Cinque strade per la virtualità (per una teoria dell’immaterialità)

Quale rapporto intercorre tra alcune visioni cinematografiche e la tensione umana alla dimensione dell’immateriale? Fabio M. Franceschelli, incrociando fantascienza e filosofia, ci porta alla scoperta di cinque diverse concezioni della ‘virtualità’.

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TECNOETICA
12 min readNov 25, 2016

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Autore: Fabio Massimo Franceschelli

Le cinque strade che qui propongo non sono state ancora costruite. Né progettate.

Direi — continuando la metafora — che la realizzazione di queste vie procede “a braccio”, seguendo istinto ed intuito; un po’ come accade ad un ricercatore sperduto nella foresta che si fa avanti col solo ausilio di un machete.

Le cinque strade hanno rapporti tra loro ma ancora non so bene quali siano. Si completano a vicenda? Si escludono? Si confondono? E soprattutto: porteranno a qualcosa? Saranno i prodromi di una futura rete urbanistica o termineranno cieche?

Iniziamo a disboscare l’area. Cinque strade perché cinque sono le luci che all’orizzonte mi indicano il cammino. Quattro sono “luci di ribalta”, relative ad altrettante produzioni cinematografiche; la quinta è luce di ragione, la ferrea ragione che ingabbiò il Santo Anselmo.

Andiamo con ordine. Era il 1992 (o giù di lì) quando in Italia usciva il film di B. Leonard “il Tagliaerbe”. Che io sappia è uno dei primi film che affronta in qualche modo le tematiche della realtà virtuale scandagliandone alcune implicazioni. In breve, la storia narra dell’evoluzione intellettuale di un giovane ritardato sottoposto da uno scienziato poco ortodosso ad una sperimentazione a base di droghe chimiche, avanzati software didattici e immersioni quotidiane in realtà virtuali, questi ultimi veri paesaggi cyber dotati delle quattro dimensioni ordinarie ove Jobe (il tagliaerbe ritardato) vive se stesso in corpo sì virtuale, ma in intelligenza, memoria, libero arbitrio, invariati. L’evoluzione del film vede il tagliaerbe espandere progressivamente tutte le sue facoltà fisiche e mentali sino ad acquisire conoscenza di tutto lo scibile umano giungendo ad esperire una sorta di gnosi (“ho visto Dio”). A parte gli addentellati morali richiamati dalla visione di un ritardato “buono” allo stato puro che diviene un genio assolutamente “cattivo”, il film sembra dire il suo meglio nell’ontologia sottesa all’idea che Jobe, raggiunto il livello massimo di sapienza, riesca ad abbandonare per sempre la realtà ordinaria per vivere (rifugiarsi) esclusivamente nel virtuale. L’identità di Jobe, quindi, sopravvive al distacco dal proprio corpo/materia e trova una nuova vita trasferendosi in una dimensione fatta di pura informazione digitale. Jobe stesso diviene un insieme di bit, ed in tal guisa viaggia nelle immense reti informatiche di tutto il mondo.

Scena da Il Tagliaerbe (1992) diretto da Brett Leonard

Debitore di un dualismo tra corpo e spirito di platonica e cartesiana memoria, il film ci dice che l’uomo dotato di conoscenza assoluta giunge all’esperienza diretta di Dio e vive facendo a meno della materia. Resta la questione irrisolta del film, ossia che tipo di identità possa essere quella che esperisce la realtà senza la mediazione — irrinunciabile per un mortale — del corpo e dei sensi. Una realtà inalterabile, quale è quella del bit, difetta di quell’esperienza motrice essenziale all’umanità che è l’evoluzione, ossia il sentire sulla propria pelle che invecchia lo scorrere inesorabile del tempo teso verso un termine ignoto. Non è per nulla chiaro come una intelligenza plasmata dal corpo possa trasformarsi in una intelligenza che si abbevera di nulla oltre che di se stessa. Per il resto, la riproposizione in chiave cyber dell’antico mito gnostico mi sembra ben riuscita e degna di ulteriori approfondimenti.

Qualche analogia con il Tagliaerbe presenta un episodio della fiction televisiva “Nikita” (trasmesso da RAI 2 il 30 Maggio 2002). Qui, il protagonista è un giovane programmatore responsabile dei complessi software senza i quali le missioni spionistiche di Nikita e dei suoi colleghi sarebbero inattuabili. Deciso a prendersi finalmente una vacanza, dopo anni di esclusiva dedizione al lavoro, il giovane informatico mette a punto un proprio alter ego virtuale a cui trasferisce sia ogni know how necessario alla gestione dei suddetti software, sia — e soprattutto — la propria capacità decisionale (l’episodio non precisa la natura di tale trasferimento, limitandosi a tratteggiare l’esistenza di un imprecisato rapporto continuo a livello di neuroni tra i due soggetti).

