Estetica e Paesaggio. Dialogo con Luisa Bonesio
M.M. L’interpretazione del mondo contemporaneo è appiattita su dei modelli che considerano la vista l’unico mezzo per stabilire una relazione con i luoghi. Producendo un’estetica e una fruizione sempre più “da turista”, incardinata al concetto di “foto ricordo”. Si tratta di un impoverimento a tutti i livelli, ma in particolare per il tema del paesaggio, dove la dimensione percettiva e multisensoriale risulta indispensabile. Anche i più recenti riferimenti normativi (penso per esempio alla Convenzione Europea del Paesaggio) vanno in questa direzione.
L.B. Il tema della percezione è il punto basilare dal quale partire per ogni successiva considerazione sul paesaggio. Innanzitutto va rimarcato che si è portati a credere che la percezione sia un fenomeno neutro di registrazione di dati esterni, che avverrebbe in modo identico per qualsiasi essere umano, mentre non è così: ciò che viene visto è filtrato inconsapevolmente da quadri culturali di riconoscimento.
Come è ben noto, ciò vale per la prospettiva, per i colori — ogni cultura ed epoca riconosce e segmenta una certa gamma cromatica, attribuisce nomi ai colori, riconosce in essi una specifica simbolicità: i colori della civiltà antica erano diversi da quelli del mondo cristiano e poi da quello romantico e moderno, così come la competenza cromatica delle popolazioni che vivono nell’estremo nord consente loro di distinguere un numero elevatissimo di gamme del bianco della neve… Ma lo stesso discorso vale per quadri complessi di percezione, come appunto i paesaggi, in cui la riconoscibilità, interpretazione e comprensione dipendeva in passato dalla consuetudinarietà dell’abitare e degli usi tramandati, motivo per cui per un estraneo è sempre inizialmente difficoltoso “vederne” la complessità, riconoscerne tutti gli aspetti e persino apprezzarli esteticamente.
La percezione è un fenomeno spiccatamente culturale (e dunque storico) ed è sostanzialmente un riconoscere: “vediamo” consapevolmente ciò che abbiamo imparato a conoscere (forme, colori, suoni, ecc.). Nel nostro tempo di questa ovvietà si tende a perdere consapevolezza, sia per l’accelerazione parossistica dei flussi informativi, che per la sostituzione della consapevolezza del vedere tramite dispositivi che sembrano assicurarci un’indiscutibile universalità, che per l’uniformazione-banalizzazione del chiacchiericcio globale. Occorre molto più di prima essere consapevoli del fatto che il nostro grado di abilità percettiva dipende dall’informazione-formazione, dalla comparazione, dalla conoscenza, pena il rischio di scambiare l’icona che ci viene proposta per la realtà in tutta la sua complessa contraddittorietà e inesauribilità: per esempio, di limitarsi a vedere, anziché i risultati di un progetto nella sua complessità, la forma comunicativa, l’icona che viene mandata avanti sovrapponendosi e inibendo il lavoro dell’analisi e della comprensione.
Lo stesso avviene nell’industria turistica globale: un consumo di immagini previste e preconfezionate (ma questo comporta purtroppo la tendenziale distruzione materiale e simbolica dei siti visitati, sottoposti a pressioni insopportabili), un aggirarsi tra icone da sempre già viste (ma non per questo comprese o conosciute realmente). In questa dimensione paesaggi e beni culturali non hanno più tempo e luogo per esistere.
Questa fenomenologia distruttiva si vede in modo involontariamente didascalico nelle trasmissioni televisive dedicate ai viaggi: sia quando la rappresentazione dei luoghi proposti si risolve in una serie di cartoline (i luoghi di maggiore appeal fotografico) che non consentono alcuna comprensione del paesaggio nelle sue interconnessioni, sia quando le trasmissioni complementari mostrano a quali livelli di insopportabile degrado, affollamento, distruzione possono arrivare i luoghi più ambiti del pianeta (da Venezia all’Himalaya). D’altra parte, e in modo assolutamente complementare, tutto ciò che non entra in questo palcoscenico di ipervisibilità rischia di non esistere nella misura in cui non viene immediatamente riconosciuto, che si tratti di eccellenze ignorate o della banalità degli scempi quotidiani.
