Anni azzurri

L’identità italiana e la nazionale di calcio tra il 1978 e il 1982

Uno-Due
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13 min readNov 30, 2017

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di Daniele Serapiglia

Milano, estate 1982.

Cos’é stata e cos’ha rappresentato La Nazionale in uno dei periodi più critici della recente storia italiana, e quanto possiamo imparare da quell’esperienza.

La Notte della Repubblica
Il quarto posto degli azzurri nei mondiali di Argentina del 1978 e la vittoria in quelli di Spagna del 1982 avvicinarono gli italiani alla nazionale di calcio, tanto che quest’ultima divenne una delle icone più rappresentative dell’identità italiana degli anni ’80. Nel decennio considerato di “Panna Montata”, come lo avrebbero definito Papa e Panico, il calcio fu il simbolo di una rinnovata quanto effimera pulsione nazionalista, risvegliata dopo quasi quarant’anni di oblio, poiché precedentemente sinonimo di fascismo.

Ad agevolare questo processo fu soprattutto il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, durante il settennato del quale nel nostro paese l’orgoglio nazionale trovò nuove modalità rappresentative e differenti modelli narrativi. «Siamo due fumatori di pipa e gli ho detto che bruci nel fornello […] le sue amarezze e le sue delusioni. Vincerà sempre lui». Così Pertini svelava ai giornalisti i consigli che aveva dato a Enzo Bearzot, il 9 luglio 1982, poco dopo che gli azzurri avevano conquistato la coppa del mondo. Poiché parte integrante della nostra memoria collettiva, appare inutile raccontare le gesta di quella squadra: l’inizio stentato del mondiale, le prodezze di Rossi, le scorribande sulla fascia di Bruno Conti, la maglia di Maradona a brandelli e i suoi pezzi nelle mani di Gentile, ma anche la sicurezza di Dino Zoff e il magnifico urlo di “schizzo” Tardelli, che avrebbe segnato per sempre non solo l’iconografia di quell’evento, ma anche quella dell’Italia degli anni ’80.

L’immagine delle ceneri del tabacco consumato nelle pipe del “compagno Pert”, come chiamava Andrea Pazienza il presidente, e del “Vecio”, come era apostrofato Bearzot dai conoscenti, in virtù dei suoi natali friulani. In quel fornello, infatti, metaforicamente venivano bruciate una serie di tensioni. Se per il tecnico azzurro queste erano legate alle brutte figure della nazionale, collezionate durante i primi incontri del torneo spagnolo, le preoccupazioni del presidente erano connesse alle cattive condizioni di salute dell’Italia. In quegli anni, le tenebre sembravano aver avvolto lo Stato e le sue istituzioni, tanto che Sergio Zavoli aveva ideato e condotto una trasmissione denominata La notte della Repubblica.

Quest’ultima, andata in onda tra il dicembre del 1989 e l’aprile del 1990, descriveva la spirale di violenza politica che si era sviluppata tra il 1969 e il 1989 e che aveva raggiunto il suo apice nel quadriennio 1978–1982. Come sul bordo del pozzo che nel 1981 aveva inghiottito il povero Alfredino Rampi, Pertini si trovava sull’orlo di un baratro dove sembravano essere caduti tre principi fondamentali come la giustizia, l’eguaglianza e la fraternità. Di conseguenza, anche l’unità nazionale sembrava smarrita, mentre l’idea di italianità era spesso confusa con termini quali: corruzione, criminalità, inaffidabilità. A circa 120 anni dall’unità d’Italia, il sentimento nazionale era stato annichilito dalle stragi ordite dall’eversione nera, ma anche dall’incapacità di farsi valere in ambito internazionale (che il DC-9–15 dell’Itavia fosse stato abbattuto il 27 giugno 1979 da un missile durante una sorta di battaglia aerea pare lo sapessero in molti). Lo scandalo della P2, nel 1981, aveva, poi, buttato un’ombra inquietante sulle istituzioni, a causa della presenza di uno gruppo di potere che influenzava stampa, politici, vertici militari, imprenditori, ma anche esponenti dei mondi dello spettacolo e della finanza, al fine dell’attuazione di un sedicente Piano di rinascita democratica, che di democratico aveva ben poco. Si facevano giornalmente i conti con il fenomeno brigatista che, se il 9 maggio del 1978 era costato la vita a Moro, aveva mietuto anche vittime meno illustri come il sindacalista Guido Rossa. La criminalità organizzata aveva dato vita a un’escalation di violenza: nell’81 era iniziata la prima guerra di mafia in Sicilia, mentre in Campania, a partire dal ’78, era in atto un feroce conflitto tra la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e la Nuova Famiglia. La banda della Magliana cercava di “prendersi Roma”, mentre Milano conviveva ogni giorno con i suoi gangster. Sullo sfondo si intravedeva un paese sommerso da ingenti quantitativi di eroina, che stavano intossicando una corposa fetta delle nuove generazioni. Dove non era presente l’uomo, poi, ci pensava la natura a creare danni: il 23 novembre 1980 un terremoto aveva devastato l’Irpinia, mietendo 2.914 vittime.

