“Messa in scena” e temporalità
Il presente articolo rappresenta uno stralcio rivisitato del contributo: “Il progetto multisensoriale”, pubblicato in D. Fanzini (a cura di), Tecnologie e processi per il progetto del paesaggio, Maggioli, 2017.
Se è vero, come afferma Gernot Böhme, che «l’architettura è opera estetica nella misura in cui vengono realizzati ambienti con una determinata qualità climatica, umorale, cioè delle atmosfere» [1], la domanda che occorre porsi è: come è possibile progettare delle atmosfere? Come è possibile tenere conto, in sede di progetto, di un insieme di elementi molto variegati tra loro, come quelli implicati nel processo di generazione dell’atmosfera? La risposta tentata da Böhme parte dall’introduzione dei concetti di “scena” e di “messa in scena”. Fin dal suo significato etimologico (dal termine greco skene: palco coperto, palcoscenico) la “scena” implica la necessità di tradurre la portata emotiva e simbolica del testo attraverso qualcosa di concreto e reale. L’esperienza teatrale, avvenendo necessariamente “in atto”, nel tempo di una co-presenza tra attore e pubblico, si basa su una comunicazione atmosferica. Dall’impostazione vocale degli attori alla mimica, dai costumi agli elementi scenografici, tutto concorre alla definizione di una particolare tonalità emotiva che viene trasmessa allo spettatore, determinando le sfumature, le interpretazioni e la forza comunicativa dello spettacolo.
L’orizzonte performativo-artistico della “messa in scena” rappresenta una chiave di lettura attuale rispetto ad alcuni fenomeni contemporanei. Ci troviamo ogni giorno a vivere situazioni in cui la nostra “messa in scena” tende a sopraffare il contenuto stesso per cui è creata. Ognuno di noi cerca di farsi “artigiano” della propria immagine [2], costruendo l’evento che permette la sua apparizione. Un procedimento noto da diversi secoli [3], che oggi arriva a coinvolgere ambiti sempre più intimi e personali dell’individuo. Siamo tutti assorbiti dalla costruzione del nostro “personaggio”. In termini strettamente teatrali: scegliendo una moda, un taglio di capelli, un trucco, i tatuaggi sul corpo, degli atteggiamenti culturali, un genere musicale, un’appartenenza a gruppi sociali, religiosi ecc.
Lo stesso procedimento interessa i modelli estetici di consumo, che richiedono all’architettura una “messa in scena” sempre più immediatamente comunicativa, basata su immagini di facile interpretazione e immediato riscontro. Se ciò diventa il termine di giudizio per valutare la riuscita del progetto, è evidente che l’architettura tenda a perdere il proprio riferimento teorico, la propria capacità di dare risposte funzionali, il proprio ruolo di guida rispetto all’evoluzione dei modelli spaziali. Il tutto a esclusivo vantaggio di un atteggiamento “creativo” che sappia generare “belle immagini”. Per abbellire di cristalli i “deserti dell’anima” delle attuali metropoli — per riprendere un termine di Sequeri — che si concretizzano troppo spesso in luoghi privi di valore sociale, senza capacità di interloquire con la comunità e con lo spazio nel quale si trovano.
A fronte di questo orizzonte critico, nel termine “messa in scena” si nasconde un altro nucleo di significato, che rimanda a una parte della sperimentazione artistica del secolo scorso e che sembra aprire qualche “ponte” tra differenti campi disciplinari. Come aveva compreso benissimo John Cage, non è mai possibile pensare a una “messa in scena” che si configuri in una realtà priva di fattori indipendenti, neanche nella situazione più apparentemente controllata come quella del teatro o della sala da concerto. Esiste sempre un numero di variabili che sfugge alla possibilità di controllo dell’esecutore e — a maggior ragione — a quella di previsione del compositore. Il riferimento alla performance come espressione artistica privilegiata va proprio in questa direzione, tentando di colmare la distanza tra il ruolo attivo dell’attore e quello passivo dello spettatore. Tra il suono voluto e quello casuale, tra l’elemento di disturbo e quello di piacere, favorendo così un rapporto di continuità tra soggetto e oggetto della rappresentazione, sulla base di un’esperienza emozionale in atto, il cui valore non può essere compreso al di fuori dell’accadimento stesso.
Tale relazione prende forma non solo all’interno di una dinamica spaziale, determinata dal carattere morfologico-dimensionale del contesto, ma anche temporale, nel duplice senso di “sequenzialità” e di “storia”.
La “sequenzialità” pone attenzione sulla modalità di fruizione che deriva dalla presenza simultanea del soggetto e dell’oggetto della rappresentazione, e sull’idea imprescindibile della conoscenza come risultato di un passaggio, di un attraversamento, di un movimento o di un’azione. Da qui è possibile comprendere il carattere peculiare della percezione come strumento di conoscenza dello spazio in cui viviamo: un carattere che deriva da esperienze che non si legano a unità di senso individuabili in assoluto, sulla base dell’intenzionalità del progettista (gli edifici, per intenderci), ma si articolano in riferimento a porzioni di territorio solo momentaneamente riconoscibili e immediatamente riconfigurabili. Tale riconoscimento porta a conferire un senso unitario solo all’atto stesso della percezione, con le proprie sequenze di immagini, spazi, suoni, colori, odori non sempre collocabili, ponendo una prima e importante riflessione al tema del progetto.
