Transumanesimo. Un’introduzione all’idea di Evoluzione Autodiretta

Quali sono le premesse antropologiche e i principi fondanti del Transumanesimo? Giancarlo Stile, Co-fondatore del Network Transumanisti Italiani, ci introduce all’idea di evoluzione auto-diretta alla base del movimento culturale più discusso e controverso dei nostri tempi.

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TECNOETICA
18 min readOct 22, 2016

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Scena dal film 2001 Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick

Autore: Giancarlo Stile

SOMMARIO:

L’articolo delinea le premesse antropologiche e i principi fondanti del Transumanesimo, inteso quale evoluzione autodiretta. Attualmente stiamo assistendo a un inaspettato, tanto evidente quanto spesso misconosciuto, recupero della centralità dell’Uomo, il quale, grazie all’accelerazione del progresso scientifico e tecnologico, sembra sul punto di superare l’evoluzione per selezione naturale e di approdare a un nuovo tipo di evoluzione, questa volta guidata dall’intelligenza umana. L’incremento progressivo delle capacità trasformative sul mondo e sui noi stessi rappresenta un processo e una tendenza tipici della nostra specie; tuttavia, ciò che sta cambiando oggi è il fatto che cominciamo a renderci conto di essere in grado di ridefinire la nostra condizione biologica, orientando così la nostra stessa evoluzione. Questa presa di coscienza si pone al centro della riflessione transumanista.

Quando si parla di Transumanesimo — cosa che negli ultimi anni avviene sempre più di frequente — capita spesso che lo si faccia come di un movimento basato su speculazioni per lo più fantascientifiche e ingenuamente tecnofile, inconsapevole delle premesse antropologiche rilevanti e inoltre caratterizzato dall’assenza di una riflessione teorica adeguata, che definisca in modo chiaro quali siano i principi che ne stanno alla base, quali siano i fini e quale sia l’etica che i suoi sostenitori dovrebbero rispettare.

In realtà, le cose non stanno propriamente in questo modo.

Il mio contributo punteggierà brevemente le premesse antropologiche e i principi base del Transumanesimo, senza invece entrare nel dettaglio riguardo alle prospettive più entusiasmanti che si stanno aprendo davanti a noi. Quel che, a tal ultimo riguardo, mi preme fin d’ora sottolineare, tuttavia, è che già oggi ci sono tutte le premesse affinché le idee transumaniste possano trovare realizzazione in un futuro non lontano. Ci troviamo indubbiamente all’alba di una nuova era. Le conquiste di biotecnologie, ingegneria genetica, medicina rigenerativa, nanotecnologie, robotica e intelligenza artificiale renderanno verosimilmente possibile un mutamento epocale, che ci permetterà di ridurre — e in prospettiva forse di sconfiggere — malattia, sofferenza, scarsità, povertà, ignoranza, di vincere la vecchiaia e conquistare così una longevità estrema. In breve, ciò che viene indicato, sinteticamente, con la triade superintelligenza, superabbondanza e superlongevità.

Naturalmente, verranno affrontati anche i possibili rischi connessi alla prospettiva transumanista (essenzialmente dal punto di vista sociale, economico e politico), come del resto una seria discussione sul futuro impone, anche perché la riflessione transumanista certamente è, anche e soprattutto, una riflessione di tipo futurologico.

Vorrei incominciare, ora, raccontando un piccolo aneddoto personale.

Una ventina di anni fa mi capitò di vedere in televisione un documentario sulle tartarughe marine. Le tartarughe marine si riproducono deponendo le uova sulla spiaggia. Una volta che le uova si schiudono le piccole tartarughe si dirigono rapidamente verso il mare. La cosa che più mi colpì fu apprendere che solo una piccolissima parte delle neonate tartarughe riesce nell’impresa, dato che su 100 ben 99 cadono vittima dei predatori, in particolare uccelli, prima di raggiungere l’acqua, in quei pochi (ma evidentemente per loro lunghissimi) metri di spiaggia; di quelli poi che raggiungono il mare, solo una minima parte riesce a sopravvivere fino all’età adulta. Alcuni studi dicono 1 su 1000, altri 1 su 10.000. Insomma un tasso di “mortalità infantile” altissimo. Eppure le tartarughe marine, considerate come specie, prosperano — per ora, e da circa 200 milioni di anni — in perfetto equilibrio naturale.

