Tre emergenze più una

Vivere in pandemia comporta alcuni aspetti drammatici che non possiamo evitarci, ma che dobbiamo cercare di gestire in qualche modo. E un altro di cui è possibile e necessario liberarci ora, subito.

Massimo Giuliani
Tutto è relazione
6 min readMar 12, 2021

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Da un po’ di giorni ragiono sul fatto che mi sento piuttosto in difficoltà nel provare a dire qualcosa sulla fase che stiamo attraversando. All’inizio di questi dodici mesi di pandemia scrissi sul mio blog una nota (vi ricordate? Erano i tempi dei supermercati senza più carta igienica) che già a rileggerla un mese dopo mi sembrava superflua e ingenua (come cambiava il mondo, da un giorno all’altro!) e nei tanti momenti successivi in cui ho provato ad abbozzare qualche riflessione, un attimo dopo mi pareva già superata.
Quello che oggi sento di poter dire è che non c’è una emergenza in corso, ce ne sono sono almeno tre. E sottolineo “almeno”.
La prima, ovvio, è quella sanitaria. Gente che muore di Covid e gente che muore di altre malattie, un tempo prioritarie e ora no. Si dice che ci siamo assuefatti al numero dei morti, e forse è vero, ma quello che dà una misura più completa della tragedia, al di là dei numeri, è il modo in cui si muore e quello che lascia su chi resta.
La seconda emergenza (ovvio anche qui) è quella del lavoro. Chi ne aveva uno e l’ha perso, chi era sfruttato e lo è ancora di più, chi lo cercava e si deve mettere via ancora per un bel pezzo la speranza di trovarlo.
Un’altra ancora è quella del disagio psicologico e delle relazioni. Da un anno è diventato difficile uscire di casa. Ma sull’“uscire di casa”, sull’attenta regolazione della distanza e della vicinanza, sull’alternanza dei tempi della convivenza familiare e di quelli del lavoro, si fondavano equilibri relazionali. Oltre al fatto che “uscire di casa” è una precisa tappa evolutiva nella vita di un giovane. Tanti ragazzi hanno interrotto nel marzo 2020 un progetto di “uscita da casa”, che qualche volta era frutto di lavoro lungo, anche di anni.
Un giorno tireremo le somme dei morti del Covid, dei morti non curati di altre malattie, dei danni economici macro e micro, degli effetti a breve, medio e lungo termine di sofferenze relazionali e dei tentativi abortiti, o rinviati sine die, di “uscire di casa”.
Le cose si son messe in una maniera per cui quello che è necessario per qualcuno è indesiderabile per qualcun altro, quello che è vitale per uno è minaccioso per la sopravvivenza di un altro. Peggio ancora: quello che mi è necessario per un fine mi è pernicioso per un altro. Una frattura verticale fra le persone e fra gli stessi bisogni di ciascuno.
Io non riesco a fare un graduatoria di quello che è più importante e non mi trovo a mio agio col piano di azzuffarmi con qualcuno per decidere quale sia la tragedia più tragica. Leggo quello che scrivete e certe volte invidio a qualcuno la capacità di fare scale di priorità.
C’è stato un momento in cui si poteva evitare che le cose diventassero così maledettamente complicate? Magari sì. Magari, se in un paio di passaggi si fosse agito più in fretta ci saremmo evitati mesi e mesi di provvedimenti ondivaghi, ambigui, incomprensibili ed estenuanti. È la mia idea, ma non posso metterci la mano sul fuoco. In una situazione così nuova e complessa dire che una certa decisione avrà certamente una certa conseguenza, equivale a dire che alla roulette sei in grado di far uscire il numero 35.

Ma in Lombardia ci ricordiamo la sera dell’8 marzo 2020, in cui andammo a letto infuriati dopo la conferenza stampa di Conte perché da giorni aspettavamo la chiusura della Val Seriana come era accaduto per Codogno. E invece quella sera avemmo in molti l’impressione che la nostra salute fosse sacrificata agli interessi del potere economico e della produzione.
Probabilmente un pensiero simile l’abbiamo fatto più di recente, in ottobre, ma ormai con più rassegnazione e già molto meno condiviso, in un clima di crescente inquinamento dei rapporti umani, di guerra di vecchi contro giovani, malati contro sani, asceti contro festaioli, animati più da argomenti moralistici che dalla tensione a risolvere un problema concreto.
Quando una faccenda scivola dalla dimensione delle cose di cui prendersi cura e finisce in quella del giudizio morale è finita. Si cede alla tentazione di sentirsi dalla parte dei giusti e non si fa più nulla per venirne a capo.