Se si vuole evitare di cadere nel cortocircuito appena descritto, occorre battere percorsi diversi di consapevolezza e riconoscimento. Basti pensare al patrimonio culturale e paesaggistico diffuso, destinato al degrado naturale in ampie zone di abbandono, oppure stravolto e distrutto per pura incapacità di riconoscerlo o per la smania di “modernizzarlo” o renderlo più appetibile secondo i cliché di un turismo omologato e banalizzante. È proprio contro questo generalizzato involgarimento (che è a sua volta una forma di paesaggio) che richiama con forza la Convenzione europea del Paesaggio, ricordando al contempo che senza formazione e sensibilizzazione delle popolazioni nessun duraturo livello di qualità paesaggistica può essere assicurato.
Quanto alla percezione, non c’è dubbio che per la cultura occidentale moderna e odierna tecnica il riferimento quasi esclusivo sia alla vista — ed è piuttosto paradossale, pensando ai livelli di rumore e di suoni cui siamo esposti, o alla quantità di effluvi odorosi di vario tipo, nella stragrande maggioranza non naturali.
Ma come la filosofia ben sa, la concezione occidentale del conoscere è un “vedere” (idea) che ha trovato una sua epocale codificazione (quella “forma simbolica” magistralmente analizzata da Panofsky a Franco Farinelli) nella prospettiva artificiale fiorentina. Il predominio della vista, coerente con una postura culturale che si è espressa nel progetto di dominio e calcolo del reale, tende inevitabilmente a sottomettere o a relegare nell’inessenziale tutti gli altri sensi e significati che nel paesaggio sono presenti, e quindi a semplificarlo e a smaterializzarlo, ma anche ad appiattirlo in un presente istantaneo.
Da qui anche discende la caratterizzazione estetica dello sguardo paesaggistico occidentale (“la bella veduta”), molto diversa dall’attitudine cinese, analizzata magistralmente da François Jullien, orientata piuttosto a cogliere in ogni paesaggio la manifestazione del tutto cosmico: l’espressione “montagne-acque” (shan shui), che in cinese designa ciò che noi diremmo un paesaggio, pone l’osservatore all’interno di un inesauribile campo di tensioni e correlazioni che mostra il farsi ogni volta singolare dell’universo. Non una concezione visuale-aspettuale ma cosmica, nella quale un senso non predomina sugli altri; non un luogo nella sua parzialità, bensì il tutto che vi si rivela. Il paesaggio cinese è un milieu, ossia un luogo di dimora, che si disvela nel suo avvicinamento o allontanamento: il “paese” nella sua banalità diviene un paesaggio grazie alle multiple tensioni che lo fanno apparire nella sua profondità: una dimensione che nutre se stessa di vita, in cui circola l’energia (il qi) e con cui si instaura una consonanza vitale e affettiva — giustamente Jullien sottolinea, per contro, come sia stato difficoltoso per il pensiero europeo mettere d’accordo percettivo e affettivo.
Mentre l’attitudine occidentale, separando soggetto e oggetto, ha messo a distanza di fronte a sé il paesaggio, ne ha regolato e codificato le posture di osservazione, le regole di riproduzione estetica, l’attitudine cinese è piuttosto quella di una “aderenza” al paesaggio e del riconoscimento di un’essenziale coappartenenza: legandomi al paesaggio — sostiene Jullien — mi lego al mondo e alla sua totalità, mi connetto “a ciò che fa sì che ci sia mondo”. Si tratta di un capovolgimento essenziale dell’attitudine occidentale: anziché un soggetto che proietta le proprie emozioni e valutazioni sul paesaggio, c’è un paesaggio che, nel suo darsi singolare, lascia entrare in consonanza con il suo variabile campo di tensioni.