Allo stesso tempo, mi rendevo conto che, in fondo, la condizione umana — cioè la condizione del singolo uomo, del singolo individuo — non era poi molto diversa da quella delle tartarughe marine.

Certamente, è vero: la mortalità infantile è crollata e la vita media è aumentata in modo spettacolare nell’ultimo secolo. In un passato non lontano, i genitori dovevano ragionevolmente aspettarsi, quale dato “naturale”, che almeno un figlio su due morisse prima di raggiungere quella che è attualmente l’età scolare, mentre oggi questa eventualità è considerata del tutto eccezionale, e assolutamente “innaturale”.

Ma — dicevo — in fondo, nonostante questi indubbi progressi — tutto considerato — la condizione dell’Uomo, del singolo uomo, continua a non essere nella sostanza diversa da quella di ogni altro essere vivente: un semplice anello, privo di intrinseco valore, nella lunga catena delle nascite e delle morti.

La scienza, in effetti, ha sembrato volerci privare di quel posto privilegiato nell’universo che ritenevamo di avere (da tradizione religiosa: si pensi alla Genesi; o filosofica: si pensi al Timeo di Platone [1]). Prima la rivoluzione copernicana ci ha messo — potremmo dire — all’angolo, collocandoci su di un piccolo pianeta di un sistema solare periferico di una tra le innumerevoli galassie. Poi la rivoluzione darwiniana ci ha dato il colpo di grazia, considerato che il processo evolutivo per selezione naturale postula la totale irrilevanza degli individui delle singole specie; individui che sono strutturalmente da sacrificare — devono necessariamente nascere, riprodursi e morire — affinché la specie nel suo complesso evolva.

In effetti, possiamo ben dire che il binomio “autocoscienza più mortalità” determina la tragicità della condizione umana.

Come dice Richard Dawkins nella prefazione del suo celebre libro, Il Gene Egoista: «Noi siamo macchine per la sopravvivenza, veicoli automatici cieca- mente programmati per preservare quelle molecole egoiste conosciute come geni» [2].

A questo punto, sorge spontaneo porsi una domanda: ciò che è naturale, è anche giusto? E soprattutto — dato che questa domanda se la può porre solo un essere consapevole e autocosciente — ciò che è naturale è necessariamente anche giusto dal punto di vista di un soggetto consapevole e autocosciente?

In effetti, l’evoluzione per selezione naturale, pur essendo formidabilmente efficace sul lungo termine e dal punto di vista del gene, è assolutamente inefficiente dal punto di vista dell’individuo, a causa della sua estrema lentezza, della casualità delle mutazioni — molto spesso negative, e che vanno a danno degli individui –, e infine dell’estinzione quale destino ultimo, ineluttabile, “naturale”, di ogni specie. Potremmo dire che la Natura, in un certo senso, si diverte a “sperimentare” nuove soluzioni sulla pelle degli individui delle varie specie, procedendo a caso, e senza troppe preoccupazioni di tipo etico. Un tipo di sperimentazione che noi, evidentemente, mai accetteremmo che fosse condotta oggi, ad esempio in campo medico o farmacologico. In definitiva possiamo dire che l’evoluzione per selezione naturale spesso porta a soluzioni subottimali.

La cosa però interessante — e qui arriviamo al cuore della riflessione transumanista — è che proprio nell’epoca che viviamo stiamo assistendo, in buona sostanza, a un inaspettato recupero della centralità dell’Uomo, e questo proprio grazie alla Scienza, quella stessa scienza che per qualche secolo era sembrato averci declassificato a ruolo di accidente insignificante.