Il Pert
Proprio Pertini aveva denunciato le gravi mancanze dello Stato solo dopo poche ore dal sisma, chiedendo che in Irpinia non succedesse quello che era accaduto in Sicilia. Nel 1968, infatti, alcuni comuni della Valle del Belice erano stati distrutti da un sisma altrettanto potente e, ancora nel 1980, poco era stato fatto per la loro ricostruzione. Parlando dei due sismi, Pertini dichiarò: «l’infamia peggiore per me è quella di speculare sulle disgrazie altrui, quindi non si ripeta, per carità, quanto è successo nel Belice, perché sarebbe un affronto non solo alle vittime di questo disastro sismico ma sarebbe un’offesa che toccherebbe la coscienza di tutti gli italiani, di tutta la nazione». Sebbene sappiamo come, purtroppo, sia andata a finire in Irpinia, questo episodio ci indica in che modo il capo dello Stato si presentasse agli Italiani. Il vecchio partigiano si mostrava ai cittadini in maniera differente dai suoi predecessori. Durante i discorsi di fine anno appariva in TV seduto su una poltrona, in un atteggiamento di tipo familiare che poi sarebbe stato emulato da altri suoi successori. Seppur ateo, egli si mostrava in momenti conviviali con papa Wojtyla, il quale stava cercando di ricostruire dei ponti tra la Chiesa e la società, che si erano allontanate durante il pontificato di Paolo VI. Il presidente, poi, amava rivolgersi ai giovani, dicendo di credere nelle loro potenzialità e chiedendo alla classe politica di creare maggiori possibilità occupazionali, rappresentando il lavoro il miglior deterrente «contro la piaga della droga e del terrorismo». Nei suoi discorsi, infine, il presidente richiamava ai valori della nazione e del popolo italiano.

«Siamo due fumatori di pipa e gli ho detto che bruci nel fornello […] le sue amarezze e le sue delusioni. Vincerà sempre lui». Così Pertini svelava ai giornalisti i consigli che aveva dato a Enzo Bearzot, il 9 luglio 1982, poco dopo che gli azzurri avevano conquistato la coppa del mondo.

Sarebbe però scorretto dipingere Sandro Pertini come un nazionalista, visti i suoi continui elogi all’unità europea e ai suoi valori. È vero, d’altro canto, che egli si adoperò per costruire una nuova simbologia nazionale, che avrebbe costituito la base della “comunità immaginata” italiana degli anni ’80. Con Pertini, infatti, si riscoprì la necessità di dare una nuova rappresentazione dell’Italia e dell’italianità sia in patria, sia all’estero: una pratica che era stata abbandonata dopo la fine del fascismo. Con la caduta di Mussolini, infatti, tutti i simboli che richiamavano al nazionalismo avevano perso valore e il discorso di parte (cattolico o ateo, democristiano o comunista, ma anche socialista, repubblicano, missino ecc.) aveva preso il sopravvento su quello nazionale. Con Pertini si cominciò a riscoprire il culto della bandiera e anche un italico orgoglio che si sarebbe espresso non tanto nella politica quanto in altri ambiti quali la produzione italiana e lo sport, in particolare il calcio.

All’inizio degli anni ’80, la nostra serie A stava diventando “il più bel campionato del mondo”, per la presenza dei migliori giocatori del globo.

