Una geografia senza spazio. I luoghi nel mondo tecnologico e iperconnesso

Come sta cambiando la nostra percezione e rappresentazione geografica? Il concetto di spazio, invenzione razionale dell’età moderna, viene superato con la globalizzazione tecnologica e l’informatizzazione digitale tanto da trasformare profondamente la nostra stessa visione del mondo.

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TECNOETICA
12 min readMay 15, 2017

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Autore: Marco Z. Ranocchiari

Una rimpatriata e un treno

Quando vivi fuori e ritorni a casa per pochi giorni, non c’è niente di meglio che una bella pizza con gli amici, per chiacchierare del più e del meno. Ma se tra gli amici siede un filosofo, transumanista per di più, possono uscirne discorsi interessanti, rivolti a futuri più o meno remoti. Il giorno dopo sarei ripartito, ed ero già proiettato su questa seconda vita a poche centinaia di chilometri di distanza — una distanza facilmente superabile, ma comunque sufficiente a generare una vita quasi parallela. Bastano due città vicine a fare due vite.

Non passerà molto, discutevamo, e la presenza fisica in un determinato posto sarà del tutto arbitraria. Una pizza virtuale in una città virtuale, tra realtà aumentata, vincoli di spazio e tempo che affievoliscono progressivamente: oggi è così per le parole e le immagini, ma presto l’immersione sarà totale. La pizza insieme la mangeremo tutte le volte che desidereremo. Ma questa constatazione mi ha lasciato interdetto, non lo nego. Che sia tecnicamente possibile si vede già: anzi, è quasi così, basta seguire il trend e la suggestione è servita. Ma è davvero auspicabile? Io ci tengo, alla mia caotica metropoli natale, che rivedo di tanto in tanto, e al fatto che sia qualcosa di diverso dalla città sonnacchiosa dall’aria pulita e che respiro nella mia vita parallela, che pure amo. Perché quest’attrazione per le circostanze che ci limitano, perché non abbracciare senza riserve la comunicazione universale? Forse, rimuginavo il mattino seguente, lanciato su un treno a trecento all’ora, questa domanda non porterà lontano. Ha più senso riflettere sull’entità di questi cambiamenti cambiando il punto di vista: per una volta, non quello dell’individuo, ma da quello del mondo. Un approccio geografico. Come è destinata a cambiare la geografia del mondo?

Capita spesso di immaginarsi come i posti cambino fisicamente, nel tempo. Ma attenzione: “geografia” vuol dire più o meno “scrittura del mondo”. Come cambia, insomma, il mondo nel modo che più ci interessa, cioè il modo in cui lo viviamo? E’ su questo, mi sembra, che sarebbe urgentissimo discutere. La geografia è una disciplina bistrattata, in Italia, ma è di fondamentale importanza per comprendere il nostro mondo sempre più complesso. Vista la lungimiranza delle nostre classi dirigenti, deve essere per questo che non si studia più a scuola.

La Terra è piatta

Iniziamo a sfatare qualche mito: che la Terra sia piatta non è mica un’invenzione antica. Tutto il contrario: è un’idea decisamente moderna. Certo, come non pensare che sembra piatta, basta fare due passi e orientarsi con i punti cardinali e con l’alto e il basso, e che quindi la prima rappresentazione che ce ne diamo sia quella di un’entità piatta. Ma che la terra, in realtà, sia una sfera si sa da un bel po’. Sarebbe utile a questo punto ricordare che tra i più di un pensatore greco si spinse a discutere tranquillamente persino il modello eliocentrico. I moderni derisero il decano dei geografi dell’antichità, Tolomeo, ma non si accorsero che erano loro i più intimamente tolemaici. Non per la teoria geocentrica, naturalmente. Perché fecero proprio il cuore dell’insegnamento di Tolomeo, cioè di fingere, consapevolmente, che la terra sia piatta come una tavola, in modo da renderla misurabile e cartografabile.

