Pensando all’empatia, in un negozio di chitarre

L’empatia è definita come la capacità di una persona di “mettersi nei panni” di un altro, “sentire quello che sente” per meglio comprenderlo. Ma è davvero possibile “mettersi nei panni” di qualcuno?

Massimo Giuliani
Tutto è relazione
16 min readSep 10, 2021

--

Una comune rappresentazione del concetto di empatia, presa a caso dalla rete.

1. Sentire “dentro”?

Quello di “empatia” sembra diventato un concetto di cui non si può fare a meno quando si parla del lavoro clinico e della psicoterapia in particolare. Se ne parla come di una capacità imprescindibile che il terapeuta ha o non ha, e senza la quale è impossibile anche solo immaginare una relazione di cura. L’argomento che circola è che senza empatia un terapeuta (ma anche un individuo in generale) è distaccato e indifferente, incapace di vicinanza col prossimo o per lo meno non in grado di comprendere quello che l’altro sente.
Il dizionario Treccani la definisce come la “capacità di porsi nella situazione di un’altra persona o, più esattamente, di comprendere immediatamente i processi psichici dell’altro”. Nella “Garzantina” di psicologia curata da Umberto Galimberti è “la capacità di immedesimarsi in un’altra persona fino a coglierne i pensieri e gli stati d’animo” (per inciso, “immedesimazione” sul Treccani è: “Processo attraverso cui un soggetto si trasferisce idealmente nelle vicende e nella situazione psicologica ed emotiva di un’altra persona”); vi si cita G.H. Mead per cui l’empatia richiede un assetto che permetta di “entrare nel ruolo dell’altro” in modo da “valutare il significato che la situazione (…) riveste per l’altra persona, nonché l’esatta interpretazione verbale e non verbale di ciò che in essa si esprime” (in tutti i casi i corsivi sono miei).

Tanto è alta la sensibilità alla questione che se ne trovano tracce abbondanti nel dibattito su un altro argomento attuale. Il lavoro clinico a distanza è diventato più rilevante, per le ragioni che sappiamo, da marzo 2020. Per quanto non si tratti di una novità, l’uso che se ne fa dal primo lockdown è di gran lunga più imponente che negli anni precedenti, quando la versione in videochiamata della terapia riscuoteva un’approvazione marginale, tra diffuse diffidenze e opposizioni. Poi è diventata una prassi “normale” — per alcuni un male necessario di cui liberarsi prima possibile. Dove resistono obiezioni, queste riguardano principalmente la mancanza di una prossimità fisica. A distanza, insomma, non si sente altrettanto bene. A distanza sarebbe più difficile sperimentare empatia, forse perché se — come dice la parola — l’empatia è un modo di sentire “dentro” (“ἐν” +“πάθεια”) qualcosa che viene dall’altro, essa necessita che quel “qualcosa” copra una distanza più breve possibile e comunque si giova di una sufficiente prossimità dei corpi.
In un mio contributo sulla terapia a distanza (nel libro collettaneo “Complessità e psicoterapia”) ho ricordato un episodio che sentii raccontare da uno dei testimoni (il collega e mio ex insegnante Pietro Barbetta): si tratta di una conversazione che vedeva coinvolti i nostri comuni maestri Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin. Con loro c’era — abile stimolatrice della discussione — Lynn Hoffman, che riteneva Boscolo un terapeuta con una forte attenzione all’“empatia”. Cecchin si lasciò sfuggire un certo fastidio nei confronti della parola e l’ospite americana lo sollecitò a trovarne una migliore. Lui ci pensò un po’ e poi propose: “telepatia”.

Dunque “empatia” ha a che fare col “sentire dentro”. Sentire dentro di sé quello che l’altro sente; o addirittura mettersi dentro l’altro (dentro i suoi stati d’animo) per condividerli. Il prefisso “tele-”, al contrario, vuol dire “da lontano”, “a distanza” (come per televisore, teleselezione, teletrasporto eccetera). “Telepatia” allora è “sentire a distanza”. Che nel linguaggio sistemico non è una stranezza, se si ha confidenza con quel modo di osservare che l’epistemologia definisce “di secondo livello”. La metafora che lo illustra è quella del matematico che riempie di numeri una grande lavagna e di quando in quando fa un passo indietro: da lì guarda la lavagna piena di numeri, tutta intera, per avere un’idea di quello che sta facendo. Facendo un passo indietro può avere uno sguardo “processuale”, vedere il suo stesso pensiero all’opera; essere spettatore del processo che lo comprende. Nulla di questo è possibile dal suo punto di vista ravvicinato. Deve uscire da quel punto di vista: la vicinanza non sempre aiuta a vedere.

