Le Furie Rotte
La prematura eliminazione della Spagna a Brasile 2014 ha riportato lo sport al livello del paese. Si tratta solo di un incidente di percorso, o è veramente l’inizio della fine di un ciclo?
Di Steven Forti
Dopo le sperticate lodi e la sana invidia di molti — soprattutto nel Belpaese — per una squadra, ma anche tutto un movimento sportivo che godeva di incredibile vitalità, con lo scoppio della crisi economica la Spagna si è dimostrata un gigante dai piedi d’argilla. Il disastroso mondiale della Spagna è stato un incidente di percorso o il triste tramonto di una delle più grandi squadre di sempre?
Due immagini. La prima. 29 giugno del 2008, Santa Clara, isola di Cuba. A due passi dal mausoleo dove riposa Che Guevara, in un cortile pieno di gente, una piccola tivù accesa trasmette la finale degli Europei di Austria e Svizzera. Gli amici cubani tifano per la Roja. I tedeschi non gli sono mai andati giù, mi raccontano, tra una Bucanero e una Cristal, le due birre locali. La penso come loro. Ed esulto per il gol di Torres, mezzo alticcio. Non avrei scommesso nemmeno due lire bucate solo quattro settimane prima su una Spagna vincente. Ed ecco lì Casillas e compagni alzare la coppa di Henry Delaunay 44 anni dopo la vittoria al Santiago Bernabeu contro l’Unione Sovietica del giugno 1964. Altri tempi e altre sfide.
La seconda. 13 giugno 2014, Lisbona, Portogallo. In una peña del Benfica, nel quartiere tutto saliscendi di Campolide, mangiamo sardine e beviamo Super Bock. È un giugno particolarmente caldo. La televisione del bar è sintonizzata su Spagna-Olanda. Dopo il gol di Xabi Alonso, io e Tommaso immaginiamo già un’altra vittoria della squadra di Del Bosque. Anche i portoghesi pare abbiano la nostra stessa sensazione. Non crediamo ai nostri occhi quando vediamo i cinque gol degli Oranje. Chiediamo altre birre e brindiamo felicissimi. La rivincita dei bravi ragazzi olandesi dopo il mondiale sudafricano di quattro anni prima? Sì, c’è anche quello nella vittoria di Van Gaal. Ma c’è molto di più.
La fine di un ciclo
Tra un’immagine e l’altra ci sono stati sei anni di vittorie. Nessuna nazionale era mai riuscita ad arrivare così in alto come la Spagna di Luis Aragonés e Vicente Del Bosque. La Germania Occidentale di Beckenbauer si era fermata a due titoli consecutivi (Europei 1972 e Mondiali 1974), perdendo ai rigori in finale con la Cecoslovacchia negli Europei di Jugoslavia del 1976. La Francia di Deschamps pure (Mondiali 1998 e Europei 2000), aggiungendoci la Confederation Cup del 2001, ma facendo una grama figura ai Mondiali di Giappone e Corea del Sud del 2002, eliminata al primo turno da Senegal e Danimarca. Casillas e compagni sono entrati nell’Olimpo della del calcio con una storica tripletta (Europei 2008, Mondiali 2010 e Europei 2012) e mantenendo, escluso qualche mese, il primo posto nella classifica FIFA dal luglio 2008 al giugno 2014. Ma di record ce ne sono davvero tanti per gli spagnoli, come quello di imbattibilità in partite ufficiali, ben 28, ottenuto nel giugno 2013, e quello di Iker Casillas, diventato, dopo il 4 a 0 nella finale degli Europei 2012 contro l’Italia allo Stadio Olimpico di Kiev, il primo portiere di un paese europeo a vincere tre finali con la propria nazionale.