Dal Rinascimento, e dalla scoperta d’America, avviene un ulteriore passaggio: la Terra smette di sembrare piatta, lo diventa fisicamente. Sono impazzito? Ma no, io sto parlando di percezione. Da quando le leggi della matematica vengono usate stabilmente per descrivere il mondo — per descriverlo e dominarlo — iniziamo davvero a trattare la Terra come se fosse una tavola. Con le moderne carte geografiche insomma, e con la prospettiva. Qualcosa che si guarda dall’esterno.

Pensiamoci: lo sappiamo, ma ci è difficilissimo immaginare che una strada dritta non sia veramente dritta fino all’infinito, ma pieghi ad arco seguendo la curvatura terrestre (lo avrebbero saputo anche nel Medioevo, ma allora, semplicemente, non ci provavano neanche a costruire le strade dritte). Immaginare che l’Antartide e la Groenlandia non siano più grandi dell’Africa come ci indica il planisfero. Che l’Italia non abbia la forma di uno stivale ma delle montagne, dei mari, delle campagne e delle case che veramente la compongono, e che le città non siano un intreccio di infrastrutture e palazzi, ma siano fatte soprattutto di persone e di relazioni. Che non sia possibile vedere tutto il nostro pianeta contemporaneamente, che ci sarà sempre una faccia nascosta. La carta geografica ha cambiato la nostra percezione del mondo: abbiamo smesso di vederlo come oggetto umido e concreto, puzzolente e vitale, ed è diventato una rappresentazione di se stesso.

La carta, è, fondamentalmente, uno strumento di dominio. Le strade, le ferrovie, i confini degli stati sono stati prima tracciati a matita su una carta geografica e poi trasferiti sulla carne viva del pianeta. Dall’avvento dell’età moderna abbiamo cioè smesso di fare mappe a imitazione del mondo, è il mondo a essere diventato una mappa, costretto forzosamente a coincidere con la sua rappresentazione. Cioè qualcosa privo di profondità, qualcosa con un centro (l’Europa, l’America, la pianura, le sedi del potere) e una periferia: il Sud, le terre aride e spopolate, la montagna, così sfuggente per la sua dimensione verticale, difficilmente comprensibile. Terreni non civilizzati, terreni di conquista.

Lo spazio e il luogo

Con la modernità viene infatti inventato quello che Franco Farinelli, geografo dell’università di Bologna, (e tra principali ispiratori di questo articolo) chiama semplicemente spazio. Questo termine si può afferrare se lo avviciniamo al suo opposto, il luogo. Mentre ogni luogo è unico, ha una sua storia, una sua forma e una sua identità, lo spazio è pura estensione. È quella che Cartesio svuotava di ogni autonomia, la res extensa da sottomettere alla ragione. A un certo punto, le coordinate hanno smesso di essere uno strumento per indicare una località; piuttosto, sono le località che hanno dovuto dotarsi di coordinate per reclamare la loro esistenza. Perché il mondo “ufficiale” è diventato un enorme piano cartesiano. Lo spazio moderno è tale indipendentemente da quello che lo riempie, è una grandezza matematica, un immenso grafico che intrappola un territorio ridotto in frantumi.

Il luogo, invece, è di meno univoca definizione. Due luoghi spazialmente vicini possono essere nella pratica lontanissimi; un luogo può contenere altri luoghi, essere cioè ricorsivo (una montagna può essere composta di molte montagne; il corpo di una persona che legge nella sua stanza, in un appartamento al terzo piano di una città, sono tutti luoghi, infilati l’uno nell’altro come una matrioska). Spaziale è lo stato moderno, tracciato su confini rigidi, spesso geometrici. Spaziali sono la ferrovia, l’autostrada: linee rette che minimizzano le distanze geometriche, appoggiate sul territorio senza possibilità di interagirci. Il trionfo dello spazio è avvenuto a scapito dei luoghi (non è un caso che i sociologi abbiano coniato il termine non-luogo come espressione alienante dell’ultra-modernità). Quasi tutto ciò che è asettico e impersonale, insomma, sembra (non ho resistito al gioco di parole) “di origine spaziale”; è un mondo grigio e impermeabile all’incanto, un mondo votato all’efficienza e all’omologazione. Lo spazio ha mandato a morire milioni di uomini perché un fazzoletto di terreno sassoso passasse al di qua del confine, cioè di un trattino disegnato su una carta topografica da qualche capo di stato con manie di grandezza.