I giorni dorati del Made in Italy
Se il made in Italy conquistava il mondo occidentale con le sue macchine di lusso e i prodotti di alta moda, all’inizio degli anni ’80, la nostra serie A stava diventando “il più bel campionato del mondo”, per la presenza dei migliori giocatori del globo. Nel 1979, infatti, erano state riaperte le frontiere ai giocatori stranieri, i quali, grazie a lauti compensi, avevano scelto il nostro paese per la loro attività di club. Anche la nazionale stava riuscendo a riscaldare il cuore dei tifosi. Se dopo anni di freddezza gli italiani si erano riavvicinati agli azzurri, come suggerisce Nicola Sbetti, dopo la vittoria del campionato europeo del 1968 e, soprattutto, dopo la folgorante semifinale del mundial di Mexico ’70 vinta contro la Germania, il bel gioco espresso dalla squadra allenata da Bearzot, durante i mondiali del 1978, aveva fatto innamorare della nostra selezione gran parte dei calciofili italiani. In Argentina, una squadra spavalda aveva messo in apprensione le più forti partecipanti al torneo, riuscendo perfino a sconfiggere i padroni di casa dell’albiceleste nel girone di qualificazione. Solo due tiri da lontano degli olandesi Brandts e Haan l’avevano tenuta fuori dalla finale e altri due gol dei brasiliani Nelinho e Dirceu le aveva negato il terzo gradino del podio. In Italia, le gesta di quella nazionale avevano portato in piazza migliaia di tifosi e il tricolore era tornato a tingere di rosso, bianco e verde le strade delle nostre città. In un anno tanto tragico per la nostra Repubblica come il 1978, la volontà degli italiani di festeggiare insieme le vittorie degli azzurri erano il sintomo della volontà di far diradare la nebbia che aveva avvolto il bel paese: un’operazione che appariva impossibile e assurda, tanto quanto la proposta di quel telespettatore che la notte del 20 gennaio 1978 aveva chiamato in diretta Enzo Tortora, durante la trasmissione Portobello, proponendo di demolire una parte delle Alpi per far “sfogare” la nebbia che da sempre affiggeva la Val Padana.

Per anni si è pensato che la fine degli anni ’70 e tutti gli anni ’80 siano stati caratterizzati da una rinuncia alla vita sociale e che l’individualismo avesse preso il posto della tendenza alla vita collettiva. Questa analisi, però, appare approssimativa.Se è vero che negli anni ’80 molte persone avevano abbandonato la militanza partitica, è anche vero che tra queste ultime tante esplicitavano la propria socialità in altri ambiti. Non è un caso che gli italiani investissero di più nelle attività legate allo spettacolo e allo sport. Proprio il 1978 vide un picco delle spese legate a questi due settori, che per alcuni commentatori dell’epoca erano considerati effimeri; come effimera era considerata l’Estate Romana: l’invenzione di Renato Nicolini, che attraverso il linguaggio dello spettacolo aveva riportato nelle piazze e nelle strade della capitale migliaia di persone. L’idea nicoliniana avrebbe in seguito influenzato la politica del ministro alla cultura francese Jack Lang, e di riflesso l’azione del sindaco di Madrid Enrique Tierno Galván, sotto l’ala protettiva del quale si sarebbe sviluppata la movida. La voglia di aggregazione veniva dunque espressa in modi differenti dalla politica, consumata dalle vicende di cui abbiamo parlato in precedenza e di cui Pertini sembrava più il giustiziere che l’espressione. Anche il calcio rientrava in questo contesto e l’affezione nei confronti della propria squadra di club e delle nazionale creavano lo spazio per l’affermazione di una nuova dimensione sociale che poteva essere espressa attraverso il tifo. Non è un caso che anche l’aggressività trovasse dei nuovi sfoghi. Se riflettiamo bene possiamo notare come, a partire dalla fine degli anni ’70, al declino della violenza politica si contrapponesse la crescita di quella negli stadi, praticamente sconosciuta fino alla morte nel 1979 del tifoso della Lazio Vincenzo Paparelli.

