Ricomincio da Te

La Nazionale, Parigi, Manoppello.

Uno-Due
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7 min readJan 6, 2017

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Di Giorgio Burreddu

Da Manoppello a Parigi, in 2 anni Marco Verratti è passato da Zemanlandia versione Pescara in serie B, fino ad a un posto da titolare nel PSG delle superstar. Sarebbe andata così se fosse rimasto in Italia? Un ritratto del Verratti post-mondiale. Il solo ad aver meritato elogi nella disastrosa spedizione azzurra in Brasile e una delle poche speranze nell’incerto futuro del calcio italiano.

Tutti abbiamo bisogno di emergere, e Marco Verratti ci è riuscito un brutto pomeriggio di sole. A Natal, Brasile, l’Italia sta deragliando. A quelli dell’Uruguay non sembra neanche vero: una squadra così sconquassata e fragile, molle e stanca non l’affronteranno mai più. Devono approfittarne. L’elegia funebre la suona Godin, un colpo di testa basta a rispedire gli azzurri a casa dal Mondiale. Dopo va anche peggio. L’uno si scaglia contro l’altro, e le cose precipitano quando il CT Prandelli accusa Balotelli, De Rossi e Buffon se la prendono coi giovani che non hanno sudato abbastanza, e insomma con quella spedizione abbiamo consegnato alla storia soltanto nevrosi e dolore. Ma quello a Natal, Brasile, è anche il giorno in cui abbiamo capito l’importanza di Verratti. Marco gioca senza paura. Tiene il pallone, si assume le responsabilità. Emerge. Dalla mediocrità e dal fallimento. Tolti i senatori, quando Prandelli lo convoca per la spedizione in Brasile, della nuova leva Verratti è il solo ad aver giocato in Champions League. Ma a cosa serve parlare di Verratti adesso che di quel campionato del mondo non sono rimaste che le ceneri? È utile a capire i motivi che ci spingono a sceglierlo leader del futuro azzurro. Perché l’Italia di Antonio Conte dovrebbe ripartire proprio da lui?

A Manoppello, in Abruzzo, dove Marco è cresciuto, ciò che lo riguarda sconfina nel sacro. Persino i vetri rotti delle finestre che danno su piazza Marcinelle, quelle che Marco si divertiva a centrare a suon di calcioni quando era un bambino. Sono passati anni, ma dalle marachelle alla Nazionale è stato un fulgido, bellissimo attimo. Oggi Verratti ha poco più di vent’anni e gioca nel PSG degli sceicchi, ma a Manoppello l’immagine del suo prodigio la conservano ancora gelosamente. La ammantano di leggenda. Raccontano di quanto era bello vederlo tirare calci vicino ai portici, o lungo la strada; di quando faceva a zig-zag tra i monumenti del paese e di come, anche a cinque anni, calciasse già come fa adesso. Nei bar gli anziani tirano sempre fuori un aneddoto dalla tasca da gustare insieme al Fernet. Probabilmente quasi nulla di quel che viene raccontato su Verratti è vero fino in fondo: è l’orgoglio di averlo visto crescere che alimenta il racconto. E come succede a tutti quelli che hanno fatto emergere un mondo sommerso, un mondo travolto dalla modernità delle metropoli, gli sono grati. Manoppello ha un eroe nazionale. Un eroe tutto suo, personale, e lo venera, lo coccola. Lo protegge. Tuttavia, quella di Verratti è una storia comune. La mamma, Lidia, ha sempre raccontato dell’amore viscerale di suo figlio per il calcio. Lo fanno tutte le mamme dei calciatori, ma ce lo dimentichiamo sempre. Quella di Marco ha detto che ogni mattina il figlio prima di andare a scuola baciava il pallone. Quando il Pescara lo aveva scovato, portandolo via dall’Arabona, era lei a portarlo quasi tutti i giorni agli allenamenti. Trenta chilometri all’andata, trenta al ritorno. Può sembrare incredibile, ma così funziona per quasi tutti i giovani calciatori, anche quelli che non diventeranno mai Verratti. E allora qual è la differenza che ne sta alimentando il mito? La risposta va ricercata prima di tutto nel talento e nel suo senso di appartenenza. «Il calcio» ha detto una volta «è come respirare. È la mia vita. Ci penso tutti i giorni. Sempre. Non soltanto quando mi alleno».

Cetteo di Mascio, l’uomo che lo ha portato al Pescara, spiega di non aver mai visto Marco sotto pressione. «Nemmeno passando di categoria, o saltandone una, lui ha sempre giocato con serenità, come se giocasse in piazzetta». Voleva sempre il pallone tra i piedi, saltava il primo uomo creando la superiorità numerica. «Abbiamo avuto il merito di non togliergli il talento», dice Di Mascio. A quindici anni Verratti fa l’esordio tra i professionisti. È il 2008, la partita è Coppa Italia di Lega Pro. Il Pescara di Giuseppe Galderisi va a giocarsi il primo turno a Mezzocorona. Manca un minuto alla fine, abbastanza per dare al piccolo Marco la felicità dell’esordio. A Le Parisien, anni dopo, Verratti dirà: «In quel momento sono diventato un giocatore. Per me quella partita è come se fosse stata ieri. Di colpo giocavo con la maglia del Pescara di fronte a tutti i miei amici». Nel calcio moderno non sono poi tanti quelli che vantano un esordio altrettanto precoce. Gianni Rivera fece il suo in A appena sedicenne. Ma quelli del Golden Boy erano gli anni Sessanta, e se avevi le qualità giocavi anche se puzzavi di latte. Il calcio è cambiato, e anche le responsabilità dei giovani. E così la quotidianità, i sogni, le storie.