Però intendiamoci: senza lo spazio moderno il nostro rapporto col mondo sarebbe forse più profondo e armonico, ma ci mancherebbero un sacco di cose. Non avremmo avuto la Rivoluzione Scientifica, e i vantaggi della tecnologia. Moriremmo di malattie curabili e non avremmo alcuno standard, dalle unità di misura fino a, probabilmente, la dichiarazione dei diritti umani.

Siamo dunque condannati alla scelta tra il luogo e lo spazio? Forse no. Perché infine, dopo secoli di piattezza, la terra ha smesso di essere una carta geografica e sta tornando a essere una sfera. La modernità è finita. Siamo nel postmoderno, nell’Antropocene, in quello che lo vogliamo chiamare, ma in ogni caso è un’altra storia.

La morte dello spazio

Lo spazio muore a livello individuale e a livello globale. Globale, già. Il termine globalizzazione può essere inteso in senso letterale: da quando esiste la rete, o meglio le reti, la distanza lineare, tra due oggetti, tra due città, tra chi parla e chi ascolta, ha perso importanza. Il mondo ha cioè smesso di essere una mappa. Si è incurvato, e ha fatto di più: i suoi punti si sono connessi su vie irripetibili, secondo la logica cangiante della rete. Quando un ragazzo di Buenos Aires corteggia una ragazza di Shanghai senza distogliere lo sguardo dal Rio de La Plata, in quale luogo avviene il loro rapporto? Saremmo tentati di dire in nessuno, ma sarebbe un’inutile semplificazione e una menzogna. E’ un mondo non più euclideo, è un mondo curvo come il tappeto dello spaziotempo, e la curvatura si inizia a vedere. Ma è l’economia mondiale che si è trasformata in un complesso flusso di informazioni, in cui la distanza effettiva diventa progressivamente irrilevante. Non solo la distanza: anche le direzioni. Se nello spazio esistevano centri e periferie, nella rete ogni punto può (potrebbe) tanto emettere che ricevere informazioni. La celebre frase di Blaise Pascal ci fornisce una splendida descrizione: il centro è dappertutto, la circonferenza in nessun luogo. Si tratta di un mondo che la logica spaziale non è più in grado di comprendere né governare.

Il reincanto del mondo

Se uno dei temi della modernità è stato il disincanto del mondo, oggi, il mondo si reincanta. Nella città elettronica torna l’invisibile: almeno ai suoi vertici, le decisioni sono prese da entità che sono per metà persone fisiche e per metà flussi; le singole persone immettono una parte della loro identità e della loro vita nella rete. Dal canto suo, anche la materia inorganica, la res extensa di carta, ridiventa qualcosa di vivo e dotato di volontà propria, una volontà non umana, o ibrida, e perciò mai del tutto controllabile o immaginabile. E sarà sempre di più così: la carta geografica ha preso vita, come il personaggio di un racconto postmoderno che si mette a interagire con il suo autore. Non solo la mappa non basta, ma l’esplorazione di questo mondo è potenzialmente infinita.