È necessario fare ora un passo indietro. Nella storia dell’Umanità c’è stata una serie di fondamentali “rivoluzioni”:

  • La rivoluzione del Paleolitico Superiore, circa 50.000 anni fa — conosciuta nel gergo antropologico come “Grande balzo avanti” ( Great Leap Forward) o “Modernità comportamentale” ( Behavioral modernity), in cui — grazie alla nascita del linguaggio — homo sapiens comincia a mostrare la presenza di un pensiero simbolico, manifestare spiccate capacità relazionali ed esprimere una creatività culturale. In sostanza, una grandissima discontinuità rispetto ai suoi precedenti 150 mila anni di esistenza.
  • La rivoluzione Neolitica, circa 10.000 anni fa, che ha portato alla transizione da una economia di sussistenza, basata su caccia e raccolta, a una basata su agricoltura e allevamento, il che ha poi dato il via alla complessificazione crescente delle società umane.
  • La rivoluzione Industriale, poco più di 200 anni fa, che ha portato alla transizione da un sistema agricolo-artigianale-commerciale a un sistema industriale moderno, caratterizzato dall’uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dall’utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate (come ad esempio i combustibili fossili), il tutto favorito da una forte componente di innovazione tecnologica e accompagnato, ancora una volta, da profonde modificazioni socio-culturali e anche politiche.
  • Infine, la rivoluzione di cui oggi siamo spettatori, di cui stiamo intravedendo gli inizi, e che non ha ancora un nome (chissà, magari qualcuno in futuro la chiamerà “rivoluzione Transumanista”). Mentre la rivoluzione industriale ci ha immesso nel mondo della meccanica, della chimica, dell’elettricità, quella in cui stiamo entrando ora sembra avere i suoi poli aggregatori nella biologia e nell’informatica. Per ora, questi due percorsi procedono ancora relativamente separati: la biologia verso il controllo e la replica in laboratorio dei meccanismi evolutivi del vivente; l’informatica verso l’intelligenza artificiale e, in prospettiva, verso i computer quantistici. Da un certo momento in poi le due strade si unificheranno — come si suol dire convergeranno, in realtà stanno già convergendo portando alla nuova alleanza tra intelligenza umana e intelligenza artificiale: allora si raggiungerà quel “punto critico”, quella soglia, che alcuni chiamano “singolarità tecnologica”, e i cui esiti ci proietteranno verosimilmente oltre i confini che la nostra storia evolutiva ci ha consentito finora di raggiungere. In altre parole, a quel punto non saremo più definiti dai nostri limiti naturali, ma proprio dal fatto di averli aboliti.

Emerge dunque la possibilità, e — sostengono i transumanisti — la desiderabilità, di superare l’evoluzione per selezione naturale, e di approdare a un nuovo tipo di evoluzione, che potremmo definire post-darwiniana, guidata dall’intelligenza umana: in altre parole, un’ evoluzione autodiretta.

La tendenza generale è ben riassunta da Edward Osborne Wilson, il padre della sociobiologia, con queste parole: «Homo Sapiens, la prima specie veramente libera, si sta per congedare dalla selezione naturale, la forza che ci ha creato. […] Presto dovremo guardare nel profondo di noi stessi e decidere cosa vogliamo diventare» [3].

E lo stesso Richard Dawkins, significativamente proprio nell’ultima pagina (della prima edizione) dello stesso libro che ho poc’anzi citato, ci dice: «Siamo stati costruiti come macchine dei geni […], ma abbiamo il potere di ribellarci ai nostri creatori. Noi, unici sulla terra, possiamo ribellarci alla tirannia dei replicatori egoisti» [4].

Vorrei spendere qualche parola riguardo al termine che ho usato poco fa, e cioè “post-darwiniana”, riferito all’evoluzione. A rigore, infatti, bisognerebbe dire “post-darwinista”, dal momento che Darwin nel suo libro L’origine dell’uomo e la selezione sessuale del 1871 ( L’origine delle specie è del 1859) propone una vera e propria dottrina della civiltà secondo la quale il concetto stesso di civilizzazione non sarebbe altro, in effetti, che l’inversione progressiva dell’ordine selettivo primitivamente fondato sull’eliminazione, attraverso l’emersione, evolutivamente selezionata, dei comportamenti altruistici di assistenza e di solidarietà, specie nei confronti dei più deboli. Questa fondamentale impostazione — vale a direl’indebolimento della selezione eliminatoria stessa come forza principale che regge l’avanzare della civilizzazione — non è stata tenuta assolutamente in conto dai “darwinisti”, sia nel campo della biologia evoluzionistica, sia soprattutto in quello della sociologia (e qui mi riferisco naturalmente ai “darwinisti sociali” come Spencer e agli “eugenisti” come Galton), che al contrario estesero automa ticamente alle società umane l’idea che la molla del progresso fosse proprio la lotta per l’esistenza, la competizione generalizzata e l’eliminazione dei meno adatti.

