Teatro di suoni. Diario di un’esperienza scientifico-performativa
Il punto non sta nell’enfatizzare la contingenza, ma nell’identificarla come tema fondamentale per una scienza autentica, basata sulla natura irriducibile dell’individualità; non contrapposta alla scienza, ma come un’aspettativa di quella che chiamiamo legge naturale, e pertanto come un dato di primaria importanza della scienza stessa.
Oliver Sacks, In movimento
Ovvero: perché il resoconto di un’attività accademico-scientifica deve necessariamente essere impersonale? Non potrebbe essere, il percorso di ricerca, foriero di incontri, scambi, emozioni e relazioni umane? E non dovrebbero essere considerati, questi, elementi salienti per comprendere la natura dei processi euristici, la qualità dei risultati raggiunti, la loro replicabilità? Quale tipo di linguaggio sarebbe in grado di tenere conto di questi molteplici livelli? [ESPERIMENTO…]
“Teatro di suoni. Spazi acustici teatrali e territoriali” è un workshop proposto dalla Società Svizzera di Studi Teatrali, in collaborazione con il Dipartimento Formazione e Apprendimento della SUPSI e l’Accademia Teatro Dimitri. Si è tenuto il 13 e 14 giugno 2019 a Verscio e Locarno, con il coordinamento scientifico di Lorena Rocca e Demis Quadri. Da questa esperienza deriva la pubblicazione — curata tra gli altri da me — di un numero monografico della rivista “Geography Notebook”, prevista in uscita per giugno 2021.
L’anno accademico 2018/19 è stato un anno incerto per il mio percorso professionale. Uno dei tanti, tanto per cambiare… Arrivati alla fine del secondo semestre le prospettive legate al rinnovo del contratto di docenza erano limitate, così come quelle per i finanziamenti alla ricerca.
A maggio 2019 ho deciso di prendere il destino tra le mani, provando a rinnovare qualche rapporto, alla ricerca di collaborazioni che potessero arricchire la mia esperienza, il mio bagaglio culturale e di conseguenza — sarebbe ipocrita negarlo — il mio portafoglio.
…le tante belle persone che si incontrano in giro per il mondo tra conferenze, convegni, seminari. Le tante belle prospettive che sembrano dover cambiare da un giorno all’altro le nostre esistenze, e che invece finiscono pian piano coperte dai faldoni dei nuovi progetti, dalle bozze delle pubblicazioni in cantiere, dalle proposte delle ultime tesi… Allontanate dal tavolo di lavoro, poi cancellate dal desktop. Ma preservate in un fondo di memoria dove si conservano le emozioni e le speranze. Sarà per una sorta di encomiastica selezione dell’esperienza personale. O forse per un più prudente atteggiamento del cervello a costruire “piani B”, vie di fuga in vista di tempi bui…
Dunque: Lorena Rocca. Incontrata qualche anno prima a Beseno. Ritrovarla a Locarno è stato facile, forse troppo. Alcune persone hanno la capacità di attrarre, di coinvolgere, di leggere il meglio che puoi dare e di capire dove posizionarlo. Sono tanti gli insegnamenti che ricordo di avere ricevuto nella mia vita professionale, molti meno quelli che riuscirei a sintetizzare in una frase: “lasciamoci sorprendere!”. Ecco: da lì può nascere la magia… (o altre volte, si intende, il fallimento…).
Il convegno in questione, presentato attraverso la formula dell’Open Space Technology, non è stato di immediata comprensione. Sarà che per essere alle 8 del mattino a Locarno — e lì, si sa, l’orario non è proprio un’opinione — la sveglia a Pavia era suonata piuttosto presto.