Ma in Brasile, è arrivata la disdetta, pesante, crudele, e parzialmente inaspettata. La Spagna dei miracoli ha fatto flop. Dopo l’Olanda è arrivato il Cile. Un secco 2 a 0, senza tanti complimenti. La vittoria con l’Australia non è servita a nulla. Al massimo a indorare una pillola molto amara. Hasta luego, Mundial. Tutti a casa. Con la coda tra le gambe. Ma non è stato solo un passo falso. È la fine di un ciclo. Indubbiamente. L’addio di Puyol, Xavi, Xabi Alonso e Villa è un segnale. La sconfitta con la Slovacchia — la cui unica vittoria ai Mondiali è quel sofferto 3 a 2 contro l’Italia di Lippi in Sudafrica — nella fase eliminatoria degli Europei di Francia 2016 ne è un altro.
La fine di un modello
Ma non è stato solo il fútbol del tiki-taka di Xavi, Iniesta e compagni che ha fatto flop. È tutta la Spagna che è in una crisi profonda. Il calcio è solo l’ultimo tassello di un mosaico che in poco più di un lustro si è colorato di nero. La Spagna che tanta invidia dava in Italia e in tutta Europa fino alla metà del decennio scorso è diventata uno dei paesi più colpiti dalla Grande Crisi scoppiata dopo la bancarotta dichiarata da Lehman Brothers nel settembre 2008. In bella compagnia di Portogallo, Italia e Grecia, nel 2010 il paese governato da José Luis Rodríguez Zapatero ha iniziato a figurare, chiudendolo, nell’acronimo di origine inglese e alquanto dispregiativo di PIGS.
Una crisi che per il paese iberico è economica, prima di tutto. Nell’estate del 2012 il governo Rajoy — che a novembre del 2011 ha sostituito Zapatero alla guida del paese — ha chiesto l’intervento della troika (BCE, Commissione Europea e FMI) per coprire il buco delle banche spagnole: in un biennio alla Spagna sono arrivati più di 40 miliardi di euro. Non in cambio di nulla, logicamente. Le politiche di austerity si sono impiantate stabilmente al di sotto dei Pirenei, seguendo alla lettera il mantra neoliberista. E praticamente senza ottenere risultati. La disoccupazione è ormai da un triennio quasi agli stessi livelli di quella greca (24–25%), ma con una differenza: i disoccupati in Spagna sono cinque milioni e mezzo, dei quali la metà lo sono da oltre un anno. Il debito pubblico ha quasi raggiunto il 100% del PIL e si sta avvicinando ai livelli di quello italiano, quando nel 2006 era solo del 36%. Gli anni consecutivi di recessione sono sei, per quanto il 2014 abbia segnato una timida ripresa, più sbandierata che altro da un governo che quest’anno si gioca il tutto per tutto nelle elezioni amministrative e generali. La crisi che ha colpito il paese iberico non è però solo economica; è anche politica, istituzionale, territoriale, sociale e culturale. I due grandi partiti (PSOE e PP) che hanno governato il paese dal 1982 ad oggi sono ai minimi storici; la monarchia pure, anche dopo l’inattesa abdicazione di Juan Carlos I per il giovane figlio Felipe VI; la riforma della Costituzione è diventata un leitmotiv che provoca bruciori di stomaco in tutto l’establishment; le tensioni centrifughe sono all’ordine del giorno con una buona parte dei catalani che chiedono l’indipendenza. Un panorama su cui nessuno avrebbe scommesso nemmeno una vecchia peseta nell’epoca della Marca España.
Ironia della sorte
Che il gol di Torres nella finale di Euro 2008 contro la Germania anticipi di solo due mesi e mezzo l’inizio del declino di un paese che aveva raggiunto le migliori posizioni nei ranking mondiali non può che risultare ironico. Con quel gol la Spagna calcistica rompeva un tabù. Nel suo palmarés c’era solo un Europeo, quello del 1964, vinto, tra l’altro, giocando in casa e battendo, in una finale politicamente complessa, l’URSS, il nemico per antonomasia del regime franchista. Il resto era una storia di furia e fracaso, come racconta bene lo storico Alejandro Quiroga Fernández de Soto in Goles y banderas. Fútbol e identidades nacionales en España (Marcial Pons, 2014). I quarti di finale erano diventati uno scoglio insuperabile per gli spagnoli (Messico ’86, USA ’94, Giappone e Corea del Sud 2002). La passione dei giocatori — le Furie rosse, appunto — era pari alla loro sfortuna o alla loro incapacità di gestire le partite, pur contando in molte occasioni con giocatori di spiccate qualità (da Butragueño a Hierro, da Zubizarreta a Raúl, da Salinas a Guardiola).