Non un confronto e un faccia a faccia, ma una connivenza che fa render conto della propria costitutiva e originaria implicazione nel mondo. Ma qui sta anche il fondamentale rovesciamento dell’ottica occidentale in cui siamo tutti implicati: se il paesaggio presuppone la disponibilità del soggetto a incontrarlo, allora occorre instaurare un’etica della disponibilità, che riarticoli in profondità le contraddizioni in cui siamo impigliati.
M.M. L’elemento naturale rappresenta un tratto fondamentale per la dimensione del paesaggio. Al punto che non credo andremmo lontano dal vero affermando che nell’immaginario collettivo il concetto di “paesaggio” si identifica con l’idea di un ambiente poco antropizzato. La realtà è molto diversa: anche le immagini apparentemente più genuine e incontaminate manifestano la presenza di un atto umano che rende effettivamente tale un paesaggio. Anzi, è proprio questo gesto umano a costituire e a rendere riconoscibile il paesaggio…
L.B. Come per la percezione, analogamente il concetto di natura è storicamente e culturalmente variabile: physis, natura, ambiente — anche solo per rimanere in Occidente — esprimono visioni, concezioni e simbolizzazioni molto diverse attraverso le quali la “natura” è stata percepita e compresa. È molto significativo che all’idea antica di una forza divina e generatrice si sia sostituito nella modernità recente, sotto il predominio della tecnoscienza, l’antropocentrico e inespressivo concetto di “ambiente”… salvo poi rimitizzare in vari modi il rapporto perduto con la natura. Basti pensare alla concezione di origine romantica della wilderness, della natura selvaggia, grandiosa e incontaminata, che derivò dalla scoperta dei paesaggi naturali del Nuovo Mondo, una rappresentazione spesso ideologicamente compensativa delle effettive distruzioni che non sono mai state interrotte.
A me pare molto significativa la ricerca, ormai diventata di massa, di spazi “selvaggi” con il corredo delle relative pratiche “estreme” (per la quale valgono le considerazioni precedenti sul turismo), perché, da un punto di vista paesaggistico, essa è particolarmente rivelatrice: nostalgia di una “naturalità” che abbiamo cancellato a forza in nome del progresso e dell’economia, idealizzazione (spesso) di condizioni di vita che quasi nessuno — salvo la domenica — si augurerebbe; compensazione dell’ormai insostenibile disagio della civiltà… La natura nei suoi insopprimibili aspetti primordiali, vista come sempre più residuale e sempre più difficile da raggiungere, è apparsa fino a qualche tempo fa come la “vera” natura.
Altro è il discorso sulla presenza della natura nei contesti urbanizzati, dove essa non solo è residuale (qualche lacerto sopravvissuto all’urbanizzazione), ma spesso pretestuosa, risarcitoria. Non penso a insediamenti che abbiano conservato la loro buona forma antica o che mantengano un’articolazione sensibile con la campagna; penso alle aree “verdi”, ai loro deprimenti “arredi urbani”, alla condizione di derelizione in cui spesso si trovano anche per responsabilità dei fruitori: quasi impossibile pensare alla natura! Poiché il bisogno di natura è insopprimibile, l’industria e la tecnica hanno trovato varie modalità di recapitarcela a domicilio (come diceva Günther Anders): dagli innumerevoli e voyeuristici documentari naturalistici che rendono superfluo qualsiasi contatto più diretto (e molto spesso non c’è che da rallegrarsene), alla sostituzione virtuale dei paesaggi sul display delle cyclette, con i quali provare l’emozione di percorrere e vedere strade e luoghi realmente esistenti.
Tuttavia va affermandosi la consapevolezza del fatto che non ci sono solo i paesaggi esotici, “domenicali”, selvaggi, ma che la nostra vita dipende anche da una prossimità trascurata (in passato per un pesante pregiudizio anticontadino) ma basilarmente costitutiva della nostra storia e del nostro essere antropologico e culturale. I paesaggi delle campagne, e dunque della produttività (non solo la Toscana estetizzata del cinema inglese!), vengono riscoperti sotto vari aspetti, soprattutto connessi al cibo, e questo aiuta a riscoprire una complessità sensoriale le cui radici sono storiche, frutto di tradizione, saperi contestuali, lavoro. In questi casi il gusto (del cibo) diventa una chiave di accesso e di scoperta del paesaggio.