Secondo i piani del programmatore, in definitiva, l’alter ego virtuale dovrà dimostrarsi in grado di rimpiazzarlo completamente nell’espletamento di ogni aspetto lavorativo garantendo le stesse sue (giuste) scelte di fronte ad ogni situazione, prevedibile o meno. A questo punto il racconto vira sulla vecchia, ma sempre attuale, tematica della rivolta della creatura contro il proprio creatore: riecheggiando tanto la leggenda del Golem, quanto l’inquietante trasgressione di Hall in 2001 Odissea nello Spazio, l’alter ego svela (con tragiche conseguenze) la propria inaffidabilità, denunciando di avere sì tutta la conoscenza del suo artefice, ma, rispetto a quest’ultimo, di essere in completo difetto di una dimensione, per così dire, sentimentale (parlo di sentimenti “positivi”), senza la quale la sola sterile razionalità si rivela inadeguata nelle scelte concernenti i rapporti interpersonali.

Rispetto a il Tagliaerbe è evidente la diversità nel modo in cui viene posto il rapporto “ontologico” tra il soggetto umano e l’ipostasi virtuale. Laddove lì la seconda sopravviveva alla morte del primo — e, anzi, da questo evento acquisiva maggiore esistenza — qui il legame tra i due poli risulta indissolubile, tanto che al giovane programmatore non resta altra strada che il suicidio per mettere fine al mostro che ha creato.

Indiscutibili, invece, le analogie in termini di morale: come nel film di Leonard, anche qui le parti oscure ed inconsce del creatore emergono, catastroficamente e fuori controllo, nella creatura. Anche in Nikita, quindi, si evidenzia l’intrinseca natura malvagia della creatura virtuale e l’implicito fallimento del progetto di una umanità che, attraverso l’atto creativo spinto alle estreme possibilità, vuole farsi Dio. Dalla ricerca dell’uomo-Dio si approda al risultato dell’uomo-trickster, demiurgo pasticcione, apprendista stregone.

Se con il Tagliaerbe e Nikita, sono l’etica e l’ontologia ad essere chiamate in causa, “Matrix” (1999, regia dei fratelli Wachowski) stimola una riflessione “metafisica” più ampia che riguarda la sostanza e l’oggettività dell’esistenza, il rapporto tra realtà collettiva e percezione individuale, i limiti della conoscenza umana. Indubbiamente coinvolgente per la qualità degli effetti speciali con i quali viene resa la storia, il film delude proprio nel dare soluzione all’inquietante ipotesi adombrata: l’idea che la vita sia un sogno. Ora, la possibilità che la vita sia sogno e che i sogni siano la vera nostra “sostanza”, già aveva acceso, con ben altri risultati artistici, l’immaginazione di Calderón e di Shakespeare; dal canto loro i fratelli Wachowski evitano elegantemente di addentrarsi tra le infinite implicazioni della questione, limitandosi ad ipotizzare la dimensione virtuale non dell’esistenza tout court ma della “sola” nostra quotidiana realtà: la vita che esperiamo ogni giorno è un sogno che stiamo sognando dall’ “altra parte”, là dove vi è (invece) la “vera” oggettiva vita. In quest’ultima, gli esseri umani sono prigionieri inconsapevoli di mostruosi macchinari, e da questi vengono tenuti addormentati e collegati con un incredibile softwarethe Matrix, appunto — che induce loro la sensazione (intesa come piena partecipazione di tutti i sensi) di vivere una vita “normale”.

Scena da Matrix (1999) diretto da Larry e Andy Wachowski

Nessuna apertura, quindi, all’idealismo di Berkeley o di Hume, né alle moderne teorie della conoscenza, né ai dualismi neoplatonici tra materia e spirito, né, infine, alle tragiche implicazioni del soslipsismo; solo e semplicemente una opposizione tra una vita falsa e una vera. Non è difficile scorgere la radice cristiana di questa visione, radice che rimanda ad un’escatologia prossima a quella gnostico-manichea dei tanti messianismi e millenarismi del passato. E come non vedere, tra l’altro, l’ispirazione neotestamentaria nelle figure dei due protagonisti, il Giovanni Battista Morpheus e il Cristo Neo (definito l’Eletto)?

Ma se si parla — giustamente — di visione millenarista, occorre aggiungere che si tratta di un millenarismo ribaltato: la vita “falsa” da cui occorre svegliarsi è di gran lunga più bella e felice della vita “vera”, dove l’umanità è sottomessa ed è attesa da una inevitabile apocalittica battaglia contro le macchine per la (ri)conquista della propria libertà. Anche in Matrix, come già nell’episodio di Nikita, emerge quindi il noto incubo che vede l’uomo soccombere alle proprie creazioni tecnologiche.