Dunque la “telepatia” — se ci piace questa parola — non è la prescrizione di stare fuori e distante dalla relazione: ma implica il poter pensare alla distanza interpersonale come a uno spazio regolabile, in cui poter fare un passo avanti e uno indietro, se e quando lo si desidera. Un passo indietro aiuta a vedere meglio: perché permette una prospettiva utile a vedere l’oggetto della nostra osservazione (il paziente, la famiglia) e insieme noi stessi che conosciamo quell’oggetto, e il modo in cui lo influenziamo mentre lo conosciamo.

In un certo senso, da vicino vediamo cose (oggetti, individui, fatti); da un po' più indietro vediamo relazioni e processi. Spostare il focus, cambiare inquadratura, muoversi dagli individui alle relazioni: tutto questo richiede una regolazione della distanza, una continua e mai definitiva messa a fuoco. Non c’è una posizione giusta per tutto e per tutti i momenti.

Mettersi nei panni (Hana Pesut)

Ma la proposta di “telepatia” secondo me aggiunge un altro elemento che è del tutto inatteso rispetto alla mistica dell’empatia: l’altro è altro. Non esiste compenetrazione, non è possibile un “trasferimento” ideale dai propri confini, non c’è nessuno che entri dentro qualcun altro, non si dà nulla che possa essere definito come “immedesimazione”. Due individui in relazione in un contesto si influenzano reciprocamente (se Cecchin aveva una fede, forse era questa), ma in un modo un po’ più problematico di quello che può essere descritto come “mettersi nei panni” o “sentire con esattezza quello che l’altro sente”.

2. È possibile “essere dentro” qualcun altro?

Non è un caso che questa definizione geniale di Cecchin si trovi in sostanziale continuità con l’epistemologia costruttivista. Il costruttivismo è un pensiero che negli anni ’80 ha impresso una nuova direzione alle teorie e al lavoro dei sistemici. È un modo di pensare a come conosciamo il mondo, che trae origine da varie discipline e in particolare da alcuni studi sul sistema nervoso. Di solito viene citato il lavoro di Humberto Maturana: nel 1959 aveva contribuito all’articolo — accolto invero da un certo generalizzato dileggio — “Cosa dice l’occhio della rana al cervello della rana?” che riferiva di un esperimento condotto con Jerome Lettvin, Warren McCulloch e Walter Pitts.

Humberto Maturana, secondo da sinistra, incontrato con un gruppo di colleghi a Milano nel 2015.

Seguitemi perché magari quello che sto per dire vi sembrerà poco significativo per la questione che ci interessa, ma al contrario ha conseguenze importantissime.
Il gruppo era riuscito a ideare una modalità per registrare ogni singola fibra delle centinaia di migliaia che costituiscono il nervo ottico della rana (la storia è raccontata un po’ più estesamente da Giorgio Vallortigara qui). Si riteneva che la retina fosse un recettore passivo che attraverso neuroni retinici invia segnali semplici al cervello e affida ad esso tutto il lavoro di interpretazione. In realtà dall’esperimento venne fuori che così non è, e che un lavoro di vera e propria costruzione della percezione comincia sin da subito: sin dai primi passaggi lo stimolo esterno è soggetto all’opera di “rilevatori di caratteristiche”. Addirittura Heinz von Foerster, autore guida del pensiero costruttivista, retrodata l’ipotesi che la percezione sia il prodotto di una costruzione della realtà, e non una sua rappresentazione, almeno al 1926. Fu in quell’anno che Johannes Müller osservò che i nervi sensoriali producono sensazioni che corrispondono alla loro funzione specifica e non alla natura dello stimolo. Ad esempio un nervo ottico stimolato con una goccia di acido acetico percepisce una macchia colorata. Una papilla gustativa stimolata con scariche elettriche percepisce un sapore, magari acido. Al di là dell’impossibilità di stabilire se là fuori esistano colori e odori, se davvero l’aceto diventa un colore e una scarica elettrica diventa aceto, non è così agevole continuare a descrivere la percezione come raffigurazione di una realtà che esiste là fuori. La molteplicità delle sensazioni possibili non ha a che fare con gli stimoli esterni: la possediamo già pronta e incorporata.
Sulla base di questo repertorio l’attività del sistema nervoso — certo, innescata da uno stimolo proveniente dal mondo esterno — consiste in un lavoro di costruzione della realtà ad opera di un sistema che è di fatto chiuso e autoreferenziale. È quello che fa dire a Maturana che un sistema vivente è un sistema “auto-poietico”, cioè si definisce e ridefinisce autonomamente e si produce dal proprio interno.

