Fiume / Rijeka

L’eredità di Cantrida. Dalla Fiumana al Rijeka, storia di un’identità contesa e latente.

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9 min readMay 1, 2017

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di Paolo Carelli

Gli stadi parlano; non solo al proprio interno, come ovvio, dove si sventolano bandiere e striscioni, si ascoltano slogan e cori che al di fuori di quella cornice non avrebbero alcun significato. Gli stadi sono anche impianti architettonici che dialogano con la città in cui sono inseriti, instaurano una relazione con il tessuto sociale e la configurazione urbana. Occupano spazi fisici e simbolici difficili da insidiare.

Gli stadi sono luoghi di senso, scrive l’antropologo Marc Augé. L’affermazione, lapidaria e inappellabile, assume un valore ancora più profondo, se si pensa che proviene dallo studioso francese noto soprattutto per i suoi lavori e le sue intuizioni sui non-luoghi della modernità; quasi una rivendicazione di sostanza, di contrapposizione durevole e ostinata allo sradicamento contemporaneo. Stadi come luoghi in cui si consumano rituali collettivi che si tramandano da generazioni; stadi come luoghi in quanto ‘abitati’, vissuti, percepiti quali estensioni domestiche della propria quotidianità. In sostanza, come spazi simbolici di rappresentazione, testimoni immutabili delle epoche, custodi di sentimenti e di una fede quasi religiosa.

C’è un luogo dove questa lezione di verità si è manifestata in tutta la sua potenza evocativa. A Rijeka, in Croazia, la dirigenza del club locale si era impegnata immettendo ingenti capitali per il rifacimento totale dello stadio; il vecchio Cantrida (o Kantrida) è stato smantellato per far posto a un’astronave avveniristica dotata di ogni comfort da far invidia ai lussuosi impianti delle grandi città europee. L’imprenditore spezzino Gabriele Volpi, che nel 2012 ha rilevato il club riportandolo ai vertici del campionato nazionale (attualmente in vetta alla classifica dopo tre secondi posti dietro l’invincibile Dinamo Zagabria e davanti all’Hajduk Spalato), ha voluto fare le cose in grande, affidando all’architetto italiano Gino Zavanella, l’inventore dello Juventus Stadium, il progetto del nuovo stadio per un investimento di quasi 20 milioni di euro. Immolato sull’altare del marketing e della globalizzazione, l’antico Cantrida si stava forse rivelando troppo ingombrante, appesantito da un carico di ruggine e di memoria che ne ha fatto un’icona della città e del suo passato, e che al pari di un vecchio arnese del Novecento doveva essere mandato in pensione. Così, almeno, sembravano aver pensato i dirigenti del club. Ma gli stadi, come detto, sono luoghi che parlano. E così, improvvisamente, il progetto del nuovissimo impianto che sarebbe dovuto sorgere esattamente nello stesso punto dell’illustre predecessore, dentro la suggestiva gola ricavata da una cava sporgente sull’Adriatico, nel quartiere italiano di Borgomarina, si è interrotto. Perché i luoghi contano e anche quando non te ne accorgi, s’incaricano di preservare sentimenti reconditi e ancestrali.

La parabola del calcio a Fiume

Le vicende del Cantrida s’intrecciano con la storia umana e politica di una città a lungo contesa, simbolo di un’identità latente, mai del tutto sopita nemmeno durante il lungo periodo della Jugoslavia socialista di Tito; e il calcio, come spesso accade, diventa metafora di un confine mentale prima ancora che fisico, pretesto troppo ghiotto per gonfiare il petto, esaltare mitologie, marcare territori e rivendicazioni. A Fiume, il calcio fu portato dagli asburgici all’inizio del Novecento; in particolare, furono gli ungheresi — cui è storicamente spettato il controllo amministrativo della città — a favorire la nascita di decine di piccoli club rionali. Gli ungheresi hanno sempre sostenuto la tradizione italiana di Fiume, utile soprattutto in funzione anti-croata; la lingua era tutelata e ampiamente diffusa e anche lo sport ne risentì positivamente. Olympia, Gloria, Elettra, Leonida: questi i nomi delle squadre che si sfidavano regolarmente in accesissimi ‘campionati fiumani’. Mitologie antiche che si fondono con un’identità territoriale capace di sopravvivere ai padroni, ai regimi, ai funzionari imperiali e ai militari che si sono succeduti nel corso dei secoli. Gli Asburgo, lo Stato Libero, poi il fascismo, gli ùstascia croati, Tito: in tanti passaggi, Fiume ha spesso saputo ricomporre al proprio interno le fratture etniche e sociali, nel segno di un’indole commerciale imbastita intorno alla tolleranza e alla convivenza. Fu al termine della prima guerra mondiale che l’enclave italiana attirò le mire degli irredentisti capeggiati dal poeta Gabriele D’Annunzio, i quali si attivarono per una soluzione: fu istituita prima una reggenza nazionale (la Reggenza Italiana del Carnaro) e poi, dopo il Trattato di Rapallo del 1920, lo Stato Libero di Fiume. E proprio allo scrittore abruzzese, ricorda Luca Di Benedetto in un volume sul calcio fiumano, si deve l’adozione del tricolore come segno distintivo della squadra campione d’Italia, visibile ancora oggi sulle maglie dei vincitori della Serie A: accadde nel febbraio del 1920 quando per rafforzare l’idea di un’entità autonoma nel cuore dell’Istria e della Dalmazia, si giocò una partita tra una rappresentativa delle migliori società sportive fiumane e i militari italiani che, su suggerimento di D’Annunzio, scesero in campo con la maglia azzurra dei nazionalisti e sul petto un tricolore ‘repubblicano’ (cioè senza il simbolo di Casa Savoia).