Riprendendo le fila del nostro discorso, in effetti già oggi il corpo non viene solamente ripristinato “al naturale”, ma alcune sue parti possono essere rim- piazzate da protesi biomeccatroniche (ad esempio arti artificiali) o da impianti bionici (ad esempio impianti retinici, impianti cocleari, cuore artificiale). Il corpo può anche essere rigenerato grazie al trapianto di organi coltivati a partire dalle proprie cellule staminali. Ma soprattutto, in prospettiva il corpo potrebbe essere potenziato o migliorato. In effetti, un impianto retinico potrebbe essere regolato per rilevare gli infrarossi; un impianto cocleare potrebbe essere reso sensibile agli ultrasuoni; una mano biomeccatronica potrebbe essere in grado di girare su se stessa di 360 gradi; un organo rigenerato potrebbe essere programmato per non andare incontro a quelle degenerazioni che tipicamente si verificano con il passare del tempo. Senza contare, poi, che siamo agli inizi per quanto riguarda la medicina predittiva e la nanomedicina, in grado potenzialmente di rallentare o addirittura eliminare il processo di invecchiamento.

Come anche siamo di fronte alla possibilità di un potenziamento cognitivo, cioè di un miglioramento delle capacità del nostro cervello. A questo punto dobbiamo chiederci: tutto questo rappresenta davvero una rottura netta, o piuttosto si pone in continuità con la nostra storia passata?

La tecnica è infatti, di per sé, un fenomeno antico, a partire dall’uso creativo di bastoni e pietre scheggiate. E l’umano da tutto questo è stato profondamente influenzato, non solo nelle sue dimensioni culturali, ma anche in quelle biologiche, perché tecniche come il controllo del fuoco (che induce ad esempio la cottura del cibo), le armi, gli utensili, i vestiti, l’allevamento e l’agricoltura, ma anche molto più recentemente i vaccini, hanno già avuto conseguenze irreversibili anche sulla nostra biologia. Alcuni pensatori e scienziati sono arrivati a ritenere che in realtà ci sia stata una vera e propria coevoluzione tra l’uomo e la sua tecnologia.

Timothy Taylor, docente di Archeologia presso l’Università di Bradford, ha affrontato proprio questo argomento nel suo recente libro The Artificial Ape: How Technology Changed the Course of Human Evolution, pubblicato nel 2010, mostrando in modo convincente come gli strumenti e la tecnologia siano già da tempo i veri motori della nostra evoluzione. In particolare, Taylor sostiene che in ogni fase dello sviluppo della nostra specie abbiamo fatto scelte che ci hanno procurato un sempre maggiore controllo sulla nostra evoluzione. Ed è stato proprio l’utilizzo di oggetti che ci ha permesso di camminare in posizione eretta, di perdere i peli del corpo, e di incrementare in modo significativo le dimensioni del nostro cervello (e non il contrario).

Oggi, nel mentre spingiamo in avanti le frontiere della tecno-scienza — creando protesi, impianti intelligenti e geni modificati artificialmente — non facciamo altro che continuare (in modo consapevole, aggiungerei) un processo iniziato fin dal passato preistorico, quando abbiamo cominciato a estendere i nostri poteri sul mondo attraverso l’utilizzo di oggetti/strumenti.

Dunque ciò che è cambiato, oggi, non è solo la velocità con cui accumuliamo le nostre capacità di trasformazione, e il grado di intensità e di efficacia delle stesse. Ciò che è cambiato è soprattutto il fatto che cominciamo a renderci conto di essere in grado, oggi, di ridefinire la condizione biologica dell’uomo. Siamo in grado di scegliere, e possiamo tentare di orientare la nostra evoluzione.