A livello di rivalutazione della sensorialità, questa è una potenzialità molto interessante, in quanto mostra come il farsi e il trasformarsi del paesaggio sia in relazione con gli stili di vita e le scelte di consumo di ciascuno: non solo la responsabilità “ecologica” o astrattamente “ambientale”, ma un’etica circostanziata e situata che si fa indirettamente carico dei paesaggi, della loro varietà, diversità, bellezza, sostenibilità e duratività nelle scelte alimentari (km 0, biologico, colture antiche ecc.). Anche in questi casi, il pericolo è che comportamenti eticamente orientati e virtuosi siano degradati a fenomeni di moda, iconizzati e fagocitati a loro volta da logiche di marketing che tendono a impadronirsene secondo modalità commerciali e comunicative che ne stravolgono il senso (p.es. Eataly) o che li rappresentano in una sorta di ossessiva, compensativa e voyeuristica iperrealtà (le trasmissioni televisive dedicate alla cucina, che si riducono a “paesaggi” visivi — non possiamo percepire gli aromi, i profumi, le temperature: ancora una volta la riduzione al solo registro visivo).
In conclusione: più che da una “natura da salotto” (parchi), mi pare che il pericolo di ulteriori desensorializzazioni provengano dalle neutralizzazioni e protesizzazioni tecnologiche.
M.M. I concetti di “temporalità” e di “passaggio”, come chiavi interpretative del carattere della vita moderna, sono al centro della riflessione sul paesaggio, che si relaziona con un tempo lungo, fatto di segni che rimangono, di tracce indelebili. Ci troviamo oggi di fronte alla possibilità di alterare in modo irreversibile questa situazione, introducendo in tempi brevissimi dei segni che modificano tradizioni secolari. Anche in questo caso, il riferimento esclusivo all’immagine visiva come metro della “sostenibilità” estetica dell’intervento rappresenta un termine di giudizio limitato, che porta alla continua distruzione di porzioni sempre più consistenti di paesaggio, attraverso azioni di “mitigazione esteriore” che, semplicemente, impediscono all’occhio di vedere (il caso della Valtellina, che tu conosci bene, è emblematico in questo senso…).
L.B. La velocità delle trasformazioni, dell’innovazione tecnica, degli spostamenti, dei flussi informativi certamente non è stato finora un elemento a favore del buon paesaggio. Se ogni epoca e località ha il paesaggio che si merita, noi abbiamo una molteplicità residuale e irrelata di sopravvivenze paesaggistiche storiche che stanno annegando nell’omologazione e banalizzazione globale. Di là da potenti ragioni tecnoeconomiche che governano il pianeta, ancora una volta l’esplosione della percezione e la sua surroga e moltiplicazione indefinita e ripetitiva mediante dispositivi apparentemente innocui (telefonini, tablet, apparecchi fotografici, riproduttori acustici ecc.) appare come una modalità prevalentemente dissolutiva e sostitutiva dell’esperienza reale e della fatica del riconoscere dimensioni complesse come quelle paesaggistiche, nonostante che questi mezzi e le relative tecnologie (realtà virtuale, simulazione in 3D ecc.) siano utilissimi proprio nello studio, comprensione e conservazione dei paesaggi (soprattutto di quelli più antichi).
La questione è che nella banalizzazione globale queste tecniche a livello di massa per ora non fanno che ritrasmettere a dismisura cliché e banalità che, anziché incrementare la conoscenza di realtà sempre diverse e lontane, non fanno altro che esibire la ripetitiva vuotezza del medium. Così il livello delle abilità percettive anziché implementarsi diminuisce, fino a una sorta di analfabetismo delle immagini e delle forme, analogamente a quanto accade nel turismo di massa.