Tanto entusiasmo, tanti volti sorridenti, ma anche tanta confusione. Gli argomenti si sovrapponevano tra loro. Così come le lingue…
Ho cominciato a trovarlo “normale” solo diverso tempo più tardi, dopo aver familiarizzato — almeno in minima parte — con l’ambiente svizzero. Il fatto, cioè, che le barriere linguistiche siano molto alleggerite. Tu parli una determinata lingua e ti aspetteresti di fare riferimento alle convenzioni di quel sistema. Invece il tuo interlocutore ti risponde secondo delle logiche diverse. A una frase in italiano ti senti rispondere in francese, o in tedesco, o in altro strano idioma… Non è solo il fatto in sé a essere strano, ma soprattutto l’espressione sorpresa di chi hai di fronte, qualora dovessi dare segno di non capire. Si dà per scontato che questo possa avvenire. In una, devo dire, divertente ibridazione della purezza, a vantaggio di una gioia di comunicare.
…che poi, la fama degli svizzeri non è certo quella di grandi comunicatori. Evidentemente sono stato fortunato io.
Con il passare dei minuti, il motivo della proposta diventa più chiaro. Gruppi di lavoro ristretti e flessibili, tavoli di discussione, partecipazione, libertà di espressione. La diffidenza iniziale si scioglie nelle appassionate conversazioni attorno a argomenti “improvvisati”, e proprio per questo capaci di generare interazioni impreviste. Con risultati che, ben lungi dal favorire banalizzazioni, generano intrecci tra visioni, contributi e prospettive disciplinari.
“Lasciamoci sorprendere!” — appunto…
Ne ricordo una, di queste discussioni, proposta da Michael Groenberg — filosofo e docente all’Università di Losanna. Tutto parte da un celeberrimo racconto, apparentemente innocuo. “…egli era bellissimo e si aggirava leggero e vacuo nei boschi della Licia…” . Il mito di Ermafrodito, descritto da Ovidio nelle Metamorfosi, che culmina con l’unione mostruosa dei due corpi della ninfa Salmace e del giovane figlio di Ermes e Afrodite.
Partendo dal testo (o poema) Michael ci porta a riflettere sulla natura del “con-testo”, come “pre-testo” per lo svolgimento della vicenda: sua stessa possibilità. Il lago di Salmace rappresenta la condizione dell’incontro del giovane e della ninfa, al di fuori del quale la vicenda non potrebbe prendere forma.
Nello sviluppo narrativo, lo specchio d’acqua appare dapprima come un ambiente disteso e sereno: per questo scelto dal giovane per il proprio ristoro e presidiato dalla ninfa per realizzare la propria pace. Lei, non essendo dedita alle più abituali attività cui erano solite dedicarsi le sue sorelle.
Gusta con gran piacer quel chiuso fonte
Preso il garzon dal caldo, e da la sete,
Le man si lava, e la sudata fronte,
E poi và sotto l’ombra d’un abete,
Che fin, che ‘l Sol non cala alquanto il monte,
Vuol dar le lasse membra à la quiete:
Ma siede à pena in su l’herbosa sponda,
Ch’una Ninfa lo scorge di quell’onda.(Ovidio, Metamorfosi, Libro IV, la traduzione in versi è opera di Giovanni Andrea dell’ Anguillara, 1560 ca.)
All’interno di questo scenario bucolico avviene il primo contatto, la “scorsa” con cui la ninfa “coglie” il giovane: un atto visivo che dalla bellezza del contorno trae ispirazione e risulta dominato. L’armonia del luogo si fonde con lo splendore dei suoi protagonisti, in una ambientazione che sembra non poter portare che a un lieto fine.
È il resto del “senso” a irrompere sulla scena e rompere l’incanto. L’attrazione e il desiderio della ninfa richiedono una compensazione più profonda, che abbisogna di eccedere il distaccato contatto visivo e completarsi con un atto carnale, diretto. Lo stesso lago si trasforma quindi in una trappola, letale per il giovane, portando lo sviluppo narrativo verso un vero e proprio stupro. Di nuovo il “con-testo” si fa condizione di possibilità per lo svolgimento del testo. Il passaggio è descritto in modo molto netto: la ninfa attende, si apposta consapevolmente, aspettando che il giovane entri nel “luogo proibito”, o per meglio dire nel luogo del suo dominio:
Entra ei ne l’acque cristalline, e chiare,
Dove à la Ninfa il fonte non contende,
Che possa à quel bel corpo penetrare
Con l’occhio, che sì cupido v’intende.