Un mondo incomprensibile

È sempre più diffusa la sensazione che il nostro mondo sia ormai incomprensibile, indomabile e sfuggente. La globalizzazione economica inarrestabile, la guerra globale, combattuta senza che i campi avversi abbiamo un territorio ben definito di competenza, e perciò impossibile da vincere o da perdere; i flussi migratori, come sappiamo, non si fermeranno mai davanti a confini disegnati da un’organizzazione senescente come lo stato, l’espressione più totale di una logica che non esiste più, quella dello spazio moderno. Si vede già dal nome: la parola Stato implica stasi, immobilità, ma la nostra epoca è invece segnata dalla mobilità. Ma lo spaesamento , male del nostro tempo, avviene a livello globale come a quello locale e individuale, in maniera altrettanto intensa. La sensazione di perdere la propria identità, di non riconoscere più i propri sistemi di valori senza essere in grado di trovarne di nuovi, quella di contare sempre meno in un mondo dove tutte le decisioni sono prese altrove — ma non soltanto “lontano”, in un altrove immateriale. Se un tempo orientarsi in un luogo forniva una chiave di interpretazione del mondo, oggi non è più così. Anche quando non ci aggiriamo tra spettrali non-luoghi, ma in luoghi concreti, storici, magari bellissimi, ci sembra di avere davanti soltanto delle vestigia di un passato del tutto muto, che non è più in grado di insegnarci nulla sul vero funzionamento del mondo.

L’arma del paesaggio

Il nostro mondo non è in effetti più comprensibile con una logica cartesiana. Se la terra è una sfera, sarà impossibile abbracciarla tutta come uno sguardo. La sua struttura di rete la rende un soggetto attivo e non un oggetto immobile. La compenetrazione di culture e visioni del mondo diverse, inoltre, non la rende qualcosa di univoco. Dice Farinelli “Riassumiamo: non vi è un centro e perciò non vi è spazio, l’identità individuale è minacciata, e quello che vediamo non basta a farci orientare. È la condizione attuale: ma è anche quella arcaica”. È come essere agli albori di una nuova era; una condizione pericolosa ma affascinante, dove tutto appare possibile.

Eppure, anche senza pensarla così romanticamente, possiamo considerare che i luoghi sono necessari anche in un’economia globale e informatizzata. Magari anche più di prima, perché l’informazione, è, tutto sommato, cultura, e la cultura è collegata all’esistenza di un ambiente, cioè di luoghi. Serve però una chiave di interpretazione, visto che quella spaziale è ormai inservibile. Quella chiave potrebbe essere il paesaggio. Un tempo appannaggio di pittori, l’approccio paesaggistico, esatto contrario della logica cartografica (o forse semplicemente complementare) è entrato a pieno titolo nel dibattito culturale e scientifico da un paio di secoli ed è una delle parole chiave della geografia.

Alexander von Humboldt, uno dei padri delle moderne scienze naturali e della geografia, aveva capito già dal Settecento che serviva un approccio olistico per affrontare la complessità del mondo. Qualcosa che unisse il modo in cui la Terra era vista e percepita — artistico, sentimentale, pittorico — e il lavoro degli scienziati che tentavano di svelarne i segreti. Per Humboldt il paesaggio era uno strumento didattico, stuzzicare la sensibilità umanistica dei ceti colti dell’epoca con le grandi novità della scienza di allora. Didattico per diventare, potenzialmente, politico: sono gli anni caldissimi della Rivoluzione Francese. Per noi, lo studio del paesaggio — “l’insieme di tutto quello che di un luogo non si può rappresentare nella mappa”, dice Farinelli — è uno strumento di conoscenza promettente, forse l’unico in grado di reggere l’urto delle trasformazioni contemporanee. Il paesaggio è insieme la percezione e la rappresentazione dei luoghi, è la storia della gente che ci abita e le loro aspirazioni. Ognuno ha in mente un paesaggio diverso, perché ogni individuo ha una storia e una sensibilità differente; ma subito a monte di questo livello, il paesaggio presenta delle caratteristiche ben individuabili, per quanto dinamiche. Uno strato “geologico”, mutevole, ma su tempi e modalità non umani; uno strato sociale, uno politico, culturale; e uno individuale. Gestire un territorio vedendolo come un paesaggio e non come uno spazio geometrico significa adottare un approccio dove i singoli hanno voce in capitolo, tanto i forti che i deboli, tanto gli abitanti che i viaggiatori: non è immobile come la carta, ma si fonda su tutti gli sguardi, compresi quelli mobili. Può perciò reggere alla sfericità della terra. È un approccio in cui il non umano, e anche l’inanimato, hanno un ruolo proprio — gli viene cioè riconosciuta la dignità di agenti, e anche il diritto di essere protetti, ma sempre in un approccio dinamico e dialogico: il paesaggio è infatti, per sua stessa natura, in perenne trasformazione.