Infine, suggerita dalle eccezionali performance fisiche di Neo (ma non ulteriormente sviluppata), resta sullo sfondo l’idea che la realtà materiale, presupposto che questa sia il frutto di un meccanismo onirico (indotto dall’informatica), possa essere modificata e “violentata” nelle sue leggi fisiche attraverso il potere immateriale dell’immaginazione.

Chiudo le “luci della ribalta” affrontando un film uscito nelle sale nel 1995, verso il quale non nego una particolare fascinazione: “Strange days” di K. Bigelow. L’argomento virtuale espresso in Strange days ha alcune affinità con quello sviluppato in Matrix, anzi, ne sembrerebbe quasi il prodromo: non una vita interamente ed incoscientemente virtuale ma scampoli di esistenza individuale riprodotti virtualmente attraverso l’ausilio dell’informatica. Una possibilità, questa, certo meno totalizzante e sconvolgente di quella disegnata dai Wachowski, ma forse proprio per questo motivo più immaginabile, ipotizzabile, in qualche modo vera e dunque seducente. Nell’era della riproducibilità tecnica, il codice binario doma e sottomette le stesse nostre esperienze, o meglio, le sensazioni attraverso cui facciamo irrepetibilmente nostre queste esperienze, e le trasferisce integre in un normale supporto magnetico od ottico. Il film non chiarisce se il fruitore del prodotto si limiti a registrare passivamente l’esperienza — bella o brutta che sia — riprodotta alla fonte, ovvero se la reinterpreti secondo il proprio background; personalmente mi seduce più la prima ipotesi, che metterebbe in atto la possibilità di essere, seppur momentaneamente, altro da se stesso. Senza gettare in prima linea ardite ipotesi fantascientifiche o sconvolgenti weltanschauung, Strange days trova la sua carta vincente costruendo una “piccola” storia fatta di criminalità, spaccio, politica sporca e rivolte sociali nella Los Angeles dei nostri giorni ove, sullo sfondo di tanta quotidiana “normalità”, si aggira il prodotto di una operazione tecnologica questa sì veramente sconvolgente: fissare e riprodurre fedelmente la propria mente — pensieri, sensazioni, emozioni -, e poi diffonderla; gettare un solido ponte tra la propria sinora insuperabile individualità, le individualità altrui e le stesse macchine, in base al comune codice del bit. Espandersi, in altre parole, nello spazio e nel tempo; creare una rete collettiva di informazioni, intelligenze, volontà. È una prospettiva opposta a quella del Tagliaerbe: laddove Jobe annichilisce la propria materialità che è ormai un inutile residuo di un’era “umana” che lui, super-uomo, ha superato (nell’apoteosi dell’informazione), in Strange days la materia — viva o inerte che sia — resta l’irrinunciabile supporto per una nuova era dove la vecchia individualità autoreferenziata ed onanista sembra sparire per lasciare spazio ad una rete comunitaria basata sulla partecipazione/comunicazione immediata e totalizzante. Ed è dunque a partire da quei piccoli floppy — che nel film sembrano trovare un mercato nella semplice e ben riconoscibile volontà ludica di evasione dal quotidiano — che si apre una prospettiva grandiosa che è meglio chiudere subito per evitare di perdercisi dentro.

È possibile estrarre una sintesi “produttiva” da quanto affrontato sinora? Direi che la dimensione virtuale trattata in queste quattro produzioni cinematografiche si aggira in vari modi intorno al dualismo tra corpo/materia/realtà da un lato e mente/immaterialità/immaginazione dall’altro. La virtualità tende a sottomettere il primo dei due poli in favore del secondo: Jobe si annulla nella sua dimensione materiale per esistere come puro dato; il programmatore di Nikita vuole ricreare se stesso rinunciando alla carne e affidando alla materia bruta (l’hardware) il mero ruolo di supporto ad un essere che sembra risolversi nella sola immateriale “materia pensante”; altrettanto accade in Strange days, ove brandelli di individualità vivono facendo a meno del corpo che li ha concepiti; in Matrix, infine, tutto nasce e si risolve nella mente. Liberarsi della materia, quindi, è il fattore comune che guida la ricerca del virtuale, ma in particolare parlerei di un liberarsi della materia deperibile, ossia della carne, a favore di una esistenza che sia nella migliore delle ipotesi indipendente dalla materia tout court, o, almeno, dipendente da una materia “morta”, inalterabile e comunque perfettamente riproducibile e intercambiabile. Il nemico è il corpo vivo, la materia deperibile; il pensiero, invece, è immortale, riproducibile, espandibile. La virtualità è il trionfo del pensiero immortale e, aggiungerei, di un pensiero autocosciente, di un pensiero che si pensa e si autoproduce.