Proprio questa presa di coscienza si pone al cuore della riflessione transumanista.

Dal momento in cui realizziamo questa presa di coscienza, si apre però uno spazio di discussione vertiginoso. Dobbiamo confrontarci con questioni e domande del tutto nuove. È davvero opportuno cambiare volontariamente la biologia dell’essere umano? Ci sono dei limiti oltre i quali non è lecito spingersi? Se tutto è modificabile, che cosa si dovrebbe comunque conservare di ciò che consideriamo autenticamente umano?

Per tentare di rispondere a queste fondamentali domande, dobbiamo preliminarmente prendere atto di un dato di fatto molto semplice, e cioè che la forma attuale della nostra specie è in ogni caso destinata a mutare. L’alternativa che abbiamo di fronte, dunque, non prevede in alcun modo di rimanere fermi, di fotografare la situazione attuale e congelarla per l’eternità (come sembrano illudersi alcuni), ma si sviluppa tutta tra due ipotesi molto chiare: quella di proseguire attraverso la somma di piccoli aggiustamenti relativamente marginali, lasciando ancora alla lotteria dell’evoluzione un compito determinante, e quella, invece, di assumerci la responsabilità di orientare l’intero processo.

Come anticipato all’inizio, una parte fondamentale della riflessione transumanista concerne l’individuazione e la valutazione dei possibili rischi. Ad esempio, i punti 3 e 4 della Dichiarazione Transumanista (nella versione del 2009) sono dedicati proprio a questo [5]. La cosa da sottolineare, in ogni caso, è che il Transumanesimo è perfettamente consapevole che il passaggio all’evoluzione autodiretta non è esente da rischi. Rischi che, pertanto, vanno attentamente considerati, valutati e soprattutto pubblicamente discussi. A questo proposito, è molto importante che una conoscenza scientifica di base sia ampiamente diffusa nella società, affinché la discussione possa essere consapevole.

Nella Dichiarazione Transumanista troviamo questa frase: «nonostante ogni progresso implichi cambiamento, non ogni cambiamento implica progresso». I possibili rischi devono dunque essere certamente valutati con estrema attenzione, e attivamente prevenuti (perché non ogni cambiamento implica progresso), tuttavia questo non in una prospettiva paralizzante, tale da arrestare il progresso ( perché ogni progresso implica cambiamento). Dunque, in sintesi, accettazione della nostra immane responsabilità, con cautela ma senza timore. Conseguentemente, la maggior parte dei transumanisti rifiuta il principio di precauzione e aderisce al cosiddetto principio di proazione [6].

Riguardo agli specifici rischi da considerare, vi sono proprio, e in primo luogo, quelli derivanti dalla non accettazione, dalla rinuncia, ad assumere questa responsabilità (come propongono i neoludditi e i bioconservatori): sofferenza, morte individuale ed estinzione — prima o poi — della specie. Ma di questo ho già parlato. A tale proposito aggiungerei solo la considerazione che, nel momento in cui dovesse emergere — come da molte parti si sostiene e come sembra ragionevole prevedere — un’intelligenza artificiale tale da sopravanzarci sotto tutti i punti di vista, qualora noi esseri umani ritenessimo di non dover stare al passo (modificandoci e potenziandoci a nostra volta), non avremmo fatto altro che decretare, e anzi accelerare, la nostra estinzione come specie.

Passiamo invece ai rischi derivanti dall’ accettazione di questa enorme responsabilità.

Vi sono essenzialmente due rischi, il primo derivante da un approccio individualista estremo (che misconosca il valore della solidarietà), il secondo derivante da un approccio organicista estremo (che misconosca il valore dell’individuo).

