Malati immaginari — LGBTQI

Di quando segregavamo gli invertiti in manicomio e di quando, ancora oggi, cerchiamo di riconvertirli.

flora ciccarelli
TockTock
9 min readMar 16, 2020

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Dettaglio de I fondamenti della luce, di Gian Maria Tosatti. Museo MADRE di Napoli, gennaio 2017.

Gennaio 2017. Ho appena iniziato la mia prima relazione reale con una donna, si chiama Azzurra. Con lei va tutto come dovrebbe andare in una barzelletta sulle coppie lesbo: dopo un mese è già una simil-convivenza e per il suo compleanno la porto a Napoli, weekend romantico. Prendiamo il vento sul lungomare Caracciolo e la sfogliatella da Scaturchio. I fritti ai Tribunali e l’aperitivo a piazza Bellini. Andiamo al MADRE, il museo di arte contemporanea: lì incontriamo Paolina e da quel momento tutto cambia.

Paolina non è la terza componente di un ménage à trois, ma la protagonista de I fondamenti della luce, un’opera del giovane e premiatissimo Gian Maria Tosatti. In origine l’opera era pensata per un luogo abbandonato di Napoli, leggo nelle didascalie. Ci sono le foto, è uno dei tanti palazzi signorili e malridotti che popolano i quartieri della città.

Ne I fondamenti della luce tutto ruota attorno a una lettera: la lettera d’amore di Paolina T.

Siamo nel 1917, è il giorno di Natale. Paolina T. ha vent’anni ed è internata nel manicomio di Teramo da diverso tempo. La diagnosi è quella di “immoralità costituzionale”, poiché “povera” e omosessuale. Le parole tra le virgolette possiamo leggerle sulla sua cartella clinica. Immoralità fa rima con povertà, da sempre e per sempre, basti pensare allo status sociale medio di chi oggi riceve i trattamenti sanitari obbligatori. Immoralità fa anche rima con omosessualità, ma è una rima nascosta, da Settimana Enigmistica: perché la parola omosessualità non la pronuncia nessuno, nella cartella clinica di Paolina. Diciamo però che ci si arriva:

Mia Cara Linda

eppure anche in questo carcere un pallido raggio di gioia filtra attraverso un’amarezza e un dolore impareggiabile ad ogni altro dolore. Cos’è mai tutto questo? Tutto è un mistero profondo. E’ il natale che scende, quel balsamo di soavità. Oggi tutto è armonia, tutto è poesia. Non senti le campane come scheggiano festanti, come invitano alla gioia, come invitano a bandire ogni pena, ogni disturbo? Tutti oggi godono di questa serenità. […]

E a chi dovrei io presentare i miei sentimenti affettuosi se non a te?

Dettaglio de I fondamenti della luce, di Gian Maria Tosatti. Museo MADRE di Napoli, gennaio 2017.

Il problema dichiarato nella cartella clinica non è l’omosessualità perché non sono i gusti sessuali di Paolina “in sé” a farla rinchiudere. Il problema vero, il problema che spinge la società del secolo scorso (e quella di oggi, lo vedremo) a rinchiudere le donne lesbiche è il fatto che questa “inclinazione” contrasti con quello che è il loro “scopo”, la loro utilità pratica insomma. Nessuna dignità personale può essere concessa a una donna così come nessuna dignità è concessa a una sedia a cui manchi una gamba: perfettamente inadatta allo scopo per cui era stata concepita, bisognerà ripararla o gettarla via.

La dignità delle donne assomiglia a quella degli utensili, è sempre strumentale: se sei lesbica non potrai avere figli né servire un marito.

Dunque: non servi a niente. Dunque: verrai annientata.

Esattamente cent’anni dopo, quando di Paolina ormai non resta che questa lettera e la cartella clinica di un manicomio, io e Azzurra leggiamo le sue parole e ci sentiamo fortunate ad essere così vive, in vacanza mano nella mano. Leggiamo queste parole strazianti perché leggère, quasi inconsapevoli, con una punta di malizia, persino. Leggo la lettera di Paolina cent’anni dopo e mi sembra assurdo, vorrei che fosse un’altra barzelletta sulle coppie lesbo.

Alcuni mesi dopo il mio weekend romantico con Azzurra ritorno a Napoli. Vado a trovare la mia amica Rossella che vive accanto all’ex costrittorio femminile di Santa Maria della Fede, oggi noto come Santa Fede Liberata. Era proprio qui che, due anni prima, Tosatti aveva allestito I fondamenti della luce.

