Dall’Altra Parte della Coppa

Come si vivono i 4 anni quando ci si è fermati a un passo dal traguardo?

Uno-Due
Uno-Due
6 min readJan 12, 2017

--

Di Paolo Galassi

Il sogno sfumato di un popolo irrazionale e patriottico, diviso dalla storia e unito in nome del fútbol. Il tormentato cammino della selezione albiceleste verso la maturità. Tra nuovi talenti, senatori e il semi-dio Messi, il Tata Martino dovrà gestire una dolorosa ma necessaria ricostruzione.

Foto di Filippo Fiorini

La sera del 13 luglio 2014 la rete di Mario Götze al Maracanã di Rio de Janeiro tagliava le gambe al sogno argentino, avvolgendo il paese in una spirale di amarezza e delusione: in una malinconica domenica sera d’inverno. «Nessuno è del tutto argentino senza un buon fallimento, una frustrazione piena, intensa, degna di una pena infinita». La profezia di Osvaldo Soriano si avverava di nuovo, calando su Buenos Aires quel triste sipario di stelle che tanto la rende adatta ai lamenti del tango.

Quella sera, la gente si è riversata ugualmente per le strade della capitale per festeggiare la fine quasi perfetta di quell’intenso mese di febbre mundial: in fondo, la sconfitta con i panzer di Joachim Löw non era sembrata netta né tantomeno impietosa, come lo era stata invece per il Brasile, in semifinale. A sole poche ore dall’umiliante 7 a 1 di Belo Horizonte — questo il curioso nome della Waterloo carioca — molti dei tifosi locali vestiranno senza pudore né orgoglio lo schwarz-rot-gold tedesco, pur di non vedere Messi e compagni trionfare in casa loro, nel tempio del fútbol sudamericano.

Brasil, decíme que se siente, «dimmi cosa si sente adesso che papà è tornato a casa»: in assenza di trionfi reali — l’ultimo, la Coppa America del ’93 — gli hinchas argentini, noncuranti dell’invidiabile palmarès verde-oro, non hanno mai smesso di invocare la loro presunta ‘paternità’ nei confronti degli eterni rivali, celebrando sulle note di Bad Moon Rising dei Creedence Clearwater Revival — adottata anni prima dai tifosi del San Lorenzo per incitare il ciclone di Boedo — le gambetas di Diego e la “puntura” di Caniggia in quei gloriosi ottavi di finale di Italia ’90.

Il destino si sarebbe ripetuto 24 anni dopo la finale di Roma, decisa da un rigore di Brehme tanto frustrante quanto la prodezza di Götze. Stesse divise bianche e blu di allora — i più scaramantici, su queste sponde, avevano storto il naso al momento del sorteggio — e stesso epilogo: tragico per gli sconfitti, indisponente sia per i neutrali più cinici, che dopo Argentina-Olanda già pregustavano un’altra roulette di rigori, sia per coloro contrari all’idea che una nazionale europea riuscisse nell’inedita impresa di conquistare un mondiale in terra americana. Pechos frios, “cuori freddi”, sarebbero poi stati definiti, sul Rio de la Plata, quei teutoni efficienti e infallibili nel tessere geometrie al volo dopo 120 minuti di fatica, ma visibilmente a disagio al momento di festeggiare una vittoria che solo le ragioni del cuore impediscono di definire meritata.

L’Argentina e il suo popolo, questa volta, ci avevano creduto davvero: «Remare tutti nella stessa direzione» era lo slogan con cui la televisione pubblica nazionale dava fiato all’orgoglio patrio, ad ogni fine primo tempo, trasmettendo immagini di treni efficienti, ospedali immacolati e famiglie felici. Biondi con gli occhi chiari come Lucas Biglia, o scuri, scarni e tatuati come Di Maria: la variegata umanità che durante il Mundial ha riempito le piazze o improvvisato salotti urbani, con tanto di televisione e divano sul marciapiede, è lo specchio di una società storicamente conflittuale, attraversata da profonde disparità economiche ma capace di commuoversi di fronte a un miracolo di Romero o di riscoprirsi solidale nel nome di Mascherano.

Il fútbol, l’elemento culturale che attraversa il paese da nord a sud; la Selección quello che, periodicamente, lo unisce. Nell’oscurità dei caffè, durante le partite del primo pomeriggio, allungavano le loro pause pranzo i ragazzini sporchi di farina impiegati nei negozi di pasta fresca, eleganti e attempate signore paragonavano i mediatici addominali di Lavezzi con quelli di Mario Kempes, mentre furtivi corrieri si concedevano in incognito generosi litri di birra, finendo per mescolare raccomandate e bollette mai giunte a destinazione, romantica e letteraria inefficienza figlia del pallone. Togliere loro la speranza della vittoria a pochi secondi dalla fine, è sembrata un’ingiustizia. Vederli invadere pacificamente Buenos Aires con fischietti, tamburi e bandiere per festeggiare un più che dignitoso secondo posto, una squisita sorpresa. Accorgersi due ore più tardi che il centro della città era stato messo a ferro e fuoco, inevitabile e, forse, prevedibile.