A ciò non contrasta abbastanza un’educazione scolastica a ogni livello; la mia impressione è che si vada sempre di più verso una polarizzazione tra un semianalfabetismo percettivo di massa e un incremento di competenze sempre più sofisticate (anche a livello della percezione del paesaggio, dei luoghi e dei beni culturali). In mezzo, forse, sta l’onnipresente spettacolarizzazione di creazioni architettoniche, frammenti di paesaggio, monumenti, eventi, cibo ecc. Il che spiega l’eterogeneità poc’anzi citata che prolifera nei paesaggi, dove tutto convive con tutto, dall’immondo al sublime, dalla dura fisicità della geologia all’immateriale delle operazioni comunicative, dalla pietas per qualche antica pieve alle discariche e agli inceneritori, dalle “grandi opere” ai presidi di slow food… e tutto ciò non è solo “postmoderno”, ma il ritratto fedele dello smarrimento del nostro tempo, dove ogni attore recita il proprio ruolo spesso senza tener conto del comune palcoscenico.
Per quanto riguarda il mantenimento di certe caratteristiche paesaggistiche individuate come landmarks o profili identificanti di un certo territorio, senza però governare adeguatamente le trasformazioni territoriali ma limitandosi a “mitigare” gli scempi più visibili, occorre ribadire che soltanto una consapevolezza territoriale adeguata (degli abitanti innanzitutto, degli amministratori, degli esperti interni ed esterni) può mantenere profili paesaggistici coerenti e unici senza degradarli a frammenti estetizzati e decontestualizzati. In questo campo le esperienze teoriche e progettuali della Scuola Territorialista sono un riferimento imprescindibile, e ad esse rimando anche per la complessità dei saperi messi in campo e per le azioni di attivazione della popolazione (innanzitutto per rendersi consapevole del patrimonio territoriale, delle sue criticità e potenzialità), che è il soggetto che in prima istanza dovrebbe poter prendere decisioni sulla governance dei propri luoghi — ma questo lo può fare solo se è adeguatamente formata, informata e sensibilizzata (cosa che non è così scontata in Italia).
Dovrebbe essere superfluo ribadire che la consistente presenza di quello che è stato chiamato il “localismo vandalico” — ossia presumere una padronanza che deriverebbe solo dall’esser-lì anziché dalla competenza, responsabilità e maestria acquisite e mantenute in costante esercizio di buone scelte nel tempo — ci mette di fronte a una condizione paesaggistica generalmente abbastanza desolante. Così spesso ci dobbiamo accontentare di operazioni parziali e di facciata, che sebbene emendino guasti particolarmente vistosi, non bastano a mascherare la palese incongruenza che regna pressoché ovunque dal punto di vista paesaggistico: penso alle cave, ai centri commerciali, alle Disneyland alpine scambiate per espressione di tradizionalità costruttiva, allo sconsiderato consumo di suolo e a tutti gli infiniti non-luoghi in mezzo a cui siamo costretti a vivere. A questo risultato concorrono vari tipi di trasformazioni del paesaggio: massive (impianti come termovalorizzatori, trivelle, raffinerie, tav, autostrade ecc.); diffuse, a bassa intensità ma destrutturanti il tessuto fine del territorio (strade, villettopoli, perdita delle funzioni agricole, cave); “incolpevoli” (la soggettività incolta espressa nelle preferenze di gusto — colori, forme delle abitazioni — e nell’ignoranza/impreparazione delle amministrazioni locali); le trasformazioni miopi e devastanti in nome di ragioni economiche e di “sviluppo” turistico (impianti di risalita in zone protette per motivi ambientali o per unicità paesaggistica); trasformazioni incongrue di edifici storici a fini turistici o commerciali; stili costruttivi pseudourbani come riscatto sociale delle zone periferiche ecc.
È quanto succede dalle Alpi alla Sicilia, e da questo punto di vista la Valtellina non fa eccezione, riassumendo in sé tutte le caratteristiche dell’eterogeneità paesaggistica, dalle buone intenzioni e ottime realizzazioni (p. es. il Distretto culturale della Valtellina), alla miopia che fa perseguire un’espansione degli impianti di risalita anche in zone ad alta protezione o guarda con favore a nuovi (ma inutili, se non dannosi) trafori, dallo smembramento del Parco Nazionale dello Stelvio all’insieme di sciatteria edilizia e cattiva mimesi di modelli urbani. Il lavoro scientifico e di valorizzazione dei terrazzamenti vitati retici — per i quali era stata anche avanzata una candidatura all’UNESCO — uno dei nuclei fondanti del Distretto culturale, ha rappresentato un’esperienza molto importante, ma occorre che ne derivi una coscienza di luogo diffusa ed efficace.
