Il sistema operativo di un’organizzazione votata all’innovazione

Ecco come siamo organizzati e come lavoriamo in Strategy & Innovation Culture

Tomas Barazza
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8 min readApr 11, 2018

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Seeding. Photo by Markus Spiske on Unsplash

Perché l’organizzazione è un tema rilevante, soprattutto per noi

Per un gruppo di lavoro come il nostro che si occupa di Cultura dell’Innovazione (Strategy & Innovation Culture) è evidente l’importanza di definire una cultura in grado di abilitare una continua capacità di esplorare, scoprire e innovare. Con l’obiettivo di provare a modificare costantemente i confini di ciò che si è e di ciò che si fa.

Per noi è diventata una ragione di esistere, il nostro purpose, nella misura in cui l’obiettivo è quello di aiutare le altre organizzazioni a recuperare questa agilità di pensiero e di azione e attitudine al cambiamento e alla ricerca del nuovo.

Ma è diventata anche un modo di dimostrare a noi stessi la coerenza di ciò che raccontiamo a tutti.

Il modo in cui un’azienda o anche un team decide di organizzarsi definisce qualcosa di molto più rilevante degli aspetti pratici che pur vengono fissati e che regolano il funzionamento e quindi l’efficacia nel raggiungere la propria missione.

Nel definire il modo in cui un team lavora si fissano le basi della cultura con cui opera: i valori che guidano le decisioni, ciò che viene premiato o punito, l’autonomia e il senso di responsabilità richiesto.

Da questo dipende la capacità di attrarre, motivare e trattenere le persone di talento, che per molte aziende, inclusa la nostra, è senza dubbio l’aspetto più importante.

Le origini - flashback

Posto molto bello. Photo by H-Farm

Il nostro team è cresciuto dentro un posto molto bello in cui lo spirito imprenditoriale è un elemento naturale. La maggior parte delle persone che è qui da un po’ di tempo ha vissuto in qualche modo l’esperienza di far parte di una startup: il misto di eccitazione da sogno di realizzare qualcosa di unico e l’ansia di dover fare cose straordinarie con risorse limitate in pochissimo tempo. E come ogni startup all’inizio ci siamo dati una struttura semplice: per noi, tre aree — design, technology, story — ciascuna con a capo un responsabile che si doveva occupare di far evolvere le competenze nella direzione migliore per quello che ritenevamo strategico: capire cosa sapevamo e cosa aveva senso imparare, scegliere chi assumere, con chi collaborare e come fare crescere le persone.

Crescendo però abbiamo capito che anche una struttura come questa aveva dei limiti relativi sia all’evoluzione delle nostre competenze, che all’opportunità di crescita delle persone. Gli ambiti in cui investivamo in progetti di ricerca, formazione e selezione erano derivati dalla visione di poche persone e i limiti di questo approccio erano sempre più evidenti.

Anche le prospettive di crescita delle persone erano un po’ schiacciate da una struttura snella ma ben coperta nelle posizioni chiave. Come dare spazio di crescita alle legittime aspirazioni di gente in gamba? E come creare ruoli attrattivi per persone che cercavamo di portare a bordo?

Il rischio forte in questi casi è quello di cominciare a stratificare posizioni e decisioni che un po’ alla volta creano dei mostri organizzativi che ingessano tutto: il modo di operare, di pensare, di rischiare, di cambiare. L’ego finisce col diventare un enorme freno all’evoluzione.

Ridisegnare l’organizzazione da zero

Greenfield. Photo by ricke 76 on Unsplash

Normalmente chi ha più bisogno di cambiare è difficilmente nella condizione di farlo agevolmente: la fortuna di partire greenfield è molto rara nei progetti di re-design organizzativo. La struttura esiste e con essa le posizioni acquisite e gli equilibri interni.