In questo senso un sistema vivente è organizzazionalmente chiuso. Non c’è nulla che assomigli a un trasferimento di informazione da un sistema a un altro e non è possibile per nessuno determinare un cambiamento o decidere di influenzare con una certa finalità un altro sistema. Semmai si può dire che un nostro comportamento funge da perturbazione, da disturbo nei confronti di un altro sistema: quello, a sua volta, risponderà a quella perturbazione alla sua stabilità modificando in qualche modo il proprio stato. In che modo? In che direzione? Cosa si inventerà? Dipende solo da lui. Dipende dalla sua organizzazione, dalla sua storia, dall’insieme di condizioni che costituiscono il suo stato in quel dato momento, nella sua sostanziale autonomia funzionale.

Per un certo numero di anni mi sono dedicato a capire quanto sia importante il pensiero metaforico. In un libro che ho scritto sull’argomento ho riportato una delle scoperte più stupefacenti che ne ho ricavato. Viene dal lavoro di George Lakoff, il maggiore studioso del linguaggio delle metafore, approdato a una posizione sostanzialmente costruttivista. Il punto è: non abbiamo la possibilità di sapere cosa sia e come funzioni quella dimensione che chiamiamo tempo. Ma la immaginiamo come una progressione “da dietro in avanti” perché ricalchiamo la sua concettualizzazione sull’esperienza che il nostro corpo ha dello spazio fisico. Ordiniamo gli eventi su un continuum da “prima” a “dopo” perché non abbiamo altro modo che immaginarli come una fila di oggetti. È il modo in cui funziona tutta la nostra conoscenza del mondo astratto (il tempo, le emozioni, gli stati d’animo, le esperienze interiori), che non è se non metaforica: gli diamo la forma del nostro corpo e dello spazio fisico per come esso lo sperimenta.

Credo che a questo punto il concetto di empatia — così come lo pensiamo di solito — cominci a mostrare alcune problematicità, sebbene in campo sistemico sia piuttosto abituale sentire evocare il mercoledì l’autonomia dei sistemi e il giovedì cose tipo “l’empatia è una capacità fondamentale di un terapeuta”.
Per capirci: seguo con molto interesse le teorie sui neuroni specchio e penso anche che ci siano dei momenti in cui in terapia si sperimenta quella sensazione di intesa e di condivisione che fa stare bene il paziente e il terapeuta. Sono alcuni fra i momenti eccitanti e impagabili che rendono bello questo mestiere. Solo, penso che descriverli come “entrare” nei pensieri di qualcun altro sia inadeguato e che generi alcune conseguenze rischiose, come la fiducia nel fatto di poter davvero comprendere alla lettera i pensieri altrui e sentire le emozioni dell’altro. Perché quando si è certi di aver compreso, come minimo si smette di fare domande.

Insomma: quando mi parli di te, e io mi commuovo, partecipo, mi sento vicino eccetera, io non sento quello che senti tu. Sento quello che sento io.

3. In un negozio di chitarre

L’idea di questo articolo mi è venuta un pomeriggio di qualche anno fa, mentre mi trovavo davanti a una parete di decine di chitarre acustiche (quelle con la cassa armonica vuota di legno e il buco, per capirci) nel mio negozio preferito.
Da lontano arrivava nel reparto chitarre il vociare dei clienti, il suono di qualche tasto di pianoforte pigiato di passaggio e qualche altro rumore indistinto. A un certo punto qualcuno da qualche parte comincia a suonare un basso elettrico. Qualcuno vicino a lui attacca all’amplificatore una chitarra elettrica e lo accompagna. Da un’altra direzione arriva il suono poderoso di uno strumento a fiato. Sono distanti da me ma io, fra tutte quelle chitarre, noto che le loro corde e le loro casse armoniche cominciano a vibrare, e mi ritrovo lì in mezzo a quella sinfonia inattesa.
È il fenomeno fisico della risonanza. Gli strumenti vibrano, come si dice, per simpatia.