Riflesso della società
Ma che tipo di società era quella che si affacciava sugli anni ’80? I bambini erano passati, per dirla con una battuta, da Calimero a Goldrake, che era stato mandato in onda per la prima volta nel 1978 sulla finalmente quadricromatica TV italiana. L’arrivo di “Ufo Robot” nel nostro paese avrebbe aperto la strada all’approdo in Italia di una valanga di anime giapponesi, che avrebbero per sempre cambiato il linguaggio narrativo delle trasmissioni rivolte ai più piccoli e di conseguenza lo stesso immaginario collettivo di questi ultimi. Anche in ambito musicale si stava assistendo a un importante mutamento nei gusti degli italiani. Se gli anni ’70 avevano imposto canzoni impegnate nei testi e nelle musiche, alla fine del decennio quelle che erano considerate canzonette stavano trovando nuovo spazio. In testa alle classifiche, infatti, erano presenti motivi dai ritmi leggeri, che supportavano testi per nulla impegnati. Se nel 1978 i singoli più venduti erano Stayin’ Alive dei Bee Gees, una Donna per amico di Battisti, ma anche Wuthering Heights di Kate Bush e Tu di Umberto Tozzi, nel 1982 al comando delle classifiche si alternavano Der Kommissar di Falco, Paradise di Phoebe Cates o Reality di Richard Sanderson. Nelle discoteche, infine, nello stesso anno si ballava sulle note di Bravo Muchachos di Miguel Bosè, meglio conosciuta in Italia con il titolo di Bravi Ragazzi. Mai come quell’anno, Miguel Bosè avrebbe rappresentato l’anello di congiunzione tra Italia e Spagna, visto che era figlio del grande torero Dominguín e della bellissima attrice nostrana Lucia Bosè e “Bravi ragazzi” erano quei giocatori della nostra nazionale che in patria stavano diventando icone non solo in ambito calcistico ma anche in ambito estetico: i giovani facilmente si identificavano con il bell’Antonio Cabrini o con l’affascinante Fulvio Collovati. Su questi due campioni, come sugli altri venti giocatori della nazionale erano riposte, però, anche le speranze calcistiche di una nazione intera e del suo presidente, per la vittoria di una coppa del mondo che mancava nella bacheca azzurra da 44 anni.

L’inaugurazione del Mondiale di Spagna con la Paloma di Picasso. Era il 13 Giugno 1982 al Camp Nou di Barcellona

Iniziato con un omaggio alla pace (stava volgendo al termine la guerra delle Falkland), rappresentata, durante la cerimonia inaugurale andata in scena al Camp Nou, da una coreografia umana che avrebbe formato al centro del campo la Paloma di Picasso, il mundial di Spagna si apriva per noi con un rito propiziatorio oggi dimenticato, ma con un’importante valenza simbolica. A Barcellona, infatti, durante la cerimonia inaugurale, vennero esposte le bandiere delle sei nazioni che negli anni si erano laureate campioni del mondo. Ad accompagnare ogni bandiera c’era un giocatore che aveva fatto parte di quelle storiche compagini. Per rappresentare l’Italia, vittoriosa nel 1934 e nel 1938, avrebbe sfilato Giovanni Ferrari. Quest’ultimo aveva vestito la maglia azzurra in entrambe quelle edizioni del mondiale, quando vincere significava primeggiare non solo per l’Italia, ma anche per il fascismo, tanto che il calcio era parte integrante della mitologia politica del regime. L’inizio stentato degli azzurri nel girone di qualificazione non aveva fatto presagire un buon esito per Bearzot e i suoi. Quando, però, arrivò prima la vittoria con l’Argentina per 2–1 e, successivamente, quella per 3–2 con il Brasile, si cominciò seriamente a pensare che l’Italia potesse laurearsi nuovamente campione del mondo. In ambito politico, il primo a percepire l’importanza di quelle vittorie fu Giovanni Spadolini. L’esponente repubblicano, durante i giorni del mondiale presidente del Consiglio, da storico del risorgimento quale era, percepiva l’importanza per lo Stato dell’entusiasmo collettivo che si stava creando intorno alla nazionale. A fare, però, degli azzurri un simbolo della nuova Italia, fu Sandro Pertini. Dopo alcuni tentennamenti iniziali, il presidente, su invito del re Juan Carlos, l’11 luglio si recò a Madrid per assistere alla finale tra Italia e Germania Ovest, a cui gli uomini guidati da Enzo Bearzot erano giunti sconfiggendo in semifinale la Polonia di Zibì Boniek. Seduto vicino al re e a pochi metri dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt, Pertini cominciò a esultare come un agguerrito supporter fino alla terza rete di Altobelli, quando, girandosi verso Antonio Maccanico, disse: «Non ci riprendono più!».

