe.

Da quando suo fratello è in cura al Policlinico, lei è diventata un’esperta di manicomi infantili. Ha scoperto su Google che nei manicomi per bambini, in molti manicomi per bambini, vigeva l’imposizione del silenzio. Le pene per chi infrangeva questa o le altre numerose regole erano esemplari: i bambini erano costretti a restare a terra, in ginocchio, con le mani sulla testa o sotto le gambe. Oppure semplicemente ricevevano frustate e bastonate. Le punizioni più temute, però, e quelle che più traumatizzavano i giovanissimi “ricoverati” e che durante i processi a chiusura dei manicomi furono le più citate, erano altre. Infermieri e infermiere, spesso suore e preti, (altre volte giovanotti con la terza media e l’attestato di “sana e robusta costituzione”), costringevano i bambini a leccare la pipì a terra, oppure, sempre con la lingua a terra, a fare il segno della croce.

Il segno della croce con la lingua a terra.

Il crocifisso è il simbolo del Figlio per eccellenza, figlio che invoca il Padre ma il padre lo abbandona a morire da solo sulla croce, figlio che muore senza peccati ma per i peccati degli altri. Il crocifisso, nei manicomi infantili, è una metafora che ritorna spesso.
E ritorna il 26 luglio 1970, quando l’Espresso pubblica un reportage di Gabriele Invernizzi che farà scoppiare il caso dei manicomi infantili a livello nazionale. A fare scandalo, sopra ogni cosa, una fotografia di Mauro Vallinotto che si era infiltrato a Villa Azzurra, vicino Torino, per documentare la situazione. Lì aveva ritratto una bambina di dieci anni, completamente nuda, legata mani e piedi a un letto, rassegnata a quel trattamento in quella che era una vera e propria crocifissione laica. E fu proprio questo piccolo Cristo in croce, suo malgrado protagonista dello scatto, a smuovere le coscienze e a portare all’arresto del dottor Giorgio Coda, direttore della struttura dal 1964.

foto di Mauro Vallinotto pubblicata da «L’Espresso» il 26 luglio 1970

Margherita ripensa alle urla dei bambini dal reparto di neuropsichiatria infantile del Policlinico e prova a moltiplicarle per mille, per immaginare l’infinito senso di abbandono di qcegli altri bambini, rinchiusi all’età di 2–3 anni, spesso soltanto perché poveri o vivaci o con lievissimi handicap. Quei bambini, a differenza di quelli nel Policlinico, non avevano nessuna famiglia da cui tornare una volta finita la terapia: fine pena mai.

Vere e proprie discariche per “scarti sociali preventivi”, si stima che i manicomi infantili abbiano ospitato 200 mila minori in tutta Italia.

Non erano tutti dei lager, questi istituti, ma la maggior parte sì. I bambini se erano fortunati trascorrevano la giornata in silenzio, senza stimoli, senza poter giocare. Villa Azzurra a Collegno, poco fuori Torino, fu uno dei luoghi più drammatici poiché amministrata da Giorgio Coda, anche noto come lo Psichiatra Elettricista. Nel lungo processo seguito alla chiusura di Villa Azzurra, Coda divenne noto per il suo elettroshock punitivo come rimedio all’enuresi notturna, la pipì a letto. Quando l’aveva scoperto, Margherita ne era stata turbata: ricordava bene la rabbia di suo padre quando suo fratello, all’età di nove anni, ancora bagnava il letto. Non era un elettroshock, ma la reazione di suo padre in quei momenti aveva lo stesso effetto di una scarica: anche loro subivano in silenzio, ognuno legato al suo mobile di riferimento. Lei al letto, sua madre al tavolo della cucina, suo fratello al bidet del bagno mentre cercava di pulirsi e di farsi scivolare addosso le urla.