Oggi un calciatore della Primavera è un professionista a tutti gli effetti. Occupa il suo tempo nella ripetitività degli allenamenti. Impara la posizione, la tattica, il copione. L’imprinting del calciatore. Ogni giorno va al campo, ed è con il calcio che si guadagna da vivere. Il più delle volte il sacrificio sportivo basta a giustificare il raggiungimento del successo. Eppure la fiducia verso i giovani (italiani) è bassissima. Secondo il rapporto demografico CIES del 2014, nella classifica dei campionati con più calciatori cresciuti nel proprio club, l’Italia era ultima su trentuno con poco più dell’otto per cento. Il Belgio stava sopra con il quindici per cento e la Germania ci doppiava. Le colpe? Qualcuna agli allenatori. In questo Zdeněk Zeman è stato sempre in controtendenza. Nel 2011, con l’arrivo del tecnico boemo sulla panchina del Pescara, la storia di Verratti cambia. Emerge. Imbocca la strada che ci condurrà al presente. «Quando sono arrivato a Pescara doveva giocare mezzapunta», racconta Zeman, «ma io l’ho trasformato in regista e mi ha dato grosse soddisfazioni. Il ragazzo è del ’92, ha vent’anni e poca esperienza, può crescere tanto e diventare uno dei più grandi registi in Europa». L’intervista risale al 2012. Verratti di lì passerà dalla Serie B al PSG. Il presidente del Pescara lo chiama nel suo ufficio. «Ti vuole il PSG», gli dice. Con il direttore sportivo dei parigini, Leonardo, la trattativa non va per le lunghe.

I primi giorni in Francia sono un piccolo trauma. Marco non è mai stato a Parigi. Nemmeno in vacanza. Sul suo profilo Facebook, spaesato, domanda agli amici: «Sapete dove posso vedere il Pescara sul computer?». Qualche compagno parla italiano, e questo lo aiuta. La fidanzata gli sta vicino. Ma tutte queste cose contano fino a un certo punto se non c’è la volontà di esistere. Dentro a ognuno di noi coesistono (almeno) due forze. Una ci trascina verso il basso, all’autodistruzione. È il fiume dentro cui annegano i talenti, persino quelli più puri e cristallini. Galleggiano le pigrizie e affogano le positività. Marco invece è spinto dall’altra, la forza che si è fatto tatuare sul braccio sinistro. Ha voluto il disegno delle labbra di Laura, che all’epoca non era ancora sua moglie, e sopra ci ha fatto scrivere «Vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo», in spagnolo. È a questa tentazione di esistere che Verratti si è aggrappato subito. Anche nei momenti di sconforto. In questi anni non ha mai nascosto la nostalgia causatagli dalla lontananza della famiglia e dagli amici. «Di Pescara mi manca tutto», ha detto una volta. Al suo primo compleanno da giocatore del PSG, nell’autunno del 2012, invitò l’amico Leo, un ristoratore di Pescara vecchia, per preparare ai suoi compagni le polpettine ‘cacie e ove’. Quella volta c’erano anche Ibrahimovic e Thiago Silva. «Pescara è la mia città, dichiara in un’altra intervista, «e anche se sono in uno dei posti più belli del mondo, quando posso, ci torno».

Questo attaccamento alle radici, questa riconoscenza verso il luogo in cui è venuto su non ha ancora impedito a Verratti di vivere a testa alta nel mondo. Di emergere, appunto. Anzi, è proprio questo senso di appartenenza che differenzia Marco da molti altri. Nei giorni immediatamente prima delle convocazioni per il Mondiale in Brasile ha detto: «Per Rio rinuncio a tutto». E ancora: «Il Mondiale lo sogno così: tutta l’Italia davanti alla tv e pochi fortunati in campo». Tra quei fortunati ci si vedeva anche lui, ovviamente. Nel 2006, quando ancora faceva le giovanili, Verratti aveva visto l’Italia battere la Francia ai rigori e Cannavaro alzare la coppa sotto i cieli di Berlino. Marco la finale l’aveva vista assieme agli amici e con tutti quelli del paese. Poi il talento e la fortuna gli hanno permesso di arrivarci davvero in maglia azzurra. «Mi piace il calcio propositivo, dobbiamo divertire la gente». Perché tutto in Verratti tende all’emersione, tutto tende a venire a galla.

È successo con Zeman al Pescara, poi con Ancelotti al PSG. È successo anche nel giorno della disfatta con l’Uruguay. L’Italia deragliava. Lui l’avrebbe salvata. Non era il giorno giusto. Ora è da lui che dobbiamo ricominciare.

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