Passiamo davanti al palazzo e lei mi porta a visitare il cortile interno: mi racconta che era una specie di chiesa abbandonata, forse un ospedale, non ricorda con certezza. La mente di una ragazza nel 2017 fatica a concepire l’esistenza di un luogo a metà tra una chiesa e un ospedale, tra un convento e un manicomio. Un costrittorio femminile, una sorta di ospizio per femmine “che non si sono sapute regolare” direbbe un’altra napoletana, Elena Ferrante.

Gian Maria Tosatti sceglie di portare la lettera di Paolina nella Santa Fede Liberata per liberare anche lei: dalla povertà, per lo meno, per questo la porta nel luogo dove sarebbe andata se fosse stata una lesbica ricca. Rinchiusa in ogni caso, ma con qualche benefit in più.

I fondamenti della luce, di Gian Maria Tosatti. Installazione a Santa Maria della Fede, Napoli.

L’idea che l’omosessualità sia una malattia mentale appartiene soltanto alla nostra storia recente, di certo non agli antichi. Fino al 1800 fu considerata alla stregua di un problema morale e religioso, del resto la psicologia per come la intendiamo oggi (più o meno) nasce solo a metà di quel secolo quindi sarebbe stato difficile, prima di tale epoca, accusare gli omosessuali anche di problemi mentali. Ma è nel 1800 che viene avviato un processo di “medicalizzazione” di tantissime questioni e atteggiamenti dell’essere umano. Tra queste, anche l’omosessualità.

In realtà, per la prima ondata del movimento LGBT, la medicalizzazione dell’omosessualità era vista di buon occhio, spiega Mario Mieli in Elementi di cultura omosessuale: l’idea era considerata positiva perché permetteva di emanciparsi dalla concezione degli omosessuali come “peccatori”. Diventavano più che altro dei disabili, dei minorati da aiutare. Quello che il movimento gay non aveva calcolato, all’inizio, è che se l’omosessualità viene presentata come una patologia, allora deve pur esistere una cura. Quello che il movimento omosessuale non avrebbe potuto immaginare, poi, era il fatto che la medicalizzazione dell’omosessualità si sarebbe protratta fino ai nostri giorni, con conseguenze spesso devastanti.

In base al vostro senso dell’ironia o alla vostra propensione per il dramma, potrei citarvi tre film da vedere per una filmografia esaustiva sul tema.

Il primo, But I am a Cheerleader, è una commedia grottesca in cui la protagonista, giovane e ancora inconsapevole di essere lesbica, viene chiusa in una comunità di riconversione dove finalmente scoprirà il suo vero orientamento sessuale. Completano il quadro colori sgargianti, musica pop e RuPaul out-of-drag che interpreta l’educatore “riconvertito”. Lieto fine.

frame da But I am a Cheerleader

Il secondo è Boy Erased, dramma sul figlio adolescente di un pastore battista che nel 2004 viene sottoposto a una terapia di riconversione dal gruppo religioso Love in Action, durante la quale subisce una serie di violenze psicologiche con il fine di aiutarlo a “guarire” dalla sua omosessualità. Tratto dalla storia vera, straziante, di Garrard Conley, che oggi sta bene, ha un compagno e mantiene un rapporto sereno con la propria famiglia. Anche in questo caso, più o meno, stiamo parlando di un lieto fine.

Terzo e ultimo esempio: Bolesno, documentario sulla storia di Ana Dragicevcic. Nel 2009 Ana ha 16 anni e fa coming out come lesbica. Neanche i suoi genitori la prendono bene e la fanno internare al Lopaca Psychiatric Hospital, anche lei con un pretesto, proprio come si faceva ai tempi di Paolina. Dal manicomio Ana uscirà dopo 5 anni di torture, un processo contro i genitori e un danno emotivo irreparabile. Vorrei che esistessero soltanto film hollywoodiani in cui l’equilibrio delle cose viene ristabilito, drammi familiari in cui alla fine il padre severo capisce di aver sbagliato a vessare suo figlio. Ma nel mondo reale funziona così: a volte tua madre ti rinchiude in manicomio e la tua vita è distrutta. Nessun finale felice, se non dopo molti anni di psicoterapia.

frame dal documentario Bolesno.

Il posto di Ana non era in manicomio, quello di Paolina non era in manicomio, eppure sono entrambe lì per lo stesso motivo, a un secolo di distanza. E non sono le sole.