Angelo è uno di quelli che invece l’ha provato sul serio, il “trattamento” Ben cinquantadue volte: ai genitali, alla colonna vertebrale, ai reni, alla testa. Angelo è uno dei protagonisti de Il manicomio dei bambini. Storie di istituzionalizzazione, otto storie vere raccolte dal giornalista Alberto Gaino dagli archivi dei manicomi di Torino e provincia, tra i quali c’era anche Villa Azzurra. Nel volume, Angelo racconta:

Una volta partita l’elettricità nel mio corpo, non capivo più niente e svenivo. Saranno stati secondi, ma era come per quei bambini, fra di noi, che avevano le convulsioni. Partivi come un frullatore. Solo che eri tu, una persona. Non una macchina.

foto dal forum del sito Esplorazioni Urbane

Vero e proprio lager chiuso definitivamente nel 1979, Villa Azzurra esiste ancora, ma versa in uno stato di abbandono. Di fiabesco ha solo il nome, ora come allora. Guardando verso l’alto della struttura fatiscente si legge ancora cosa doveva essere e cosa non è mai stata: «Sezione medico-pedagogica». Tutt’intorno il complesso di padiglioni degli anni ’30 è stato ristrutturato e riutilizzato dall’Asl, dall’Arpa, da Soccorso alpino e dalla protezione civile. Soltanto Villa Azzurra resta un edificio abbandonato, anche cinquant’anni dopo dalla chiusura. Nessuno vuole ripopolarlo, nessuno se la sente. Margherita ne sente parlare da Barbara, una collega dell’ufficio che abita lì a Collegno. Barbara le racconta che lei da piccola ci andava a giocare, lì nel parco che ospitava il manicomio di Collegno. La struttura era stata chiusa pochi anni prima e sebbene le mura emanassero già un’aria spettrale, nel parco che circondava l’edificio era ancora bello correre e giocare a nascondino. Barbara le racconta che giravano storie strane, storie che non aveva mai ascoltato fino in fondo perché le fanno paura ancora adesso, figurarsi quando aveva cinque anni. Non è mai stata un cuor di leone, ammette, ma il suo istinto di autoconservazione la stava consigliando bene: Villa Azzurra non era un posto per giocare, era stata una casa degli orrori per tanti bambini.

Spartaco, il protagonista del documentario di Giulia de Stefanis su Repubblica.it, definisce Villa Azzurra una “casetta grande” dove “ti legano, ti danno le medicine, ti fanno le punture”. Anche lui ricorda tutto, dei tentativi di fuga che terminavano nelle lunghe notti di contenzione. Ricorda che lo lavavano con una pompa e lo spazzolone per i pavimenti. Le botte degli infermieri se non mangiavi, mentre se eri troppo agitato ti strozzavano con le lenzuola, così non restava il segno. E ricorda il suo tentativo di ribellarsi dopo l’ennesima violenza, spaccando la vetrata di una finestra e lacerandosi una mano. E poi ricorda Marco, che pianse di dolore per una notte intera. Nessuno lo slegò dal letto, nessuno chiamò un’ambulanza, Spartaco restò vicino a lui a dirgli di non fare rumore, di calmarsi, di non far arrabbiare gli infermieri. La mattina dopo Marco era morto, altro piccolo Cristo abbandonato al suo Calvario.

Troppo vivaci, poco obbedienti, talvolta ritardati, ipovedenti o epilettici. Quasi sempre poverissimi e abbandonati da famiglie inesistenti o impossibilitate a occuparsi di loro, tra padri assenti o alcolizzati e madri che devono tornare in fabbrica o a fare le prostitute.

Bambini “moralmente abbandonati”, che anche se non sono malati, se non sono “rotti” lo diventano a furia di stare chiusi lì dentro, di essere abbandonati a se stessi, di essere puniti per oscure ragioni, di essere lasciati legati al letto per giorni senza potersi muovere e spesso senza neanche mangiare, se gli infermieri se ne dimenticano. Bambini che forse hanno bisogno di cure particolari ma che in ogni caso non dovrebbero stare lì, rinchiusi in manicomio, legati al letto, agli alberi in giardino, ai termosifoni bollenti.