Mi sembra di cogliere, in tutto ciò, una sorta di nostalgia o di rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e che non è stato: dove sarebbe giunto oggi l’uomo, se invece di utilizzare la mente per studiare, comprendere e gestire la materia, l’avesse utilizzata per liberarsene totalmente? La mente che pensa se stessa; un pensiero pensante il pensiero; la realtà che si scopre pensata; idee che producono esistenza.

Ma il pensiero può produrre esistenza (= materia)? E il reale (= materia) può esistere a prescindere dal modo di essere pensato?

E qui io, misero essere materiale, mi sento tanto limitato, incapace di pensare un pensiero che pensi me stesso (compreso il mio corpo) e mi crei e mi trasformi. E so di non essere solo in questa misera solitudine; ma so anche che l’intuito di ognuno di noi, esseri pensanti, ci suggerisce che è in questo paradosso che può nascondersi l’accesso ad un qualcosa di ancora inesplorato e che, quindi, è qui che occorre scavare. E mi torna in mente Anselmo d’Aosta (1033–1109), con quella sua prova sull’esistenza di Dio che più tardi Kant avrebbe chiamato “ontologica”: Dio è la perfezione assoluta, totale, e nella Sua perfezione non può essere assente l’esistenza; la perfezione non può disgiungersi dall’esistenza e un dio inesistente non è Dio ma è un semplice ipotetico dio. Quindi: come può non esistere qualcosa che può essere pensato solo come esistente? Se Dio potesse non esistere non potrebbe essere pensato come Dio (perfetto dunque esistente). Più di 500 anni dopo, Cartesio avrebbe nuovamente dato vigore all’argomento nelle sue Meditationes de prima philosophia (V^ meditazione): “…pensare un Dio, cioè un ente estremamente perfetto, cui manchi l’esistenza […], ripugna non meno che pensare un monte cui manchi la valle”; e poi: “dal fatto che non posso pensare Dio se non esistente, segue che l’esistenza è inseparabile da Dio, e che pertanto egli realmente esiste; […] non sono infatti libero di pensare Dio senza esistenza”.

È solo un paradosso? Una trappola logica? Forse, ma vale la pena chiedersi: quale è il legame che intercorre tra l’impossibilità logica di pensare all’inesistenza di Dio e lo svilupparsi (storico) di una umanità protesa alla rincorsa di Dio? Quale legame tra l’esistenza di Dio desunta dal Suo essere pensato e l’esistenza dell’uomo (e del proprio mondo terreno) che in Dio trova la giustificazione ultima di tutto? È ancora Cartesio (V^ meditazione) a spingermi in questa direzione: “vedo chiaramente che la certezza e la verità di ogni scienza dipende unicamente dalla conoscenza del vero Dio, di modo che prima di conoscere Dio, non avrei potuto sapere nulla perfettamente di alcuna cosa. Ora invece [che lo conosco], mi possono essere del tutto note e certe innumerevoli cose sia riguardo a Dio stesso […] sia riguardo ad ogni natura corporea che è oggetto della matematica pura”. Solo dalla conoscenza di Dio, creatura “virtuale”, discende la conoscenza della materia.

In questo cortocircuito ci si può perdere, svanire, smaterializzare; oppure, dalla coscienza di un nulla assoluto, ci si può scoprire improvvisamente materializzati.

Fabio Massimo Franceschelli (Roma, 1963) è autore che ama svariare tra diversi ambiti letterari: dalla saggistica alla drammaturgia, dalla critica al romanzo.

Laureato in Storia delle Religioni, ha pubblicato saggi e articoli sui moderni sincretismi religiosi (2000, Euroma La Goliardica; 2004, Bulzoni), con particolare attenzione alle religioni afrobrasiliane.

Con il romanzo “Italia”, recentemente pubblicato da Del Vecchio Editore, è stato finalista dell’edizione XVIII del Premio Italo Calvino e della prima edizione del Premio Opera Prima (POP 2016).

Si occupa di teatro in qualità di drammaturgo, regista, critico. È autore di svariati drammi, monologhi e commedie rappresentate in Italia e all’estero, ha firmato numerose regie e diretto festival teatrali. Attualmente è redattore della rivista di drammaturgia contemporanea “Perlascena”. Come critico teatrale è stato redattore della fanzine di critica teatrale “Ubusettete” e ha collaborato saltuariamente col trimestrale di teatro e spettacolo “Hystrio”.

Per anni è stato redattore della webmagazine di critica dell’arte e della società “Amnesia Vivace”, su cui ha pubblicato articoli di analisi delle forme di rappresentazione del contemporaneo, con particolare attenzione all’interazione tra arti sceniche e nuove tecnologie. Cura il blog ereticobencotto.com

Articolo originariamente pubblicato nella webzine di critica dell’arte e della società “Amnesia Vivace” n.10 — aprile 2004

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