Le zone a maggiore attrattiva turistica (quelle cioè che dovrebbero essere le più attente a salvaguardare il patrimonio naturalistico, paesaggistico e culturale) sono quelle più esposte alle derive di una obsoleta e autolesionista concezione dello “sviluppo”, identificato nell’aumento quantitativo (e non qualitativo) dei pernottamenti e nella capacità attrattiva dei grandi eventi sportivi, senza calcolare quell’effetto di attivo degrado del territorio che questi fenomeni comportano. Anziché incrementare di generazione in generazione il patrimonio territoriale, lo si svende e degrada. È una considerazione generale che riguarda le molte criticità di cui però è difficile discutere pubblicamente, nonostante un’indubbia crescita di sensibilità per queste tematiche. E si torna alle immense responsabilità della politica e delle amministrazioni…
Nel caso delle attività di conoscenza e valorizzazione dell’ex Villaggio Sanatoriale di Sondalo, di cui sono stata molte volte promotrice, si è cercato di lavorare sugli scotomi consolidati di un’intera comunità valliva (e non solo) riguardo a una “grande opera” (anche in senso positivo) dell’architettura razionalista, nata dalle esigenze di curare a livello di massa la tubercolosi negli anni Trenta, e poi svuotata progressivamente delle sue originarie funzioni rischiando un pericoloso degrado. Per cercare di riportare alla “visibilità” un complesso così enorme (l’ossimoro stesso, nel suo paradosso, esemplifica il paradosso della percezione di cui si è detto all’inizio), ponendo poi il tema del suo destino, abbiamo lavorato inizialmente proprio sulla percezione, cercando di favorire una diversa visione (ossia a comprendere il visibile) descrivendo e comparando, tramite visite guidate, conferenze, convegni, pubblicazioni.
Si tratta di una conferma lampante di come “vedere” sia un “saper riconoscere”. Solo a partire da questo lavoro preliminare si è ridestata una coscienza della comunità, un orgoglio di appartenenza e di protagonismo (nel passato, quando il complesso era il più grande e importante sanatorio europeo, ma soprattutto ora, con il fiorire di un volontariato volto al funzionamento del nuovo Museo dei Sanatori). Rispetto alle considerazioni che stiamo svolgendo, il caso è interessante proprio da un punto di vista teorico: solo una percezione consapevole può eventualmente condurre a comprendere diversamente un paesaggio quotidianamente sotto gli occhi di migliaia di persone, inducendole a riconsiderare la forma di luoghi prima trascurati perché incompresi, scoprendo la possibilità di una valorizzazione patrimoniale che va al di là delle funzioni originarie. E questo pone necessariamente su basi di diversa consapevolezza anche il dibattito sul “futuro” problematico di questa (e di altre) eredità novecentesca, in quanto per “comprendere” quello straniante paesaggio che il Villaggio Morelli è, occorre contestualizzarlo nel paesaggio più ampio della Valtellina: una comprensione e un confronto da cui trarre molti insegnamenti, primo fra tutti la pochezza dei paesaggi realizzati successivamente a confronto con la straordinaria capacità di visione progettuale (proprio nel confronto con il paesaggio montano preesistente) e di probità realizzativa in questa cittadella di fondazione alpina.
© La presente intervista è stata realizzata nel 2015 e pubblicata nella tesi di dottorato: M. Mocchi, “Il suono dell’architettura. Paesaggio sonoro e multisensorialità strumenti del progetto contemporaneo”, relatore F. Schiaffonati, Politecnico di Milano. Dottorato in “Progetto e Tecnologia per la Valorizzazione dei Beni Culturali”, XVIII ciclo.