L’apertura dei manicomi con Legge Basaglia ha permesso di accedere agli archivi delle cartelle cliniche e delle lettere che gli ospiti inviavano dai manicomi (e che di prassi non venivano neanche recapitate all’esterno). Archivi da cui provengono lettere struggenti come quelle di Paolina e che ci restituiscono una fotografia attendibile di quali erano le motivazioni per le quali si veniva internati.

Tra queste, a dirla tutta, l’omosessualità non era tra le più frequenti ed è sempre presentata come una problematica collaterale ad altri disturbi o comportamenti “sconvenienti”: depressione, catatonia, alcolismo, travestitismo o adescamento di minori.

Di gay, di lesbiche o di transessuali non si parla mai in maniera del tutto esplicita, ma il loro isolamento dalla società attraverso il manicomio è una prassi documentata tra la fine dell’800 e gli anni Venti del ‘900.
Una prassi che si inseriva in un contesto di insofferenza, incomprensione e abusi da parte dei familiari e dell’autorità, e che culminava in pratiche sanitarie di varia entità come elettroshock, medicine, psicanalisi.

Terapie riparative che, spesso per stessa ammissione dei medici, non portavano a nessun risultato. Più che come luogo di cura, insomma, i manicomi servivano come luogo di segregazione degli omosessuali, dove tenerli distanti da quella parte di società che li trovava fastidiosi, pericolosi, che non voleva interagire con loro nella vita quotidiana.

dal reportage di Andrew Giambrone sul Washington City Paper

Al giorno d’oggi nessuno psicologo degno di questo titolo (quindi Silvana de Mari non conta), in Europa o negli Stati Uniti, prenderebbe parte a una terapia di conversione. Ma non è stato facile: l’Associazione degli Psichiatri Americani (APA) ha eliminato l’omosessualità dal DSM III solo nell’87 e si è dovuto aspettare il 17 maggio 1990 perché l’OMS dichiarasse ufficialmente che l’omosessualità era una semplice “variante naturale del comportamento umano”.

Ancora più lunga, e giuridicamente complessa, è stata la battaglia del movimento transessuale sul tema: oggi, nel DSM, la definizione “disforia di genere” ha preso il posto del “disturbo di identità di genere”. Mentre sull’ICD, la classificazione internazionale delle malattie, soltanto nell’estate 2018 la transessualità è stata “ricollocata”: eliminata (giustamente) dalla lista delle patologie, le è stato tuttavia riservato un nuovo capitolo, riguardante la salute sessuale. Sempre l’OMS, che si occupa di stilare e aggiornare l’ICD, ha spiegato che la decisione di lasciare la transessualità nell’elenco è motivata dal rischio, in caso di cancellazione, che i governi colgano la palla al balzo per compiere una discriminazione ben più grave: rifiutarsi di contribuire economicamente alle pratiche sanitarie per la transizione.

Un problema concreto, e sicuramente da considerare, ma così facendo lo stigma delle persone trans come “sbagliate” viene reiterato, ancora una volta.

E ancora una volta si rischia di cadere nel tranello logico della malattia curabile, della condizione reversibile, in cui sguazzano gli pseudo-educatori e pseudo-terapeuti che anche in Italia sottopongono i giovani con diverso orientamento sessuale o identità di genere alle terapie riparative. Associazioni religiose come Gruppo Lot, associazione Agapo, alleanza Cattolica Movimento Europeo per la Difesa della Vita e della Dignità Umana, Medici Cattolici di Brescia, associazione Famiglia Domani.

E mentre tutti aspettiamo la prossima stagione di The Handmaid’s Tale per misurare la distanza di “quel mondo” con il nostro, da qualche parte, forse a un’ora e mezzo da Trieste o nella parrocchia sotto casa, qualcuno pensa a rinchiudere le persone trans e omosessuali, a torturare Ana.

A ricondurli, simbolicamente, all’interno del manicomio.

Ma il loro posto non è il manicomio e il posto di Ana non è la terapia riparativa né un episodio fantasma di The Handmaid’s Tale. Il posto di Ana è con Paolina T., sul lungomare Caracciolo, mano nella mano.

Quest’articolo è parte del progetto Un meccanismo da nulla realizzato dall’Associazione ToVR con il sostegno della Fondazione Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando Ora!X — Strade per creativi under 30. Scopri di più su ora.compagniadisanpaolo.it

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