Michael ci porta quindi verso la domanda centrale: se la possibilità della narrazione — del testo — si fonda sulla sua relazione con il contesto, in che modo la rappresentazione teatrale, che implica una inevitabile ri-spazializzazione della scena, necessita anche una riscrittura della vicenda narrata? In quale misura, invece, questi due elementi possono essere considerati autonomi?
Questo mi porta alla mente delle assonanze, in primis all’idea di “messa in scena” teorizzata da Gernot Böhme, e quindi al concetto di “atmosfera” come principio ordinatore dell’esperienza percettiva. Con la conseguente estensione del luogo “contestuale” a tutto ciò che si svolge dentro e fuori lo stretto confine della rappresentazione. Non è solo il cambio della scenografia a determinare la nuova spazializzazione, ma la forma del palco, la sua posizione, la disposizione degli attori, della platea, del pubblico, di ciò che lo circonda. In un allargamento, quindi, del concetto di teatro a quello di un “luogo-territorio” inclusivo rispetto all’intorno spaziale e sociale.
E con questi pensieri arriviamo al più radicale e violento atto del racconto: quello della metamorfosi, della compenetrazione dei due corpi in uno solo. Il risultato di uno scontro: “La serpe il lega tutto con la coda, / E l’ali spatiose in modo afferra, / Che cadon spesso ambi in gruppo in terra”. La lotta, che si svolge su un piano fisico e morale, si riflette sulla natura dell’intorno, producendo una ibridazione tra le figure che la semplice unione sessuale non avrebbe potuto determinare in modo altrettanto radicale: “e fassi un huom d’effigie effeminata”.
Così la donna, e l’huom fanno una testa,
Ma non è alcun di lor, quel, ch’è già stato.
Non è donna, ne d’huom, ma resta tale,
Ch’è donna, et huom, ne l’un ne l’altro vale.
Come si vede, la scena non porta a un compimento definitivo. La descrizione si arresta davanti all’immagine del mostro: un essere che non riesce a liberarsi dalla sua ambivalenza, potendosi risolvere in una o l’altra delle sue nature. È un altro atto sensoriale, piuttosto, che necessita di compiersi: espressione di una volontà altrimenti incapace di manifestarsi.
Con voce dubbia al ciel le luci fisse,
E questi prieghi Hermafrodito disse.
La voce, un gesto sonoro, conclude il racconto. È la natura pervasiva del suono a inscenare l’ultimo atto dell’uomo — la sua stessa morte nel mostro — e al contempo a farsi primo segno del mostro come essere realizzato. Il riferimento al sonoro porta a compimento la metamorfosi, quella “fusione” che l’orizzonte visivo non rende altrimenti immaginabile. Laddove un corpo non può coesistere nello spazio di un altro, a livello sonoro tale compenetrazione è possibile. I due suoni diventano uno, perfetto e inseparabile. Una forma nuova, diversa ma conclusa e armonizzata.
… ma leggerete tutto, e molto altro e molto meglio, nel bel contributo di Michael all’interno della pubblicazione.
Dopo questo, una ricca discussione ha coinvolto i partecipanti sul processo di maturazione della voce, sulle contaminazioni che caratterizzano l’utilizzo della voce tra musica e teatro, sulla possibilità di esprimere suoni con altre parti del corpo…
…e così tanti altri tavoli di discussione, tanti altri argomenti che hanno portato a sommarsi le prospettive, generando “con-fusioni” (appunto!) e poi risolvendole in nuove commistioni e interazioni.
