San Siro

Un’analisi dell’ultimo lavoro di Yuri Ancarani. Un film dove il vero protagonista è lo stadio. Non come luogo concreto, bensì immaginario, incommensurabile e irraggiungibile.

Uno-Due
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5 min readJan 21, 2017

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di Cecilia Valenti

Un film dove il vero protagonista è lo stadio. Non però come luogo concreto, bensì immaginario, incommensurabile e irraggiungibile. Essendo impossibile mostrarlo nella sua interezza, Ancarani procede quindi a destrutturarlo nel montaggio di primi piani e totali, in dettagli architettonici.

La prima immagine in San Siro, il film dell’ artista Yuri Ancarani, è un’inquadratura del busto di un uomo in giacca a vento blu, del quale non vediamo il volto. Avanza spedito verso la cinepresa che di conseguenza indietreggia in un dolly fluido, scivolando sul terreno fangoso e bagnato: piove senza tregua. Di questo sconosciuto non vediamo il volto, ma le mani, che strette in guanti scuri, impugnano una barra di ferro con i residui di una laccatura rossa. L’immaginario del calcio porta a pensare a una spranga. L’inquadratura si chiude proprio quando, con fare di sfida e quasi minaccioso le due mani guantate cominciano a far roteare la spranga.

Si riaprirà con una ripresa dall’alto, con un campo fisso su di una botola, che per un secondo ricorda il perimetro di un campo da calcio disegnato sull’asfalto. Ed ecco di nuovo entrare nell’inquadratura questo presunto sicario, che si adopera ad aprirlo, aiutandosi proprio con quella spranga che si rivela quindi essere un semplice utensile da lavoro. Non siamo difatti in un film thriller e nemmeno in un neo-noir, nonostante il setting brumoso, notturno, sprofondato in un’atmosfera ambigua e in sordina delle prime scene faccia pensare a quei paesaggi portuali nebbiosi del realismo poetico del cinema francese di Marcel Carné.

E la nebbia non è quella di Le Havre, ma quella di Milano.

Che siamo a Milano (per la precisione: nella periferia nord-ovest della città) Ancarani lo rivela poco a poco con inquadrature severe, geometriche: strane figure in cerata gialla attraversano con passo marziale uno spazio urbano. La camera immobile e semi-documentaristica, che li osserva entrare ed uscire dall’inquadratura, ci rivela però un dettaglio fondamentale, che ci permette, almeno per un attimo, di ancorare la scena alla realtà.

Sullo sfondo si riconosce l’architettura — allo stesso tempo solenne e familiare — dello stadio Giuseppe Meazza (rinominato nel 1980, ma ancora comunemente conosciuto come San Siro. E così, da questo momento in poi, il titolo del film diventa programmatico: il vero protagonista è lo stadio. Non però come luogo concreto, bensì immaginario, incommensurabile e irraggiungibile, che non è quindi possibile mostrare nella sua interezza ma solo destrutturato nel montaggio di primi piani e totali, in dettagli architettonici. Iconica diventa quindi l’immagine, ripetuta più volte nel corso del film, delle gigantesche torri cilindriche in cemento armato. Questo motivo architettonico si ricongiunge all’ immaginario fantascientifico, all’architettura post-umanoide di Metropolis (Fritz Lang) o a quella della fabbrica fordista di Tempi Moderni (Chaplin).

Il riferimento alla fabbrica, come luogo del lavoro e della produzione, non è qui casuale. In San Siro lo stadio è filmato attraverso il lavoro che gli ruota intorno, lavoro concreto e materiale, di poliziotti, manovali e operai. In altre parole, il film di Yuri Ancarani sceglie di non mostrare l’ evento, ma ciò che lo precede, di filmare il campo attraverso il fuoricampo.

E così, quelle misteriose figure in mantella gialla delle prime scene del film, che ci sembravano usciti da un classico sci-fi americano del terrore atomico, sono semplicemente uomini al lavoro. E anche l’uomo con la spranga in apertura del film non è un sicario di morte, ma uno degli addetti al cablaggio. L’operazione di cablaggio si frammenta in una serie di dettagli: cavi nella pioggia, mani che li stendono come funi disegnando serpentine sull’ asfalto. Perdono la loro concretezza: sono linee che tracciano una trama intricata sulla superficie stessa dell’ immagine.

In San Siro, le scene che raccontano il lavoro non sono mai prettamente illustrative. Non devono solamente descrivere delle procedure (oltre il già nominato cablaggio, il posizionamento delle transenne o la perquisizione degli spazi da parte della Polizia), ma piuttosto per costruire un’atmosfera, far montare gradualmente l’attesa precedente l’inizio di ogni evento calcistico. L’entrata in campo come ouverture.

E quest’attesa si carica di malinconia: in San Siro l’evento, non avverrà. Siamo quindi agli antipodi rispetto ad una visione del calcio inteso come presenza, comunione di intenti e pienezza. Ad una visione pasoliniana, che vede nel calcio la possibilità di realizzare l’utopia marxista del superamento della differenza di classe. Scrive Pier Paolo Pasolini: «Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro».

Il film di Ancarani è un canto cupo e di addio, opposto diametralmente a una rappresentazione del calcio gioiosa e vitalistica. I tifosi sono rappresentati mentre risalgono i tornanti dello stadio, in una processione lenta e austera. Ancora una visione funerea, distopica, che non ha poco a che vedere con l’ideale delle masse della modernità, ma più con una frammentazione dell’ individuo di matrice postmoderna.

L’architettura stessa dello stadio, insieme moderna e postmoderna, porta i segni della storia: costruito negli anni Venti in epoca fascista dallo stesso architetto che progettò la Stazione Centrale, verrà ampliato e ristrutturato più volte, fino ad arrivare ai lavori decisivi del 1990 in occasione dei mondiali.

Le ultime sequenze, forse le più belle, sono dedicate ai campioni: solo ora, verso la fine del film l’evento sembra affiorare e convergere in un’estetica carismatica e ipnotica. I giocatori del Milan (formazione 2013) si avvicinano alla loro destinazione. Il pullman che li trasporta è immerso nel buio, è un luogo quasi mitologico, dove i giocatori diventano eroi greci lasciati alla loro solitudine la notte prima della battaglia. I loro sguardi affondano nel fuoricampo, in off, oltre i finestrini striati di pioggia, nelle luci della notte. I Rolex, le cuffie hi-tech sono accessori che saturano la rappresentazione nascondendo i corpi.

Qui dal montaggio che frammenta, la costante di tutto il film, emerge un brusio di luci e di suoni, ben espresso dal soundscape allo stesso tempo realistico e astratto di Lorenzo Senni, un enfant terrible della musica sperimentale-noise. Mario Balotelli entra di spalle, ondeggiando lentamente nella luce: questa è l’uscita dal film, mentre la sua figura sfuma nella luce dei camerini e dei flash dei giornalisti.

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