Non vibrano a caso, ma secondo certe precise loro caratteristiche che le mettono in relazione con precise caratteristiche dei suoni lontani.
Qualcuno di voi avrà confidenza con una chitarra. Se fate vibrare una corda, la prima ad esempio, quella più sottile, essa produrrà la nota che chiamiamo Mi (ovviamente presumiamo che lo strumento sia ben accordato).
Noi percepiamo quella nota, ma una nota contiene molto di più di quello che riusciamo ad ascoltare. Non è un suono puro. Contiene una molteplicità di altre note, più acute ma di intensità molto più bassa, che chiamiamo “suoni armonici” o “ipertoni”. Sulla tastiera della chitarra possiamo separare quegli armonici ed ascoltarli distintamente: se poggiamo un dito della mano sinistra in corrispondenza del dodicesimo tasto (non premendo sul tasto, ma limitandoci ad appoggiarlo sulla barretta corrispondente) si troverà esattamente sulla metà della sua lunghezza: dunque pizzicando la corda (e staccando il polpastrello appena pizzicata la corda) avremo il Mi dell’ottava superiore perché la corda, lunga la metà, oscillerà al doppio della frequenza. È il primo e il più intenso dei suoni armonici contenuti in quella nota. Se, ancora, facciamo vibrare la corda toccando la barretta del settimo tasto, ascoltiamo un armonico un po’ meno intenso, che corrisponderà al quinto grado (un Si).

Da Wikipedia

Dicevamo che al dodicesimo tasto ci trovavamo esattamente a metà della corda. Se la dimezziamo ancora, toccandola in corrispondenza della barretta del settimo tasto, avremo un Mi di un’ottava ancora più alta (e un po’ meno intenso dell’armonico precedente).
Sono solo alcuni dei suoni contenuti in quel Mi di partenza, ma ci fermiamo qui. In realtà è possibile scoprire lungo la tastiera, sempre toccando quella corda, un gran numero di altri suoni armonici, sempre meno intensi.

Il punto è che le onde sonore prodotte dalla vibrazione di quel sistema oscillante provocheranno risonanze in altri sistemi elastici che si trovino nei paraggi e che condividano gli stessi ipertoni. Le corde delle chitarre intorno a me risuonavano selettivamente a vari gradi di intensità con i suoni che arrivavano da un altro reparto del negozio. Selettivamente e compatibilmente con le proprie caratteristiche fisiche e la propria frequenza di risonanza. A loro volta, provocavano vibrazioni nelle casse armoniche che ne restituivano il suono amplificato.

Per due ragioni quell’esperienza mi è rimasta in mente.
Primo, perché dal punto di vista sistemico è un fenomeno piuttosto interessante. Non vale per una chitarra costruita con materiali modesti, ma una chitarra fatta di buon legno “matura”, cresce tanto più quanto più il suo corpo vibra. Ci sono chitarristi che nella mezz’ora che precede lo spettacolo applicano sulle corde un apparecchio che le tiene in costante vibrazione e di conseguenza fa vibrare i legni della cassa. Questo la rende più suonabile e le dà un volume più deciso. Altri ritengono che una chitarra tenuta costantemente sollecitata “maturi” più in fretta di una lasciata inerte dentro l’astuccio. Spesso la tengono in casa accanto alle casse dell’impianto stereo, per permetterle di vibrare anche per molte ore al giorno. Quello che mi colpiva era l’idea che nell’ecosistema degli strumenti di quel negozio quegli strumenti evolvessero nella relazione con molti altri strumenti, e in quella relazione (nella risonanza e nella costante sim-patia con tutti gli altri) si modificassero.
La seconda ragione era la considerazione che quando uno strumento diverso, poniamo un trombone, provoca risonanze nelle corde di una chitarra e dunque nella sua cassa armonica, questa vibrerà come una cassa armonica, non pretenderà mai di sentirsi un trombone. Risuonerà delle vibrazioni di quello, ma lo farà secondo le proprie regole e la propria natura. La risonanza per simpatia cominciava a sembrarmi una buona alternativa al mito dell’empatia.
Sim-patia è sentire insieme (“συν” +“πάθεια”). Con i limiti e i vantaggi della rispettiva autonomia, nel rispetto dei confini, senza necessità di compenetrazione reciproca; coerentemente con l’organizzazione e lo status di sistema autopoietico dei sistemi coinvolti.