Il gol di Torres ha rotto un tabù; la crisi dei mutui subprime e quella dei debiti sovrani ha distrutto un mito. Quello della Marca España. Del paese sviluppato, esemplare, in continua crescita: un modello per l’Europa mediterranea e non solo. Lo ‘Spain is different’, le cui fondamenta sono state gettate durante gli anni Ottanta da Felipe González, ma la cui struttura è stata modellata a cavallo del nuovo secolo, dalla destra di José María Aznar. Bolla immobiliare e speculazione edilizia a profusione. Tutto è crollato come un castello di carte. E ora tocca raccogliere il mazzo. È singolare che i più grandi successi del fútbol spagnolo siano arrivati proprio quando il castello stava cadendo in mille pezzi. Anche a livello di club: tra il 2008 e il 2014 le squadre spagnole si sono aggiudicate ben tre Champions League (due il Barça e una il Real) e tre Europa League (due l’Atlético di Madrid e una il Siviglia), oltre a due secondi posti in entrambe le competizioni (rispettivamente, l’Atlético di Madrid e l’Athletic di Bilbao). Il paese iberico non ha ottenuto grandi successi solo nel calcio, ma praticamente in tutti gli sport: dal basket al ciclismo, dal motociclismo alla Formula 1.
Il calcio ritrova il paese reale
Con l’eliminazione dal Mondiale brasiliano sembra che il calcio spagnolo sia ritornato al livello del paese reale. La crisi del fútbol si aggiunge a quella economica, sociale, politica e istituzionale? È pur vero che nella finale della Champions League dello scorso anno sono state due squadre spagnole a sfidarsi, che il Barça ha vinto a Berlino, e che il Sevilla ha vinto di nuovo la UEFA Cup. Ma nel calcio spagnolo non è tutto oro quello che luccica. La crisi economica ha comportato la fine dei finanziamenti pubblici e di quelli, molto sostanziosi, dei grandi impresari del mattone per i club spagnoli, alcuni dei quali hanno dichiarato bancarotta nell’ultimo biennio (Deportivo La Coruña, Real Oviedo…).
Molti parlano della fine del modello delle società anonime sportive (solo quattro squadre non lo sono: Barça, Real Madrid, Athletic di Bilbao e Osasuna), visto l’indebitamento che hanno con lo stato — a fine 2013 era di oltre 4 miliardi di euro — e anche con gli stessi calciatori: l’Asociación de Futbolistas Españoles nel 2013 ha denunciato il mancato pagamento di un totale di 42 milioni di euro a calciatori della Liga e della Segunda División. C’è poi chi, come José María Gay de Liébana, ha parlato di amateurizzazione e di fuga di talenti all’estero. Dal 2007 al 2013 la Spagna da importatrice di giocatori è passata ad essere la maggiore esportatrice. I calciatori spagnoli che giocano in campionati esteri sono passati da 136 a 439 in soli sei anni e, se si escludono Barça e Real Madrid, le spese per gli acquisti sono diminuite del 67%. Ma tenendo conto anche delle due superpotenze calcistiche iberiche, la Liga è passata ad essere nel 2013 uno dei campionati con meno deficit, dopo che nel 2007 era il secondo con più deficit, subito dopo la Premier League. L’eliminazione da Brasil 2014 è dunque il primo segnale di una crisi profonda che colpisce tutto il calcio spagnolo? Ci sono tutte le condizioni. E anche quelle dei finanziamenti pubblici e privati e dei condoni e degli indulti… In ogni caso, come diceva il saggio, ai posteri l’ardua sentenza.