Trovare le condizioni per azzerare tutto e ripartire da zero nel nostro caso ha richiesto una capacità di visione da parte di tutte le persone coinvolte: a tutti è stato chiesto di guardare oltre il proprio ruolo, di rimettere sul tavolo le responsabilità e di ragionare insieme sul modo migliore per ridistribuirle. Un esercizio senza dubbio non facile, che ha richiesto grande fiducia reciproca.

I principi che abbiamo seguito nel ripensare la nostra organizzazione sono stati:

  • sviluppare l’autonomia e l’imprenditorialità delle persone
  • stimolare l’esplorazione facendo leva sulle passioni e gli interessi
  • evitare le stratificazioni di posizioni e ruoli
  • ridurre al massimo l’ego, mantenendo la parte sana legata all’ambizione
  • favorire la collaborazione sulla competizione
  • favorire il disegno di personali percorsi di sviluppo

Oggi abbiamo un team di circa 60 persone e non abbiamo aree o unit predefinite con responsabili e gestori di risorse. Non abbiamo nemmeno figure di staff interne al team come pianificazione, controllo, hr o altro. Non che queste responsabilità non siano presenti, solo che vengono distribuite all’interno del team più o meno equamente.

La nostra organizzazione ha due criteri con cui definisce i team di lavoro: i team di progetto seguono le iniziative che progettiamo e realizziamo per i nostri clienti, mentre le crew si occupano della nostra ricerca e sviluppo e quindi di fare espandere i nostri confini, migliorare in quello che sappiamo e imparare cose nuove.

La vista per delivery: i progetti

Projects. Photo by Daniel McCullough on Unsplash

Guardando la nostra organizzazione dal punto di vista dei progetti sembriamo molto simili a qualunque società di servizi. I progetti aggregano, come in un grande Tetris, le persone in funzione delle necessità.

Guardando meglio come si forma il planning, ciò che cambia rispetto alla norma è che i team di progetto si auto-formano e auto-aggiustano sulla base di una continua negoziazione peer-to-peer. Non esiste un’entità centrale di pianificazione o uno o più responsabili a cui chiedere la disponibilità e l’assegnazione di un grafico, uno sviluppatore o qualunque altra figura. Il responsabile del progetto ha piena libertà, nel limiti del budget condiviso, di pianificare chiunque ritenga utile e adatto e che trovi disponibile; nel caso in cui non riesca in questo può liberamente provare a negoziare con altri peer per un aggiustamento del planning che soddisfi le esigenze dei diversi progetti. Solo in caso non si trovi una soluzione il problema scala per capire come affrontarlo assumendo nuove risorse o esternalizzando alcune attività. Il vantaggio indiretto, ma non secondario, di questo modo di operare è anche di stimolare una collaborazione dato che evidentemente i project manager più disponibili sono spesso quelli che ricevono maggiore flessibilità da parte dei colleghi.

La vista per R&D: le crew

Explorations. Photo by Justin Luebke on Unsplash

Guardando la nostra organizzazione dal punto dei vista del know how invece le cose sono molto diverse. Il budget di formazione, sperimentazione e prototipazione di progetti interni è assegnato a entità auto-costituite che lavorano un anno su filoni che propongono liberamente.

Le regole sono semplici:

  • a inizio anno chiunque, a prescindere dal ruolo e la seniority, può promuovere la costituzione di una crew su un tema che ritiene rilevante esplorare e conoscere
  • per poter presentare una proposta serve un team di almeno tre persone (se non riesci a convincere almeno due colleghi che quella cosa ha senso probabilmente sei fuori strada, o forse tanto avanti …)
  • il team che promuove la crew presenta due pagine scritte con la proposta in cui spiega perché per noi avrebbe senso, in che modo si lega al nostro purpose, un macro piano di lavoro, tre obiettivi misurabili da raggiungere entro l’anno e un budget di tempo e soldi da investire
  • i Tipi (un comitato eletto da tutti) hanno la responsabilità di allocare il budget allocato all’R&D scegliendo quali crew lanciare e quali scartare
  • nel corso dell’anno le crew lanciano i progetti, partecipano a conferenze o corsi e fanno tutto quello che ritengono opportuno, nel rispetto dei limiti delle risorse assegnate
  • a fine anno le crew presentano i risultati del lavoro e poi si sciolgono. Ovviamente possono essere riproposte con l’anno nuovo se la cosa ha senso e c’è motivazione sufficiente