E intanto qualunque decisione un po’ più incisiva dell’istituzione di zone arancio chiaro, scuro e rosso relativo, troverebbe ormai l’opposizione di una parte cospicua dell’opinione pubblica, che è solo estenuata da mesi di decisioni ondivaghe (e condizionate da certi poteri economici, appunto) e dall’impossibilità di sapere cosa succederà domani mattina. E che dopo uno sfiancante stillicidio di misure incomprensibili, se deve scegliere fra due alternative secche — salute o lavoro; presente o futuro; socialità o prevenzione; proteggersi o portare avanti un progetto di vita — non è detto che scelga quello che a un altro sembra più ragionevole e sano.

Dunque era giusto prendere altre decisioni in certi momenti, e magari dare un breve dispiacere a chi poteva permetterselo? Penso che fosse giusto. Saremmo in una situazione diversa oggi? Alla fine, chi può dirlo davvero. Se guardiamo ad alcuni esempi di lockdown radicali e precoci, le conclusioni non sono univoche.
Quando diciamo “è una situazione complessa” non vuol dire soltanto che troppe sono le variabili da considerare per parlarne con cognizione; vuol dire che si trasforma mentre ne parli; vuol dire che anche il parlarne la trasforma, e che mentre la nomini non è più quella per effetto del fatto che la nomini.
Non possiamo prevedere il futuro. Non possiamo nemmeno decidere che delle tre “emergenze” una abbia totale precedenza, e per le altre pazienza. È ormai una situazione assurdamente imperfetta, dove sono in competizione esigenze di sopravvivenza differenti, istanze che trovi non in due gruppi sociali separati, ma che convivono e collidono in ciascuno di noi.
Tutto questo ci ha messo ancora più di prima gli uni contro gli altri, e non è necessario dire che era l’ultima cosa di cui avessimo bisogno.
Non riesco, dunque, ad avere un’idea precisa di cosa, oggi, ormai, sia davvero necessario per liberarci del virus. Anzi, ho deciso da un bel po’ che, per quanto mi riguarda, averla è impossibile — e ringrazio che averne una non sia il mio mestiere. Osservo le falle innegabili della gestione della pandemia, per cui mentre ce la prendiamo gli uni con gli altri la programmazione della favoleggiata campagna vaccinale cambia di giorno in giorno e negli ospedali gente che va a curarsi per altri guai muore di coronavirus.

L’unica idea chiara che ho è che mai come ora la partita si gioca su un modo decente e serio di comunicare. Il lavoro degli organi di informazione, a giudicare dai titoli di oggi (qualora non ci fosse ancora evidente, da quando la cara Federica Sgaggio ce l’aveva spiegato per filo e per segno) non è quello di dirci come stanno le cose, ma di dare il via alle botte da orbi fra le persone, fra noialtri. Mentre cerchiamo di uscire a fatica dalle tre tragedie simultanee (ed è ovvio che ne usciremo), la quarta, e quella che avrà probabilmente gli effetti più lunghi e devastanti è proprio questa. Prendiamocela poi coi “negazionisti”, magari cercando non ridere, quando il principale quotidiano fa quei titoli a nove colonne. Nelle stesse ore in cui Repubblica vendeva l’anima per trenta denari bucati, altre fonti esprimevano dubbi fondati sui legami tra i casi di trombosi registrati in Europa e la somministrazione di Astrazeneca, ma le conversazioni sui social erano ormai incendiate da parecchie ore.
I danni su salute, economia e relazioni familiari sono la parte che dobbiamo gestire. Non possiamo liberarcene quando ci pare, dobbiamo governare la lenta uscita dal tunnel e nel frattempo contare le vittime — e naturalmente fare quello che è in nostro potere per limitarle. La quarta delle tragedie, quella del dissennato ma fruttuoso (per qualcuno) “tutti contro tutti”, quella davvero non è necessaria e soprattutto non è inevitabile.

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Massimo Giuliani
Tutto è relazione

La cura e la musica sono i miei due punti di vista sul mondo. Sembrano due faccende diverse, ma è sempre questione di suonare insieme.