Remote working

Prime riflessioni su un esperimento sociale estremo

Tomas Barazza
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7 min readApr 16, 2020

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Coverart by Carlo Bosco, multiple sources

La prima cosa che mi viene sempre da pensare quando parliamo di smart working è che raramente ho trovato un nome meno centrato.

Perché lo chiamiamo smart?
Perché siamo smart se lo adottiamo come azienda? Magari perché risparmiamo sui contratti di locazione.
O perché se l’azienda ci consente di farlo produciamo individualmente e collettivamente un risultato migliore come se fossimo più smart?
E se è così perché non facciamo così sempre tutti? (quelli che possono ovviamente, visto che per saldare un tubo occorrerà sempre essere li dov’è il tubo; al limite un giorno lo butteremo e ne stamperemo uno nuovo da casa ma fino a quel momento il saldatore non riesce a lavorare da remoto).

Lavorare da remoto. In realtà si tratta più che altro di questo: abilitare un team a lavorare a distanza e in modo distribuito.
Non stiamo parlando degli elementi basici della comunicazione in remoto, quelli sono sdoganati da un sacco di tempo, per la stragrande maggioranza delle aziende: videoconference, documenti in cloud, strumenti di comunicazione evoluti.
Parliamo invece di funzionare in remoto come team, senza compromettere qualità, creatività, socialità e produttività.
Non c’è dubbio che il remote working in piccole dosi sia facilmente adottabile da qualunque organizzazione (anche perché il rischio di inefficienza è contenuto e compensato dalla stragrande maggioranza che continua a lavorare in presenza).
Però passando da un 20% di persone che adotta il remote working un giorno a settimana al 100% che lo fa 5 giorni su 5, la complessità di interazione e il rischio di entropia cresce esponenzialmente.
Lo abbiamo visto tutti in questi giorni di quarantena forzata in cui la maggior parte delle persone hanno dovuto in un attimo imparare ad interagire esclusivamente e continuamente da remoto. Il commento più frequente che che ho sentito è stato:

“oggi sono passato da una call all’altra per tutta la giornata”

Con l’aggiunta di una piccola differenza per una cultura come la nostra, abituata a sforare senza grandi difficoltà gli appuntamenti e a considerare normali i quindici minuti accademici di ritardo all’inizio di ogni incontro.
Oggi tutto questo risulta socialmente inaccettabile e impossibile da non correggere, tanto che stiamo diventando tutti svizzeri:

“scusa devo chiudere, tra 2 minuti ho un’altra call:”

Credo che questi primi giorni di esperimento sociale estremo che stiamo vivendo, più di telelavoro forzato che di remote working, ci siano serviti per comprendere, riflettere e calibrare il modo in cui lavoriamo. E che sia giusto oggi iniziare a porsi il tema di come aggiustare il tiro e rendere più efficace e sostenibile una nuova modalità di interazione. Anche perché è probabile che, in forme variegate e intensità variabili, questa modello di lavoro ci dovrà forzatamente accompagnare ancora per un po’.
Per questo ho iniziato a pormi qualche domanda per provare a tirarne fuori del valore e ragionare sull’effetto che ne deriverà. Vedremo tra qualche mese e anno come andranno veramente le cose e se queste riflessioni hanno in qualche modo toccato dei temi rilevanti.

La prima questione che mi pongo è se abbia ancora senso un orario di 8 ore di lavoro. E che questo sia sincronizzato con 8 ore lavorative per il team o l’azienda (al netto della differenza nei fusi orari).

Le 8 ore di lavoro ce le portiamo dietro dai tempi dell’invenzione delle fabbriche. Una necessità per sincronizzarci con gli impianti che dettavano il ritmo. In un fenomeno di path dependence, tutto ha iniziato a tararsi su quella scansione temporale: trasporti, scuole e l’intera vita per la maggior parte delle persone.

Antique photograph of the British Empire: Lancashire cotton mill

Col tempo il significato delle 8 ore è evoluto molto spesso nella necessità di controllare la presenza per indurne una certa produttività:

“ci sei, quindi lavori, quindi produci, quindi ti pago”

Nelle realtà più evolute è dettato anche e soprattutto da una necessità di coordinamento del lavoro: per fare un meeting serve essere presenti entrambi; se uno lavora il mattino e uno il pomeriggio, diventa difficile incontrarsi.

Però ci dovrebbe essere un altro modo di definire e riconosce la produttività che non sia la presenza. E ci potrebbero essere modi diversi di condividere che non siano il meeting o la videochiamata.

Ma per misurare la produttività e lasciare autonomia agli individui di agire serve competenza dei manager (devo sapere cosa devi fare e cosa comporta e vale quello che fai), serve fiducia nelle persone (e questo purtroppo è tipicamente una profezia che si auto-avvera, più mi fido più le persone meritano la fiducia e viceversa), e serve appartenenza (le persone devono credere in quello che fanno e perché lo fanno). In questi giorni il nostro team, composto di un centinaio persone, è distribuito in 100 location diverse e io non so bene chi sta lavorando quando e quanto. Ma non sono preoccupato (non di questo perlomeno, lo sono di un sacco di altre cose). Non temo che qualcuno sia opportunista o poco concentrato a fare del suo meglio per contribuire a trovare delle possibili strategie per rimediare a questa situazione di crisi.