Riguardo al primo rischio, il Transumanesimo — in quanto eticamente attento ai principi di uguaglianza e di solidarietà — rifiuta una società di tipo esclusivamente individualista in cui l’accesso alle nuove tecnologie dipenda dalle disponibilità economiche individuali, e dove la scelta del se e come potenziarsi derivi esclusivamente — cioè senza alcun tipo di regolamentazione — da una scelta di tipo individuale. Molti ricorderanno un film del 1997, Gattaca, che tratteggia una società distopica in cui la classe sociale cui si appartiene dipende interamente dalle caratteristiche geneticamente modificate con cui l’individuo è nato, e che a sua volta sono determinate dallo status economico dei genitori.

Società di questo tipo condurrebbero evidentemente a situazioni di gravissima conflittualità sociale. Perché, evidentemente, c’è una bella differenza tra guidare una utilitaria o un’auto di lusso, da una parte, e — per fare un esempio –avere la prospettiva di vivere 80 anni o invece 800, a condizione di poter accedere a procedure molto costose. Una situazione del genere difficilmente potrebbe essere accettata di buon grado da chi fosse lasciato indietro.

Riguardo al secondo rischio, il Transumanesimo, in quanto eticamente attento ai principi di uguaglianza e di libertà, rifiuta una società di tipo collettivista, tipo alveare, in cui le scelte siano demandate ai vertici e i ruoli siano rigidamente fissati su base biologica. In questa prospettiva l’individuo non conterebbe niente, sarebbe un semplice ingranaggio all’interno del meccanismo sociale, privato del suo intrinseco valore, col risultato di trovarci di fronte a comunità fortemente gerarchiche e ineguali all’interno (ad esempio basate su caste bio-ingegnerizzate), e in continua lotta tra loro all’esterno (in un palcoscenico in cui il darwinismo verrebbe replicato a livello di comunità). Si potrebbe immaginare, ad esempio, una massa di lavoratori/schiavi programmati geneticamente per vivere 30 anni, e con limitate capacità cognitive in modo da minimizzare il rischio che si ribellino. Società di questo tipo condurrebbero a situazioni non tanto di conflittualità interna (in quanto sterilizzata da forme, ovviamente da condannare, di bio-ingegneria sociale), quanto invece di fortissima conflittuale esterna, inter-comunitaria. Si pensi–per intenderci–a quello che potrebbe essere, e che potrebbe fare, un regime nazista “aggiornato”–potremmo dire–alle nuove tecnologie di cui abbiamo parlato prima.

Questo sarebbe, evidentemente, l’esatto contrario del futuro che immaginiamo e auspichiamo in quanto transumanisti; eppure, tuttavia, non è un futuro impossibile.

Tali scenari, peraltro, non vanno rifiutati solo per le loro conseguenze, ma vanno anche considerati come strutturalmente incompatibili col transumanesimo, giacché finiscono per rendere gli individui nuovamente oggetti (mezzi), e non soggetti (fini), con ciò ponendosi agli antipodi dei principi transumanisti sotto il profilo etico. Vanno allora rifiutate, con estrema fermezza, tutte quelle tendenze che potremmo definire, nel loro complesso, “antiumaniste”, e vanno attivati e mobilitati tutti gli “anticorpi” possibili, atti a neutralizzare queste minacce.

I transumanisti sono consapevoli che l’Umano è inseparabile dalla sua Umanità, nell’accezione morale del termine. Per questo il transumanesimo, nella sue declinazioni più illuminate, è particolarmente attento alle problematiche di ordine sociale, sanitario e ambientale, affinché, pur attraverso la sua continua evoluzione, l’essenza di ciò che è umano sia preservata.

E in effetti, se ci pensiamo un attimo, le parole “Uomo” e “Umanità” già di per se non si riferiscono alla specie ( sapiens), ma al genere ( homo); possiamo dunque dire che futuri esseri umani potenziati, intelligenze artificiali, animali eventualmente potenziati, ecc., saranno tutti — più che post-umani (termine a mio parere sgradevole) — “Uomini post-naturali”, tutti appartenenti alla grande famiglia umana, tutti discendenti da un progetto umano, ma finalmente affrancati dai vincoli biologico-evoluzionistici.

Questa comune appartenenza, lungi dall’essere negata — come fanno alcuni pseudo-transumanisti, in realtà anti-umanisti — va al contrario enfatizzata, così da preservare la “unità morale” della Nuova Umanità, anche a fronte dell’inevitabile rottura, prima o poi, dell’unità biologica.