Si tratta di un approccio sequenziale-temporale molto simile a quello che sta alla base del rapporto tra i suoni. Così come un suono non può essere pensato al di fuori di uno sviluppo temporale, allo stesso modo dovrebbe essere per gli elementi nello spazio. La pretesa di poter “tirare fuori” un oggetto dal flusso emotivo in cui lo percepiamo significa assolutizzarlo, ponendo fine alla dinamica che lo rende oggetto reale. È in questo senso che la rappresentazione dello spazio attraverso “immagini”, pur essendo queste sempre più sofisticate, non può condensare lo “scarto vitale” — per dirla con Francois Jullien — che rappresenta il tratto più profondo della nostra esperienza vissuta [4].
È lo stesso rapporto che si instaura tra la partitura e la musica: senza l’esecuzione, la partitura rappresenta un sistema di rapporti solo formali, numerici, in grado di trasmettere emozione solo a colui che li sappia “leggere”. Ossia, appunto, collocare in una sequenza temporale. La riflessione attorno a questo rapporto — tra partitura e musica — ha conosciuto una grande fortuna nel secolo scorso, portando alla definizione di opere che tentano di dare una forma precisa dell’indeterminato, mettendo in relazione lo sviluppo musicale (o per meglio dire sonoro) con una serie di azioni anziché una serie di suoni. In questo percorso, è andata indebolendosi notevolmente l’interpretazione della composizione come atto di una creazione individuale, a favore di un’esperienza puramente emozionale, in cui l’attore e lo spettatore sono immersi e il cui valore nasce proprio dalla compresenza. Tale riferimento potrebbe dare alcune indicazioni anche al percorso compositivo dell’architettura.
La seconda scena temporale che orienta il nostro rapporto con lo spazio è quello della “storia”. Un riferimento ampio, nel quale la nostra sensibilità individuale deve confrontarsi con un orizzonte morfologico, tecnologico e tipologico che deriva dai caratteri del tessuto esistente, dai modelli locali di abitare, condizionati dalla natura del luogo, dagli elementi climatici, ambientali, dalla disponibilità di materiali ecc. Considerato su questo sfondo, il progetto dello spazio diventa il risultato di un processo interpretativo, di “traduzione” di significato — come direbbe Rosario Giuffrè riprendendo un termine ricoeuriano — che pone a contatto le possibilità interpretative del singolo con quelle, sedimentate nella storia, della comunità.
Questa imprescindibile dialettica spazio-temporale, che deve includere un riferimento multisensoriale sia in termini soggettivi che collettivi, rappresenta un momento imprescindibile per la riflessione architettonica, il punto di contatto tra l’intenzione del progettista e le possibilità di ricezione del pubblico. Il progetto si ridefinisce come “atto di messa in scena” che, proprio come la costruzione della scena teatrale, deve generare un’atmosfera, attingendo a molteplici livelli di comunicazione, temporanei e permanenti, per fare emergere il suo carattere. Slegandosi, quindi, dall’immagine di un manufatto statico, per avvicinarsi all’idea di una sequenza di episodi in relazione tra loro.
Questa riflessione avvalora l’idea dell’azione progettuale come percorso indefinito di approssimazione a una realtà in continuo divenire, che considera come proprio oggetto non solo il manufatto, ma soprattutto le intersezioni, le soglie, i luoghi di confine tra gli elementi, da mettere in relazione alle componenti ambientali, sensoriali, percettive. Le stesse nozioni di “contesto” e di “funzione” dovrebbero trovare un arricchimento, per rappresentare dei punti di accesso a una realtà sempre più frammentata e sempre più fluida, sia in relazione ai modelli morfologici sia a quelli sociali e culturali.
NOTE:
[1] Böhme G. (2010), Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale della percezione, Marinotti, Milano, p. 51.
[2] Sennett R. (2008), L’uomo artigiano, Feltrinelli, Torino.
[3] Già in epoca barocca, per esempio, la “messa in scena” assumeva un’importanza tale da influenzare la stessa forma urbana. Di questa idea per esempio Mumford, che pone in continuità la “messa in scena” del potere con la messa a punto di stratagemmi, costumi, spazi segreti e molte altre sottigliezze che caratterizzavano la vita di corte. Secondo questa interpretazione, sul finire del Seicento la costruzione scenografica aveva assunto tale importanza da influenzare l’idea stessa della città come espressione delle esigenze del potere (vd. Mumford, La città nella storia). La tendenza si è poi consolidata e perfezionata nel corso dei secoli, fino alle grandi espressioni sceniche dei totalitarismi novecenteschi.
[4] Rientra in questo dibattito il tema sempre più discusso della renderizzazione del progetto attraverso software informatici. Uno strumento che, per quanto efficace e a volte imprescindibile, tende ad assolutizzare la rappresentazione facendosi esso stesso espressione del progetto.