La successiva annessione al Regno d’Italia (1924) segnò profondamente anche la storia calcistica della città; il 2 settembre 1926, infatti, dalla fusione dell’Olympia e del Gloria nacque l’Unione Sportiva Fiumana: colori sociali il rosso cardinale, il giallo e blu che richiamavano apertamente il cremisi, oro e indaco della bandiera dello Stato Libero. La Fiumana partecipò al primo campionato di Divisione Nazionale (l’attuale Serie A) del 1927–28 per poi essere assegnata alla Serie B in seguito alla riforma dei tornei della stagione successiva. Finì poi in C dove vi rimase per una decina d’anni fino al 1941, quando tornò nella seconda serie al termine di un quadrangolare di spareggi contro Pescara, Audace SME (antica squadra di Verona) e la Polisportiva Fascista Mario Umberto Borzacchini, temporanea denominazione della Ternana ispirata a un campione di automobilismo morto sul circuito di Monza nel 1933. Altri tempi, altri mondi.

Memoria storica del calcio fiumano è senza dubbio Bruno Petrali; novantadue anni, è stato attore teatrale, cantante (lo è tuttora), ma soprattutto speaker di Radio Fiume negli anni ’40 e ’50 e telecronista di Tele Capodistria durante la lunga epopea del calcio jugoslavo degli anni ’70 e ’80 quella che, proprio grazie all’emittente slovena di confine, anche noi italiani abbiamo imparato ad amare ed apprezzare. Petrali sottolinea un aspetto che rischia di essere dimenticato, travolto dalle mitologie dello sradicamento. “Pochi luoghi al mondo — spiega — hanno avuto una grande concentrazione di talento in una piccola città come è capitato a Fiume. In un territorio molto circoscritto sono emersi campioni quali Loik, che morì a Superga con il Grande Torino, Kregar, Mihalich, i fratelli Varglien. E ancora il mio amico Stojan Osojnak e Volk, che poi andò alla Roma. Soprattutto negli anni ’30, il calcio fiumano ha partorito giocatori di valore assoluto, stelle nazionali fortemente legate alla propria terra e quindi anche veicolo per la diffusione di un sentimento di italianità. Fiume, soprattutto i quartieri vicini al mare, è una città italiana nel carattere e questi campioni riuscivano a tenere alto il senso d’appartenenza e d’identità di un’intera comunità”. Petrali ricorda nitidamente anche le atmosfere particolari che si venivano a creare tra gli spalti del Cantrida, un impianto costruito praticamente al livello del mare, scavato nello spazio angusto tra i moli e la montagna circostante. Cantrida era un piccolo rifugio infossato, una sorta di piccolo mondo appartato dove l’urlo poteva strozzarsi contro le pareti rocciose e allo stesso tempo viaggiare verso le onde dell’Adriatico; uno spazio incontaminato dove non di rado si potevano ascoltare cori in italiano e dove l’esortazione ‘Forza Fiume’ aveva il senso della rivendicazione politica prima ancora che quello dell’incitamento sportivo.

Durante il fascismo, l’impianto prese il nome di Stadio Comunale del Littorio; evidente era il tentativo del regime di utilizzare lo sport, e in particolare i territori contesi della Dalmazia, così come dell’Istria e della Venezia Giulia, in chiave propagandistica. E la retorica mussoliniana contagiò presto anche il resto della città; con Cantrida inagibile durante la guerra, le partite della Fiumana si giocavano al ‘Campo Cellini’, abitualmente chiamato con l’appellativo di ‘Campo di Casa Balilla’; un altro segno tangibile di quanto centrali fossero la simbologia e la toponomastica.