4. La terapia è un bruscolino nell’occhio

L’idea generale è che l’empatia sia una capacità necessaria per capire meglio certe cose interne al paziente; e che capirle bene mi sia d’aiuto nel valutare la situazione e nel prendere delle decisioni giuste.
Tutto questo in un certo senso è vero, ma è parziale. Soprattutto, parte dal presupposto che sia possibile conoscere la realtà, entrarci dentro, in modo oggettivo e sufficientemente esatto. Se seguiamo quanto detto finora, questa è una premessa ingenua.

Proviamo ad accantonare il pensiero che la relazione clinica sia fatta di un momento in cui cerco di “sentire” e di approssimarmi a una lettura più esatta possibile dello stato psicologico della persona — o delle persone — che ho davanti, e di un momento successivo in cui farò delle scelte, dirò delle cose, che saranno più o meno giuste in funzione della precisione con cui ho letto la realtà. Se prendiamo per buono che fra me e l’altro non esiste un passaggio di informazioni più o meno esatte, un modo alternativo di descrivere quel processo è che mentre io ascolto le vibrazioni e le risonanze, accadono delle cose. Si genera un contesto emotivamente significativo. Maturana direbbe che la mia capacità di essere d’aiuto a chi ho davanti è una questione di intelligenza: ma l’intelligenza non ha a che fare con la capacità di risoluzione dei problemi, semmai con le emozioni e con la capacità di partecipare a generare un dominio di consenso. Nella relazione creiamo un modo consensuale di agire tra me e il paziente e questo produrrà un allargamento delle possibilità di immaginare cambiamenti — di risolvere problemi. Il terapeuta è intelligente, il paziente è intelligente nella misura in cui sviluppano un dominio di con-senso. Il conoscere e il ricercare spiegazioni è la connotazione specifica che le relazioni umane assumono nel contesto professionale in cui incontriamo persone. Pietro Barbetta da qualche tempo sta lavorando sul concetto di tenerezza nella terapia. Lo trovo importante perché mi pare un tentativo di definire una terapia in cui la relazione non è finalizzata alla ricerca di una spiegazione, ma è la ricerca di spiegazione che ha senso nella misura in cui sostanzia una relazione umana, un dominio di consenso.

Dominio di consenso. Un esempio.

Non ho alcuna speranza di prevedere con certezza le conseguenze dei miei interventi, tanto meno di programmare azioni finalizzate a un certo scopo. Posso solo stare nella relazione, in una posizione di ascolto e di rispetto per una realtà diversa dalla mia; posso sentirmi parte di quello che succede e fare cose in coerenza con quel contesto emotivo. Siamo sistemi autonomi, si è detto; quello che farò avrà un effetto di perturbazione sul sistema, ma soltanto il sistema perturbato può decidere che genere di effetto. Non siamo nemmeno in grado di scommettere sul fatto che le parole abbiano lo stesso senso. Capita almeno una volta al mese nella vita del terapeuta più attento a non influenzare, a non dare consigli né prescrizioni, di ricevere un paziente che appena seduto gli dice “dottore, dall’ultima volta ho fatto esattamente come mi ha detto!”.