In pratica ognuno ha la possibilità di spostare i nostri confini cambiando cosa facciamo e come operiamo. Per farlo deve volerlo fare, saperlo fare e convincere gli altri a lasciarlo provare. Non poco in realtà. Però non ci sono limiti dettati da posizioni acquisite o anzianità. Solo capacità, idee chiare, motivazione, autorevolezza.

Le persone, l’orientamento e la crescita

Direction. Photo by Brianna Santellan on Unsplash

In un modello dove tutto è fluido e i progetti si montano e smontano senza soluzione di continuità e anche la ricerca e sviluppo si basa su team che durano al massimo un anno bisogna fare attenzione a non perdere dei pezzi per strada. Le aree e i responsabili avevano anche il compito di orientare le persone, farle entrare, garantirne la crescita, dare modelli di riferimento.

Oggi i progetti e le crew possono assolvere solo parzialmente a questo compito e non avendo più unità o aree organizzative abbiamo definito nuovi modi di garantire questi aspetti fondamentali.

Ogni persona può scegliere due figure di riferimento (e cambiarle ogni volta che ritiene opportuno).

La prima figura, a cui abbiamo dato l’originale nome di mentor, ha il compito di aiutare a entrare nella cultura dell’azienda e consigliare su aspetti generali legati alla vita con i colleghi e altre questioni non direttamente attinenti ad aspetti tecnici. In pratica una persona di fiducia a cui chiedere un consiglio.

Lo sponsor, la seconda figura introdotta, ha invece la responsabilità di essere un riferimento per la crescita professionale. È la persona con cui confrontarsi per disegnare un percorso di crescita e da cui cercare feedback e stimoli.

Anche in questo caso non abbiamo inventato nulla di nuovo, ma l’aver disegnato un sistema in cui la responsabilità di scegliere le figure di riferimento è della persona e non dell’organizzazione e l’aver dato la possibilità di cambiarle ogni volta che si ritiene necessario è un cambio di prospettiva che responsabilizza ciascuno a essere un attore protagonista e non una comparsa. Inoltre attiva meccanismi di feedback molto potenti per tutti.

Ma quindi cosa metto su Linkedin?

Open. Photo by Mike Petrucci on Unsplash

perché rimane comunque il tema di potersi raccontare e di saper descrivere il proprio lavoro.

Questo vale per le relazioni con i clienti ma anche con le comunità di riferimento. C’è un orgoglio nel definire il proprio ruolo e la propria professionalità e fa piacere potersi chiamare con una denominazione in cui uno si riconosce.

Ma come fare in un contesto come il nostro in cui non esistono più caselle ed etichette rigide?

Abbiamo deciso di fidarci dell’intelligenza delle persone. Chiunque può autonomamente definire il proprio ruolo (e metterlo su Linkedin) con due piccole regole: almeno due colleghi devono ritenere che sia appropriato e deve essere una descrizione di cosa fai che non includa parole utili principalmente a soddisfare l’ego come Head, Responsabile, Director e simili.

Questi sono i tratti principali del nostro modello. Oggi, HIC et nunc.

In realtà è un cantiere aperto e stiamo continuamente capendo cosa funziona e cosa no e di conseguenza adattando le modalità. L’idea di essere aperti a una logica di iterazione di prototipi in cui non c’è mai la soluzione perfetta perché il contesto cambia di continuo vale per tutto e quindi anche per l’organizzazione.

L’averlo capito è forse il passo avanti più grande che abbiamo fatto finora.

HIC sunt dracones. Photo by Michael Godwin on Unsplash

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Tomas Barazza
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Founder and Managing Partner at H-Farm Innovation / Maize, Founder at WETHOD