Il significato più profondo di questa esperienza l’ho probabilmente capito una volta tornato a casa: quando al posto dei tradizionali biglietti da visita, generalmente “strappati” durante qualche coffee break — più per necessità di rappresentanza che non per reale interesse — ritrovavo volti e nomi ben riconoscibili, associati a competenze e percorsi di ricerca chiari. Lorenzo, Sebastiano, Mathias, Elisabetta, Franca, tra gli altri. E poi, naturalmente, Carlotta, Demis e Lorena.
Da qui, l’idea di costruire una pubblicazione è stata semplice. Il percorso per realizzarla un po’ più complesso…
Durante un viaggio in treno, qualche tempo più tardi, Lorena mi dice: «Allora conosci Giacomo!»
«Giacomo?!»
«Nella mail che ti ho inoltrato, il tuo compagno del liceo».
Che mi sia perso una mail non è poi così strano, il marasma della comunicazione quotidiana giustifica la distrazione… il compagno del liceo, però, è un po’ più complicato. In classe eravamo 5 maschi: non così tanti da potermi confondere. Martino, Davide, Matteo, Luca, Tommaso. Giacomo non c’era. Penso a quegli altri 2 o 3 nomi passati per tempo più breve, provo a estendere il ricordo ai compagni delle medie. Qui troppa gente, però Giacomo proprio non mi viene in mente.
«Sai che non credo di aver avuto un compagno al liceo che si chiamava Giacomo?!»
«Giacomo Z.»
«?!»
Google. Jack.
Jack editor della rivista “Geography Notebooks”, su cui saranno pubblicati gli atti del nostro convegno… Corsi e ricorsi storici! In una di quelle coincidenze che anche da inventare sulla carta sarebbero difficili. Ripensare all’epoca e alle situazioni che abbiamo vissuto insieme. Piuttosto lontanamente accademiche…
La cosa che avrebbe permesso di risolvere il misunderstanding sarebbe stata una lettura più filologica della mail, dove “il compagno del liceo” si è rivelato “un vecchio amico dei tempi del liceo”… eh Lorena, c’è una bella differenza! In ogni caso, devo ammetterlo, semplicemente con “Giacomo” non ci sarei mai arrivato.
Jack, spiegami soltanto perché una piattaforma per gestire operazioni accademiche, all’alba del 2021, deve per forza ricordare quelle pagine web dei primi anni 2000, in cui la dimensione del font oscilla tra gli 8 e i 9 pt. Le icone compaiono in linea con i caratteri. I testi linkati hanno lo stesso colore di quelli normali. La paletta cromatica passa dal bianco-verde al grigio-azzurro al grigio-verde. Le pagine sono disseminate di sigle tipo “SEC”, “EDU”, “APP”, “PER”. Le stringhe automatiche dei nomi dei file propongono “2215–8478–2-SM”. E lascio intendere il versionamento… Poi va a finire che si fa confusione, e si sbagliano gli invii :(
Ma non è colpa tua, lo so bene. Anzi, cara grazia che ci sei stato tu, a indicarmi la via…!
E dunque, il resto dovrebbe descrivere il processo di costruzione di un indice condiviso, la presa di contatto con gli autori, l’invito di esperti, l’avvio delle peer review, la revisione di bozze, l’impaginazione.
“Teatro di Suoni. Spazi acustici teatrali e territoriali”. La pubblicazione, come numero speciale della rivista “Quaderni di Geografia” (riconosciuta come Rivista Scientifica per l’Area disciplinare della Geografia), raccoglie i contributi presentati nel convegno omonimo, tenutosi il 13 e 14 giugno 2019 a Verscio e Locarno, con il coordinamento scientifico di Lorena Rocca e Demis Quadri. In un percorso che include 15 contributi originali, 3 interviste e apparati dedicati, la riflessione si concentra sulla natura della relazione tra suono e luogo, con l’ambizione di produrre un’estensione del concetto di spazio performativo come progetto culturale all’interno di un “luogo-territorio” abitato.
Arrivederci a metà Giugno!