Nessun altro può sapere con certezza come il sistema reagirà alla perturbazione di quel corpo estraneo, di quel bruscolino nell’occhio, e come si aggiusterà per compensarla.
Una volta, quando ero un giovane terapeuta, ebbi a che fare con una coppia di una certa età, molto litigiosa. I terapeuti giovani hanno una dedizione speciale. Lavorai per un certo periodo con questa coppia, che evidentemente era molto legata e condivideva molte passioni, ma che mi ripeteva in ogni seduta, in tutti i modi che poteva, che non riusciva a trovare un altro modo di stare insieme che non fosse il continuo sfidarsi e maltrattarsi. Testardamente, per molte sedute provai a cercare con loro ipotesi, spiegazioni, diagnosi che li aiutassero a uscire da quella difficoltà, e quello che mi rimandavano era che sebbene molte di quelle letture avevano senso e li rendevano consapevoli di come funzionassero e perché, in nessun modo li aiutavano a invertire il modo in cui funzionavano. Finché un giorno alzai le mani: “mi avete convinto, mi pare responsabile prendere in considerazione l’evidenza che per quanto vi amiate non riuscite a stare insieme. La prossima volta cominceremo a parlare di come sarebbe separarvi”. Annuirono e ci salutammo, tutti visibilmente addolorati.
Alla seduta successiva mi raccontarono che erano rimasti molto scossi e che per la prima volta avevano realizzato il rischio che correvano. Dall’incontro precedente avevano avuto un atteggiamento completamente differente l’uno verso l’altra e avevano deciso che avrebbero continuato a stare insieme in un altro modo. La terapia si chiuse quel giorno.

Generalmente pensiamo che il mestiere del clinico consista nel fare delle buone domande per “capire” quello che sta succedendo. Dal punto di vista che stiamo provando a considerare, l’atto del cercare, del fare domande, è più importante del “capire”. Mentre io e il paziente interagiamo, mentre mostriamo interesse e partecipazione ciascuno al mondo dell’altro, ci connettiamo; e mentre siamo connessi accadono delle cose. Si genera un contesto in cui entrambi siamo incoraggiati a esplorare e a cambiare.

5. Conclusione: un dolore e una consolazione

È parere diffuso quello per cui l’“empatia” sia garanzia di partecipazione emotiva, e che senza empatia non sia possibile alcuna condivisione sincera. C’è un libro di un certo successo che condanna l’empatia proponendo come alternativa la “razionalità”. Non è la mia posizione. Io credo, anzi, che rinunciare all’idea di entrare nella testa dell’altro e cercare piuttosto una posizione sim-patica, consapevole della sua alterità, sia un approccio che valorizza le emozioni nella relazione. Quello che Maturana chiama “dominio di consenso” è principalmente una questione emozionale, e diminuiscono le possibilità di generarlo se le emozioni sono competizione, sopraffazione, ma anche desiderio di controllare l’altro e di modificarlo. La curiosità, il rispetto, il piacere le aumentano.
Con una connessione temeraria con un’altra cornice teorica, accosto il concetto a un altro, che lo psicoanalista Giampaolo Lai teorizza da anni, quello della “conversazione felice” (felice nel senso dello stato d’animo, ma anche nel senso di “ben riuscita”, “ben costruita”, insomma: bella).

Dominio di consenso. Un altro esempio.

Una domanda che nasce da tutto questo è se la simpatia, la capacità di costruire un dominio di consenso e di risuonare con le emozioni dell’altro (del paziente, degli allievi, dei figli…) si possano insegnare. È una questione che meriterebbe un altro articolo. Quello che posso dire qui è che se esiste un addestramento alla simpatia esso passa ancora di più per la conoscenza delle proprie corde e dei propri legni, delle proprie frequenze di risonanza, che per la conoscenza di strumenti di comprensione degli altrui sentimenti. Passa per l’incoraggiamento della capacità di riconoscere la diversità dell’altro, più che dalla pretesa di capire i suoi pensieri. Passa per l’importanza delle domande, che va assai oltre la loro funzione di generare risposte. Passa per la tolleranza al paradosso per cui sappiamo che non potremo mai impadronirci veramente della realtà là fuori, eppure continuare a cercarla resta il modo migliore che conosciamo per incontrare l’altro.

Tutto questo rischia di apparire molto frustrante, ma contiene una contropartita che ripaga degli sforzi e un po’ lenisce la disperazione. E cioè il pensiero che se le nostre domande non hanno nessuna possibilità di approdare a una verità raggiungibile, allora il piacere di raccontarci e di farci domande a vicenda è potenzialmente un piacere che non finisce mai.

Per la stesura di questo articolo ho fatto ricorso a:

--

--

Massimo Giuliani
Tutto è relazione

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.