E la condivisione non deve per forza passare per comunicazione sincrona. Una buona parte della conversazione può viaggiare su canali asincroni, meno isterici, dove confrontarsi e prendere decisioni. Ma anche per questo servono protocolli condivisi, regole del gioco e una cultura e un rispetto reciproco che vanno coltivati ancora di più di quando si sta in ufficio. Serve anche fiducia e capacità di delega. Non solo dal capo al membro del team, ma anche trasversalmente. Serve capire che dobbiamo distribuirci e fidarci delle decisioni dei colleghi e delegare loro alcune decisioni (molte) e che restare nel loop non significa che tutti dobbiamo condividere tutto (ecco una ricetta semplice per ridurre drasticamente il numero di call).

Il secondo tema che mi fa riflettere riguarda come bilanciare il lavoro con la vita privata quando non ci sono confini.

È strano in questi giorni entrare costantemente nella quotidianità e nel privato della vita degli altri. In qualche modo lo cerchiamo, rispettiamo e apprezziamo perché è una situazione di emergenza che ci fa sentire uniti. Ma alla lunga non può funzionare.

Photo by Carl Heyerdahl on Unsplash

Lavorare in remoto renderà necessario rispettare meglio questi confini e gestire situazioni personali ed esigenze diverse delle persone. Servirà un pensiero organizzativo che consenta di coniugare sincronicità e flessibilità di lavoro dei singoli.
Ritorna il tema delle ore di lavoro, di valutarne il valore, della loro distribuzione e della capacità di garantire forme di comunicazione asincrona.

Il terzo aspetto su cui rifletto è il peso sempre maggiore della cultura di un’organizzazione e di cosa questo implichi.

Mai come oggi ci rendiamo conto di quanto la cultura di un’azienda sia l’elemento più importante per il successo (o in questo caso la sopravvivenza dell’azienda). La cultura si coltiva in molti modi: la qualità delle persone è fondamentale certo, ma ci sono anche altri aspetti che contribuiscono come le logiche di governance (le decisioni, i sistemi premianti impliciti ed espliciti), lo stile, la frequenza e i canali di comunicazione.
Conta molto anche la socialità: creare uno spirito di squadra passa anche attraverso la conoscenza e l’empatia. Che beneficia molto del rapporto informale e in presenza delle persone. Il caffè, i pranzi, sono elementi fondavi fondamentali. Come possono essere rimpiazzati?
Come lasciare degli spazi, informali, teoricamente improduttivi (nel senso tradizionale del termine) ma importanti per legare il team quando si opera in remoto.

Photo by Clay Banks on Unsplash

Un’iniziativa veloce che abbiamo realizzato e che si sta dimostrando estremamente efficace (al punto che le persone hanno deciso di portarla avanti anche nei weekend) è una sfida pensata, proposta e gestita autonomamente e lanciata a tutti. Ogni giorno una sfida diversa come ad esempio una ricetta, un disegno, una playlist, un video o una poesia condivisi in un canale. Una cosa semplicissima che sta facendo molto per legare tutti e che è ben raccontata qui.
Questo però implica accettare che qualcuno prenda del tempo anche per fare queste cose e rispettarne la capacità di giudizio e di bilanciamento con le urgenze, i progetti e il lavoro.
Nel momento in cui il lavoro entra pesantemente nella vita privata e la invade, dobbiamo accettare che le persone trovino un po’ di spazio dentro il lavoro per mantenere la dimensione più legata alla socialità e alla persona.

Altre domande invece sono ancora li appese e non ho ancora maturato una riflessione in proposito.

Come usciremo da questo mega esperimento? Faremo più o meno remote working di prima? Avrà convinto? Deluso? Stancato?
Sarà sempre guidato dalla burocrazia (1 giorno alla settimana predefinito e richiesto attraverso complicati sistemi HR) e dell’opportunismo di salvare costi di real estate (il vero driver finora)?
Cambierà il nostro concetto di produttività anche per chi lavora in presenza?
Rivedremo gli orari di lavoro? E per chi lavora in ufficio?
Cambieremo il modo di comunicare? E gli strumenti? E per chi lavora in ufficio?
Cambierà il modello che assimila la quantità e le long hours alla dedizione? Chi viene dalla consulenza sa bene le notti in ufficio (anche quando non è necessario). Ma in generale l’essere always on. Diventeremo più nordici? Più capaci di segmentare il lavoro, non solo come orario, ma in generale riservando blocchi di tempo in cui ci si sente in diritto di non essere connessi?

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Tomas Barazza
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Founder and Managing Partner at H-Farm Innovation / Maize, Founder at WETHOD