La casa degli italiani costruita dai croati

Per una delle strane traiettorie della storia (e della storia del calcio, in particolare) a immaginare e concepire la costruzione di Cantrida furono gli abitanti di origine croata della città; nel 1912, infatti, gli atleti dell’HŠK Viktorija — quasi tutti studenti del quartiere croato di Sušak — durante una sessione di allenamento sul lungomare che collega Borgomarina (Kantrida, in croato) alla vicina città di Abbazia, si fermarono nei pressi di una cava di proprietà della ditta ungherese Schwarz & Gregerson, che stava effettuando i lavori di costruzione del porto; in breve tempo, i croati ottennero l’autorizzazione e il terreno ricavato nella conca divenne a tutti gli effetti sede delle partite del Viktorija. Eppure, per la posizione e per l’uso che i fiumani che ne fecero, lo stadio rimane legato soprattutto alla comunità italiana; all’indomani della seconda guerra mondiale, quando la città passò definitivamente sotto la repubblica federativa jugoslava, nacque il nuovo club dell’NK Kvarner (ovvero, la squadra del Carnaro, o del Quarnero) che raccoglieva al proprio interno giocatori prevalentemente fiumani, molti dei quali con nomi orgogliosamente italiani come Lucchesi, Belcastro, Petronio. Nel 1954, infine, il club prese il nome attuale di Rijeka. Una slavizzazione inevitabile che però, quasi per contrappasso, si scontrò per un breve periodo con l’indomabile conformazione etnica della città; tra il 1969 e il 1973, infatti, complice un’inattesa retrocessione in seconda divisione, il Rijeka si trovò ad affrontare il derby contro l’NK Orijent, la squadra del quartiere croato di Sušak, situato appunto nella parte orientale, verso l’entroterra. “Ma si trattava di una rivalità che andava ormai scomparendo — ammette Petrali — anche perché l’italianità stessa era sempre meno espressa. Dal ’45 in poi, si è lavorato molto per cancellare le tracce d’italiano in città. Adesso la lingua italiana sopravvive solo grazie ad alcune istituzioni culturali, ma per il resto è solo un ricordo, una ‘macchietta’. Non la s’insegna nemmeno più nelle scuole; siamo davvero diventati come i pellerossa d’America. Anche gli slogan in italiano che si sentivano allo stadio parevano più che altro rigurgiti di ritorno, memorie di un tempo che non c’è più”.

Eppure, di questo sentimento ‘triste’ Cantrida si è fatto spesso megafono e medicina allo stesso tempo, luogo di enfatizzazione e di ricomposizione discreta delle fratture con lo stile di chi, per collocazione e disposizione, è talmente unico e originale da non potersi mai prendere troppo sul serio, nemmeno quando, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, il Rijeka assunse un ruolo di primo piano nel calcio jugoslavo vincendo due coppe nazionali consecutive e partecipando a diverse edizioni delle competizioni europee. Memorabili, in questo senso, le sfide contro il Real Madrid nel 1984 e contro la Juventus nel 1980 in Coppa delle Coppe. Di nuovo, è Petrali a ricordare. “Mai vista così tanta gente a Cantrida. Ci saranno state almeno 17mila persone (alcuni almanacchi parlano addirittura di 25mila, ndr), quando l’impianto ne conteneva ancora poco più di 10mila. Gli affossamenti della cava sembravano un’enorme muraglia di persone; tantissimi fiumani residenti in Italia erano scesi a Fiume nei giorni precedenti per comprare il biglietto. Fu davvero l’ultima manifestazione dell’orgoglio fiumano e dell’appartenenza italiana”.

Del Rijeka si tornò a parlare con insistenza nella stagione 1998–99, quando la squadra fu platealmente scippata della vittoria del campionato a favore della Croatia Zagabria (temporaneo nome nazionalista della Dinamo) del presidentissimo Franjo Tuđman, l’uomo dell’indipendenza croata (e di un paese ‘libero’ gestito come un nuovo regime); l’ennesimo affronto di un centralismo mai troppo amato dalle parti della costa istriano-dalmata.

Di uno degli stadi più ‘insoliti’ del mondo (secondo una lista pubblicata dalla CNN nel 2011) rimangono oggi solo il ricordo e le scritte dell’Armada — il gruppo ultrà cittadino — sui muri vicini al mare. Il Rijeka si è trasferito momentaneamente nel nuovo centro sportivo polifunzionale di Rujevica; doveva essere una soluzione temporanea in attesa della mega-struttura voluta dalla dirigenza italiana, ma lo stadio si è rivelato un portafortuna e pare che verrà ampliato da 6mila a 10mila posti. Il super-stadio non sembra più una priorità e il vecchio Cantrida, dato per morente, potrebbe persino sopravvivere e ritrovare una seconda giovinezza; difficile che torni ad ospitare le gare della prima squadra, come vorrebbero i tifosi più romantici e passionali, ma è più probabile che rimanga a disposizione per le gare d’atletica. Non è solo una questione urbanistica, né di investimenti sbagliati (che pure contano), ma forse anche consapevolezza del genius loci, il senso e l’anima del luogo, che nella lingua slava ha il suono atavico e sordo di žavičaj. E ti inchioda a un passato a cui nemmeno il pallone globale contemporaneo, con i suoi rituali e le sue liturgie da religione laica, sembra in grado di sfuggire.

Paolo Carelli (1981) è autore de Il Brasile d’Europa. Il calcio nella ex Jugoslavia tra utopia e fragilità (Urbone Publishing 2016).

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