Da tutto quanto detto discende che interventi, ad esempio, sulla linea germinale (cioè l’inserimento di caratteristiche nuove che possono poi essere ereditate dalla prole) o tecniche di ibridazione uomo-macchina, non potranno certamente essere lasciati né al totale arbitrio del singolo individuo (sulla base di un individualismo estremo) né al totale arbitrio della singola comunità (sulla base di un comunitarismo estremo). Andranno invece elaborate linee guida a livello sovranazionale che siano vincolanti e per individui e per comunità.

Per concludere — e per chiarire perché ho usato la locuzione “uomo post- naturale” al posto di “postumano” — va notato che tradizionalmente, all’interno del discorso transumanista, specie di matrice anglosassone, si parla in effetti di “postumano” quale risultato della transizione che vedrebbe come punto di partenza l’umano, passando attraverso una fase trans-umana, per approdare infine a uno stato post-umano. Dunque in una scansione essenzialmente temporale, cioè in chiave cronologica.

Il problema, però, è che col termine “postumanismo” si è soliti indicare anche un approccio filosofico di matrice postmodernista che in realtà è radicalmente incompatibile col transumanesimo, in quanto, lungi dal rappresentare un’evoluzione dell’Umanesimo, ne rappresenta in realtà l’antitesi, ponendosi nella sostanza come prospettiva, appunto, anti-umanista. Ciò in quanto in quanto intende precisamente ridimensionare la posizione e il ruolo dell’uomo nell’ambito della natura e nel rapporto con le altre specie, e la stessa conoscenza scientifica viene considerata priva di intrinseco valore, ma quale mero strumento di controllo. Con ciò evidentemente ponendosi del tutto al di fuori, anzi come detto in opposizione, rispetto alla tradizione dell’umanesimo razionale di stampo illuministico, cui invece il transumanesimo esplicitamente si ispira. E per questo non è un caso che la maggior parte dei filosofi postumanisti (postmodernisti) siano estremamente critici nei confronti del transumanesimo.

Questa sovrapposizione terminologica, però — occorsa in modo del tutto casuale – ha finito per generare numerosi equivoci e fraintendimenti. E sempre più spesso — spiace dirlo, specie in Europa — viene sfruttata intenzionalmente da alcuni gruppi di anti-umanisti tecnofili, di regola legati agli ambienti della destra radicale etnoidentitaria, proprio per distorcere l'orignario e genuino messaggio transumanista.

A questo punto, come ho accennato prima, potrebbe apparire opportuna, se non necessaria, l’adozione di un termine nuovo per indicare il risultato (peraltro mai definitivo) della transizione: forse potrebbe andare bene “uomo post-naturale”, come suggerito da Aldo Schiavone nel 2010 [7]. La “naturalità” cui fa riferimento il suffisso “post-” è ovviamente relativa alla naturalità del meccanismo selettivo del processo evolutivo.

In ogni caso, a sostegno del fatto che il transumanesimo non è, e non può essere anti-umanesimo, vorrei concludere con un passo tratto da uno scritto di Julian Huxley, che per primo, nel lontano 1957, ha utilizzato la parola “transumanesimo” (e a volte tornare alle origini può far bene):

La specie umana può, se desidera, trascendere se stessa, non in maniera sporadica, un individuo qui in un modo, un individuo là in un altro modo, ma nella sua totalità, come umanità. C’è bisogno di un nome per questa nuova consapevolezza. Forse il termine ‘Transumanesimo’ andrà bene: l’uomo che rimane umano, ma che trascende se stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana. [8]

NOTE:

1. Cfr. G. Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate (1486), <http://www.lbalberti.it/public/AS2011–2012/classi/3ALS/Varie/pico%20della%20mirandola%20dignita.pdf>