Ora o mai più

Eppure, se è vero che non tutti i mali vengono per nuocere, potrebbe non essere del tutto fuori luogo ribadire che, talvolta, alcune sconfitte possono insegnare più delle vittorie. Il tanto atteso titolo mondiale avrebbe infatti significato, almeno per l’Argentina calcistica, dimenticare gran parte delle critiche piovute sulla nazionale di Alejandro Sabella alla vigilia del torneo e annegare, nel dolce oblio patriottico, i tanti dubbi avanzati da più parti sulle qualità di Romero, sulla difesa lenta e non collaudata, sull’autorità del DT all’interno del gruppo e sull’assenza di un’alternativa alle scorribande e all’ispirazione di Lionel Messi. Con il successo in extremis sulla Svizzera, la cauta modestia emersa durante il semplice — ma a tratti sofferto — girone di qualificazione, aveva lasciato spazio a un incondizionato ottimismo, accompagnato da un assai diffuso sentimento di predestinazione al trionfo: tanto il palo colpito a tempo scaduto da Dzemaili agli ottavi, come quello centrato da Benedikt Howedes nel primo tempo della finale, venivano allora catalogati a furor di popolo come segni dell’inequivocabile volontà del Dio Pallone: la suerte del campeon, “la fortuna del campione”. Perdendo la finale di Rio, l’Argentina — a differenza dell’Italia del 2006 — si è trovata dolorosamente costretta a rimanere con i piedi per terra, acquistando maggiore consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri limiti.

«Ora o mai più», il frequente commento che alludeva all’avanzata età media dell’albiceleste e all’ultimo mondiale con il potente ‘padrino’ Julio Grondona alla guida dell’AFA, artefice, secondo alcuni, del più favorevole dei sorteggi possibili. «Ora o mai più» si è mormorato con disperazione prima degli errori di Higuain, Messi e Palacio di fronte a Neuer, in quella domenica di luglio in cui in molti, se non tutti, hanno pregato invano per la ‘maradonizzazione’ di Lionel, implorando la Pulga di condurli al trionfo come Diego nell’86.

Grande consenso avevano pertanto riscosso, tra i partitari di tale carpe diem, le affermazioni di Enrique Macaya Marquez, ottuagenario cronista sportivo argentino presente a 15 mondiali consecutivi dal lontano 1958, che alla vigilia della semifinale con il Belgio aveva parlato di grande “opportunità” tanto per la squadra quanto per l’intero paese. Nell’enfasi del momento, in pochi hanno pensato che il riconosciuto e stimato giornalista potesse far riferimento a un concetto ben più ampio della puntuale, per quanto imperdibile, opportunità di tornare ad essere campioni del mondo.

I fantastici quattro

In Brasile, le incertezze emerse con Bosnia e Iran hanno prodotto i cambi e le correzioni di un Sabella coerente ma disposto all’autocritica — più con fatti che con parole — che ai così detti “fantastici quattro” — Messi, Di Maria, Aguero e Higuain — aveva preferito affiancare forse non i “migliori” in circolazione, ma coloro con i quali aveva avviato il proprio progetto, i vari Romero, Rojo, Garay, Perez, Biglia e Lavezzi che nei momenti più delicati lo hanno ripagato con sorprendente affidabilità.

Dall’alto di quel secondo posto, paradossalmente molto più doloroso di un terzo, l’Argentina ha dimostrato di aver finalmente forgiato un gruppo, l’unità fondamentale che era sembrata mancare alle precedenti gestioni di Basile, Maradona e Batista, e che ora costituisce, con le dovute modifiche ed eccezioni del caso, il prezioso punto di partenza del “Tata” Martino. Forse con meno spettacolo, ma con più concretezza e solidità di quanto ci si potesse aspettare, l’albiceleste ha così risvegliato un paese che dal 1994 in poi ha testardamente vissuto nel nostalgico ricordo di Diego Armando Maradona, pretendendo la utopica reincarnazione di Messi in quel personaggio mitico, catalizzatore, nel bene e nel male, dell’universo sportivo e mediatico argentino. «Purtroppo di Maradona non ce ne sono più, e noi continuiamo a pensare il calcio secondo quelle che erano le sue capacità» ammoniva saggiamente Marcelo Bielsa nel 2002, in bilico su quella panchina che tanto orgoglio e dolore gli è costata.

Una volta in campo contro la Germania, la prestazione “terrena” della Pulce — «ha dato alla squadra più di quanto la squadra abbia dato a lui» lo difenderà Sabella — stuzzicherà la malizia di quei tecnici da bar che oggi a Buenos Aires fremono per illustrare ai forestieri, mediante una metafora culinaria alquanto in voga, come al ragazzo «manchi ancora un colpo di forno per essere a punto». Ardua missione — o trasferta, che dir si voglia — avventurarsi in terreni per loro sacri quali il fútbol e la carne, per provare a obiettare che alcuni tagli, per quanto pregiati, quando cotti troppo corrono il rischio di seccarsi.

--

--

Uno-Due
Uno-Due

A printed and online publication on football and its reverberations on society and culture.