Ragazze interrotte
La recensione di Laura Sciarretta
Confrontarsi con la follia per ritrovare se stessi
Quando vidi Ragazze interrotte avevo dodici anni (uscì nel 1999) ed è curioso pensare oggi a quanto lo sguardo su una pellicola possa cambiare nel tempo. In effetti, avevo un po’ timore a prendere in mano qualcosa che personalmente mi era rimasto nel cuore però ho deciso di provarci, coadiuvata dalle nuove consapevolezze, dallo sguardo “maturato” dopo anni di studi accademici e dal produttivo scambio d’opinioni, che ritengo essere la base per ogni crescita professionale e personale.
La storia
Dopo aver tentato il suicidio, la diciottenne Susanna Kaysen viene ricoverata presso il Claymoore Hospital, una struttura di internamento per giovani donne con disturbi psichiatrici. Inizia il trattamento a base di sedute e medicinali mentre su un diario riversa tutti i suoi pensieri. Quando le viene diagnosticato un possibile disturbo da personalità border-line, il ricovero è prolungato fino a data da destinarsi. Così Susanna inizia a stringere rapporti di amicizia con alcune ragazze del reparto, scoprendo affini stati d’animo ed entrando in particolare confidenza con Lisa, una giovane affetta da sociopatia dotata di un forte ascendente sulle altre pazienti e costantemente in aperta ostilità verso infermieri e medici. Proprio la nuova amica porterà Susanna a interrogarsi su cosa definisca davvero la pazzia: chi è folle e quanto il mondo là fuori con tutte le sue ipocrisie è più sano della realtà all’interno del Claymoore?
Tratto dalle memorie della vera Susanna Kaysen, che proprio nel libro Girl, Interrupted ha ricostruito la sua esperienza in ospedale, il film è diretto da James Mangold. Un regista “classico”, dalla mano invisibile, considerato versatile e sufficientemente affidabile per Hollywood ma che ha già iniziato un ragionamento sui generi (più specificatamente sui modelli di racconto) da un lato rispettoso dei capostipiti ma non per questo anonimo o piatto, come hanno dimostrato le sue incursioni nel poliziesco (Copland), nel western (Quel treno per Yuma) e persino nel cine-fumetto (Logan).
Senza scomodare inutili paragoni, dico subito che Ragazze Interrotte non è un film sulla malattia mentale. Assomiglia più al tipico da “romanzo di formazione” in cui abbiamo una protagonista insicura, disadattata rispetto all’ambiente borghese e perbenista da cui proviene ed è alla ricerca di un’identità in cui riconoscersi pienamente (vuole scrivere ma non ha alcuna prospettiva, né di studio né lavorativa). Lo stato di degenza la obbliga a porsi in continua dialettica con questa assurda realtà e dovrà decidere se continuare a rifugiarsi nelle sue paure (mascherate da pazzia) o prenderne coscienza e andare avanti. Attenzione quindi a giudicare Ragazze Interrotte come “la versione al femminile di Qualcuno volò sul nido del cuculo” (Milos Forman, per inciso, fu professore e relatore universitario dello stesso Mangold) di cui mantiene una certa sensibilità nel trattamento e qualche motivo, ma inavvicinabile sotto molteplici punti di vista.
Se la pellicola datata 1976 porta come principio fondante l’affermazione della libertà individuale dell’essere umano contro l’ordine istituzionale che lo rinchiude e lo avvilisce una volta etichettato come “pazzo”; la questione nel film di Mangold è tutt’altra. Riguarda il viaggio di consapevolezza intrapreso da Susanna dalla confusione iniziale fino al ritorno all’ordine che la restituisce al mondo più cresciuta e matura. Un percorso complicato e doloroso che prevede scelte, realtà ambivalenti (sano/malato) e appunto confronto con sé stessi, con gli altri e con quelle illusioni a cui è facile aggrapparsi (che riguarda tutti, persino il personaggio anticonformista ed estremo di Lisa, mai veramente libera fuori dalle mura ospedaliere).
Partendo dallo spunto biografico, ecco che Ragazze Interrotte prende di petto il disagio giovanile figlio di un’epoca piena di traumi (il Vietnam, l’omicidio Kennedy), disorientamento, morte dei valori e contraddizioni quale è stata l’America degli anni ’60. Un modo di sentire letto come anomalo e insano, dunque rifiutato dalle regole e dall’ottuso conformismo della società di allora (similmente a come veniva considerato il folle nell’opera di Forman). Rivisto alla luce di tutto ciò, dispiace purtroppo constatarne delle piccole ingenuità narrative e un evidente pressappochismo descrittivo nel contesto sociale trattato; difetti che rischiano di inficiare quanto di buono vuole offrire allo spettatore. Eppure, Ragazze Interrotte è un film che merita di essere visto per diverse ragioni.
Quali? Per l’invito a non rifugiarsi nelle proprie insicurezze guardando oltre i banali pregiudizi (La follia non è stare a pezzi o custodire un oscuro segreto. La follia siete voi o io amplificati). Si fa apprezzare la professionalità di Mangold nel gestire i momenti più enfatici, nella scelta di prendersi il tempo necessario per farci entrare nella storia (che oltre a quanto detto rimane un bel racconto sull’amicizia) e nell’approccio “convenzionale” e solido che non gli ha mai impedito di fare propri alcuni temi ricorrenti. Soprattutto resterà l’interpretazione.
Si comprende quanto Winona Ryder si senta coinvolta (anche produttrice) nei panni della fragile e sensibile Susanna. Angelina Jolie, ancora lontana dai fasti dell’era “Brangelina”, interpreta con assoluta convinzione il ruolo di Lisa, per cui ha vinto il Premio Oscar come Miglior attrice non protagonista e funge da perfetto contraltare della Ryder. Ottime risposte arrivano anche dagli (allora) astri nascenti Brittany Murphy, Clea DuVall e una giovanissima Elizabeth Moss; senza dimenticare il contributo di due veterane come Whoopi Goldberg e Vanessa Redgrave.
Emozionante, malinconico e imperfetto, Ragazze interrotte assomiglia ad una vecchia canzone dissonante nell’esecuzione ma capace di toccare le corde giuste, grazie alla storia, ai personaggi e ad un’azzeccata colonna sonora che ci accompagna durante la visione.
Questo articolo è frutto della collaborazione tra Redazione TockTock e Rear Windows. Scopri di più su www.rearwindows.it