Seduto vicino al re e a pochi metri dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt, Pertini cominciò a esultare come un agguerrito supporter fino alla terza rete di Altobelli, quando, girandosi verso Antonio Maccanico, disse: «Non ci riprendono più!».

Quei gesti, quella genuinità resero il presidente protagonista di quel match tanto quanto gli atleti. Le immagini successive del rientro dei giocatori azzurri in Italia con Pertini sull’aereo presidenziale, la partita a scopone tra il capo dello Stato, Bearzot, Causio e Zoff ricollegarono definitivamente la nazionale di calcio con il popolo italiano, rendendola il simbolo più fulgido di una vera rinascita nazionale: una luce oltre il buio degli anni di piombo. Ad accogliere in patria i nuovi campioni del mondo c’erano migliaia di persone entusiaste, che sembravano partecipare a una festa che sarebbe durata 8 anni.

Marco Tardelli, Italia-Germania 3–1, Stadio Santiago Bernabeu, Madrid 11 Luglio 1982, ore 20,00.

Il declino
Se, infatti, il titolo mondiale venne perso in Messico nel 1986, si era certi che sarebbe stato riconquistato a Italia ’90. Così non fu, e il mondiale nostrano venne più associato alla fine della I Repubblica, che si sarebbe consumata tra il 1992 e il 1993 con tangentopoli, piuttosto che alla definitiva riappropriazione da parte degli italiani di un nuovo sentimento nazionale. Con i mondiali del 1982, però, pareva che si stesse creando una nuova narrativa simbolica del nostro paese, che era volta a produrre nel popolo un nuovo senso di appartenenza alla madre patria. Tale senso di appartenenza sembrava finalmente privo di quell’imbarazzo dovuto all’identificazione dell’esaltazione della patria con il passato regime fascista. Pertini, indubbiamente, cercò di agevolare questo processo, come successivamente fecero i governi che si alternarono negli anni ’80 e che videro nel Partito socialista di Bettino Craxi una spinta propulsiva per la presentazione in Europa e nel Mondo di una nuova immagine dell’Italia. In questo senso, tra il 1982 e il 1990, il calcio avrebbe avuto un ruolo fondamentale attraverso il campionato di serie A, che era costituito da squadre zeppe di campioni come Zico, Platini, Maradona, Gullit o Van Basten e che, di conseguenza, incantava i calciofili di tutto il mondo.

A febbraio del 1990, però, era morto Sandro Pertini: un evento che metaforicamente segnò l’inizio del declino di quell’unità sentimentale tra gli italiani e il proprio paese che non sarebbe più stata raggiunta negli anni successivi.

Questa supremazia italiana, cominciata con la vittoria degli azzurri nel mondiale spagnolo, era stata coronata nel 1990 dall’affermazione delle nostre squadre di club in tutte le competizioni europee per club. Se la Juventus, infatti, aveva vinto la coppa Uefa, la Sampdoria si era imposta nella coppa delle coppe e il Milan in quella dei campioni. A febbraio del 1990, però, era morto Sandro Pertini: un evento che metaforicamente segnò l’inizio del declino di quell’unità sentimentale tra gli italiani e il proprio paese che non sarebbe più stata raggiunta negli anni successivi. Le elezioni del 1992, infatti, videro, per la prima volta, l’affermazione di movimenti come la Lega Lombarda, che proponevano una riforma federalista dello Stato e, successivamente, avrebbero proposto la secessione delle regioni del Nord dalla stessa penisola. Bearzot avrebbe seguito Sandro Pertini 20 anni più tardi, non prima, però, di aver assistito a un altro trionfo mondiale degli azzurri. Nel 2006, infatti, l’Italia guidata da Marcello Lippi si aggiudicò la coppa del mondo in Germania. Quella vittoria, però, non riuscì a produrre un rinnovato sentimento di unità nazionale, tanto da non dare vita a una nuova narrazione simbolica della nazione così come era avvenuto nel 1982. L’urlo di Fabio Grosso dopo il rigore che ci ha consegnato la coppa del Mondo nel 2006 è oggi solo una eco lontana, quello di Tardelli, di 24 anni prima, ancora rimbomba nelle case di gran parte degli italiani.

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