Un paesaggio non ha confini, anche quando si riferisce a un territorio delimitato. La conoscenza scientifica dell’idrologia o della rete stradale è inseparabile dallo strato informativo: sia esso un libro, una via di comunicazione, una telefonata. Per modificare un luogo basta parlarne. Due gentiluomini inglesi dell’Ottocento, Churchill e Gilbert, viaggiarono a lungo le sperdute contrade delle Alpi Orientali, affascinati dall’arretratezza dei suoi villaggi e dalle sue spettacolari formazioni geologiche. Al ritorno scrissero un libro di viaggio illustrato di pregevoli acquerelli, che ebbe grande successo:”The Dolomite Mountains”, dal nome di un minerale scoperto per caso da un naturalista francese nel Settecento. Questo regalò alle sperdute valli di lingua ladina una fama impensabile, e un’identità riconoscibile, dando persino il nome a un gruppo montuoso finora anonimo: le Dolomiti. Milioni di montanari e di montagne sparsi nei cinque continenti, nel secolo che seguì, si dovettero sforzare di assomigliare o distaccarsi dal modello dolomitico. L’aspetto delle montagne di tutto il mondo dipende anche da eventi così contingenti, e così debolmente legati allo spazio misurabile. E’ questa, la forza del paesaggio, ed è un piccolo esempio datato. Come questo: pensiamo all’Italia, che si identifica in quello che i viaggiatori del Grand Tour ha identificato come “Italia”, come “il bel Paese”.

È ancora da dimostrare se un’educazione e una pratica del paesaggio possa far sopravvivere i luoghi a se stessi e sconfiggere lo spaesamento che infesta le moltitudini contemporanee. Quello che è sicuro è che, comunque, si tratta di uno strumento molto più appropriato della logica dominante, quella spaziale e cartografica, per comprendere il mondo e per plasmarlo nel segno della vivibilità.

Un po’ di strada si sta facendo. Oggi il paesaggio è entrato, per così dire, nelle istituzioni: la Convenzione Europea del Paesaggio è realtà, dal 2000. Ma il sentire comune, e le amministrazioni, lo trattano quasi sempre alla stregua di una trovata turistica o poco più, e raramente chi si cura di scienza e tecnologia si accorge quanto è importante fuggire dalla gabbia delle proprie specializzazioni. C’è solo da darsi da fare, chissà se è vero che le idee, quando sono buone, trovano alla fine la strada per emergere.

Per concludere: meglio aspettare che le circostanze ci permettano di sederci insieme in pizzeria o fare subito una cena virtuale con l’amico assente? Ora che so che la terra non è piatta, come una carta, o magari come una pizza, posso contemplare più serenamente entrambe le possibilità.

Bibliografia essenziale:

Franco Farinelli, l’invenzione della Terra, Sellerio, 2007

Franco Farinelli, Geografia. Un’introduzione ai modelli de mondo, Utet, 2003

Aldo Meschiari. Terra sapiens, Sellerio, 2010

Oltre ai geografi, ci sono innumerevoli filosofi che si sono occupati del’argomento. Gli imprescindibili, dicono, sono Heidegger con il suo Dasein e i Millepiani di Deleuze-Guattari.

Marco Z. Ranocchiari è laureato geologo, autoproclamato geografo, di professione divulgatore scientifico, narratore di viaggi, montagne e percorsi. Altri suoi articoli su: www.dinaride.it

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