Bambini nell’ospedale psichiatrico di Deir el Qamar, in Libano - 1982. Foto di José Nicolas/Corbis

Quando li slegarono, alla chiusura di Villa Azzurra, i bambini saltarono da tutte le parti, sui tetti e sugli alberi, ruppero 360 vetri, le infermiere erano sconvolte. L’immagine, a decontestualizzarla, è quasi poetica. Sembra una scena de Il Palazzo da Rompere, una delle Favole al telefono di Gianni Rodari. Invece era molto più tragicamente la reazione uguale e contraria alla contenzione subita, spiega nel documentario di Repubblica.it uno degli psicologi che seguì il percorso di chiusura. Reinserire quei bambini nel mondo normale fu un grosso problema: non sapevano neanche mangiare da soli. A Villa Azzurra era loro vietato avvicinarsi a coltelli e forchette, per mangiare dovevano essere imboccati. Quasi nessuno riconosceva la propria immagine riflessa in uno specchio. Angelo racconta di aver visto dei giocattoli per la prima volta a 15 anni, quando ormai era riuscito a scappare dal manicomio. Bambini torturati, bambini annebbiati dai farmaci sperimentali, bambini abusati. Ogni cosa è impressa a fuoco nella memoria di Angelo:

C’era l’infermiere che si prendeva e si portava, dove solo lui sapeva, le bambine più sviluppate. Che avevano tredici anni, ma anche undici. La suora caporeparto, quella che andava tanto d’accordo con Coda, lo copriva. Ce ne furono una o due, di quelle bambine, che erano diventate grosse, la suora ci diceva: «Mangiano tanto, troppe caramelle». Quali caramelle? Non ne vedevamo mai. […] Ricordo che sotto la palazzina dove dormivano le suore c’era la sala chirurgica e che ci portavano dei malati che non tornavano. Mi ricordo di bambini e bambine che hanno portato là e non sono tornati da noi. I più grandi di noi dicevano che ci facevano esperimenti in quella sala chirurgica. Faceva paura quando portavano via qualcuno.

Chissà se anche a suo fratello è mai successo qualcosa di male, pensa Margherita, e chissà se gliene parlerebbe mai. Una volta glielo aveva anche chiesto ma lui le aveva fatto un sorriso da Stregatto, uno di quei sorrisi che volevano dire: “Ma sei pazza?” così lei aveva lasciato cadere l’argomento. Del resto suo fratello coltivava così bene l’arte del silenzio che no, anche nel caso in cui gli fosse successo qualcosa non le avrebbe mai detto niente.

Il silenzio di suo fratello, il silenzio del reparto di neuropsichiatria, quello antico dei manicomi infantili. Era questo, per lei, il dettaglio più insopportabile tra i mille dettagli insopportabili di quella storia fatta di bambini ricoverati per il loro bene o rinchiusi per il bene di qualcun altro. Se degli altri ricoverati, quelli adulti, restano almeno le lettere, grida forti e disperate che non arrivarono mai all’esterno perché mai furono spedite, dei bambini non sappiamo niente se non quello che trapela durante i processi, dalle cartelle cliniche e dalle testimonianze dei bambini stessi o di chi era entrato in contatto con loro.

Ma è così difficile raccontare l’abuso se non sai neanche di averlo subìto, e così i racconti e gli aneddoti dei bambini in manicomio sono tanto più assurdi quanto più stralunati, quanto più il punto di vista del narratore (i bambini ed ex bambini) sembra davvero quello di un matto e invece spesso è soltanto quello di un uomo che non è mai stato educato alla normalità, all’affetto, alla comprensione. Raccontare cos’è un ospedale psichiatrico è già difficile quando c’è il sole, i fiori, le rondini alle pareti, quando l’infermiere gentile ti taglia le unghie e tua sorella prende appunti. Ma il silenzio, come lo racconti il silenzio?

Il documentario di Giulia De Stefanis su Repubblica.it

Quest’articolo è parte del progetto Un meccanismo da nulla realizzato dall’Associazione ToVR con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando Ora!X — Strade per creativi under 30. Scopri di più su ora.compagniadisanpaolo.it

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