2. R. Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente (1976), Milano, Mondadori, 1992, p. 1.

3. E.O. Wilson, Consilience: The Unity of Knowledge (1998), New York, First Vintage Book
Edition, 1999, pp. 302–303

4. R. Dawkins, Il gene egoista, cit., p. 210.

5. Punto Tre: «Siamo consapevoli di come l’umanità si trovi ad affrontare gravi rischi, in particolare derivanti dal cattivo uso delle nuove tecnologie. Esistono scenari realistici che conducono alla perdita di gran parte, se non della totalità, di ciò che consideriamo prezioso. Alcuni di questi scenari sono drastici, altri più sfuggenti. Nonostante ogni progresso implichi cambiamento, non ogni cambiamento implica progresso». Punto 4: «Sforzi di ricerca sistematici vanno indirizzati alla comprensione di tali prospettive. È necessario valutare con attenzione il modo migliore per ridurre i rischi e al contempo accelerare le applicazioni benefiche. Sono altresì necessari luoghi di incontro dove poter discutere in modo costruttivo su ciò che dovrebbe essere fatto, nonché un ordine sociale in cui decisioni responsabili possano essere implementate». Cfr. <http://www.webcitation.org/6dqoAHiUS>

6. Tale principio è sintetizzato dal suo proponente, il filosofo transumanista Max More, nel modo che segue: «La libertà delle persone di innovare dal punto di vista tecnologico è di grande valore, se non di valore critico, per l’umanità. Questo implica una serie di imperativi nel momento in cui delle misure restrittive vengano proposte:valutare rischi e opportunità in accordo con la scienza disponibile, non con la percezione popolare;contabilizzare sia i costi delle stesse restrizioni, sia quelli delle opportunità perdute:favorire misure che siano propor-zionate alla probabilità e alla magnitudine dell’impatto, e da cui ci si aspetta un elevato valore;proteggere la libertà delle persone di sperimentare, innovare e progredire». Cfr. <http://ieet.org/index.php/tpwiki/Precautionary_vs._proactionary_principles>.

7. In occasione del convegno “Evoluzione autodiretta e futuro dell’uomo”, organizzato nel 2010 presso la Facoltà di Scienze Politiche della Seconda Università degli Studi di Napoli (cfr. programma e audio degli interventi all’URL: <http://transumanisti.org/index.php?option=com_content&view=article&id=25&Itemid=46>)

8. J. Huxley, In New Bottles for New Wine, London, Chatto & Windus, 1957, pp. 13–17

RIFERIMENTI:

N. Bostrom, A History of Transhumanist Thought, in «Journal of Evolution and Technology», 2005, XIV, 1, pp. 1–25;

N.Bostrom, Superintelligence: Paths, Dangers, Strategies, Oxford, Oxford University Press, 2014;

R. Campa, Mutare o perire. La sfida del transumanesimo, Milano, Sestante, 2010;

R. Dawkins, Il genee goista, cit.;

S. Fuller, V. Lipinska, The Proactionary Imperative. A Foundation for Transhumanism, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2014;

J. Hughes, Citizen Cyborg: Why Democratic Societies Must RespondTto the Redesigned Human of the Future, New York, Basic Books, 2004;

R. Kurzweil, La singolarità è vicina, Sant’Arcangelo di Romagna, Editore Apogeo, 2008;

La Carta dei Princìpi dei Transumanisti Italiani (2015), all’URL <http://www.webcitation.org/6dqoGfg67>;

La Dichiarazione Transumanista (2009), all’URL <http://www.webcitation.org/6dqoAHiUS>;

M. More, N. Vita-More (a cura di), The Transhumanist Reader: Classical and Contemporary Essays on the Science, Technology, and Philosophy of the Human Future, Oxford, Wiley-Blackwell, 2013;

A.Schiavone, Storia e destino, Torino, Einaudi, 2007;

T. Taylor, T he Artificial Ape: How Technology Changed the Course of Human Evolution, New York, St Martins Press, 2010;

P. Tort, Effetto Darwin.Selezione naturale e nascita della civiltà, Vicenza, Colla, 2009;

E.O. Wilson, Consilience: The Unity of Knowledg e, cit.

Il presente testo riproduce l’intervento dell’autore alla giornata di studio “Itinerari post-umani”, coordinata da Roberto Mazzola (Napoli, Ispf-Cnr, 27 ottobre 2015)

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