Cinque parole d’amore per Fulvia

Illuminazione. Fine. Rideva. Elementari. Titanic.

flora ciccarelli
uonnabi
6 min readFeb 14, 2017

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Ozge Cone — The people who are lost in time or lose memories

Illuminazione

Io, in amore, procedo sempre per illuminazione.

Succede che un minuto siamo amici, conoscenti, colleghi, compagni di bevuta e il minuto dopo io ti guardo, di solito tu mi guardi, e io capisco che nei prossimi anni staremo insieme, avremo una relazione, sarà bellissimo. Che tu sia d’accordo, in quel momento, m’importa zero: l’Illuminazione non mi chiede mai se sono d’accordo nel subirla, allora perché io dovrei chiederlo a te.

L’Illuminazione può arrivare in qualsiasi luogo e tempo: di solito arriva mentre sono ubriaca al bar, ma può arrivare anche mentre risalgo la scala di un letto a soppalco, mentre ti offro del cioccolato, mentre facciamo una partita a Trivial Pursuit in cui io e te stiamo vincendo e gli altri incassano colpi su colpi.

La più strana mi è capitata nel novembre 2008, avevo diciassette anni e mi preparavo per andare a dormire: è stata la più strana di tutte le Illuminazioni non soltanto perché ero in bilico sul bordo della vasca da bagno ma anche perché è arrivata con dieci anni di ritardo.

E riguardava Fulvia.

Fine

Non si chiamava veramente Fulvia, era suo nonno che la chiamava così.

Io e Fulvia, in quel periodo dell’Illuminazione, non ci frequentavamo già più. Quasi non ci parlavamo, a dirla tutta. Avevamo trascorso il periodo delle elementari in morbosa simbiosi, poi alle medie la rottura seguita da alcuni (miei) timidi tentativi di riavvicinamento. L’ultimo si era svolto nell’estate dei nostri quindici anni, un’estate di noia, caldo, adolescenza. Tentativo che si era risolto con Fulvia che mi diceva, ridendomi in faccia, di non volermi più: di non volermi più bene, di non volermi più come amica. Eravamo nel vicoletto di fronte casa sua, quello in cui non sono più passata dopo quel pomeriggio.

Non sono più passata in quel vicoletto, non l’ho più sentita dopo quel pomeriggio. Le ho mandato gli auguri per il compleanno per qualche anno dopo quella rottura e ci siamo riviste a casa di un amico comune, con freddezza. Per quei suoi compleanni le compravo anche dei regali, mai consegnati: li tengo in fondo all’armadio, uno l’ho addirittura scartato da me, senza motivo. Ogni tanto li ripesco dalle tenebre e mi dico: devo buttare questa roba. Poi non la butto.

Rideva

Quando ho realizzato cosa provavo per Fulvia ho pianto lì, sulla vasca da bagno, coi piedi umidi avvolti in uno di quegli asciugamani ruvidissimi che mia madre si ostina a non buttare.

Francesca Woodman — Untitled, New York, 1979

Fulvia, se mi avesse vista in quello stato, mi avrebbe riso in faccia ancora una volta. Poi, forse, avrebbe asciugato le mie lacrime e mi avrebbe abbracciata.

Quello che ho sempre adorato di lei era la naturalezza con cui lo faceva, ridermi in faccia. Rideva di me, non poteva proprio resistere. Mi rideva in faccia e mi amava, mi amava pur trovandomi apertamente ridicola. Sui blog di psicologia questa roba la chiamano manipolazione, la chiamano dipendenza affettiva, narcisismo e relazione vittima-carnefice.

Ero una vittima? Eppure, ancora adesso, non riesco a trovarci niente di male.

Una volta mi sono fiondata sul pavimento a farmi calpestare una mano, per evitare che, per sbaglio, mettesse i piedi nudi su un giocattolo. Quando si è accorta di avermi fatto male, Fulvia si è messa a ridere senza capire come mai mi fossi fatta calpestare le mani da lei. Io le ho spiegato il motivo e lei ne è stata lusingata.

Ma allora mi vuoi bene, mi ha detto.

Tombola. Te ne voglio.

Sally Mann — Immediate family, 1992

Elementari

Quando ci incontriamo abbiamo entrambe sei anni, andiamo in classe insieme da qualche giorno. Prima elementare, sezione D.

Insetto stecco, mantide religiosa, la prima cosa che ricordo di lei è è la sua sagoma, in controluce. Poi ricordo il caschetto castano, liscissimo. Mio padre diceva che al posto dei capelli Fulvia aveva degli spaghetti. Io adoro gli spaghetti e adoravo anche i capelli della mia amica bellissima, che non si arruffavano neanche per sbaglio, neanche se provavi a scompigliarglieli tu con la mano: dritti e lucenti, frangetta pari sulla fronte, taglio a scodella come Fantaghirò. La terza cosa che ricordo è il quaderno dei Coccolotti. Mia madre mi comprava dei bei quaderni, a volte. Tra i più belli di quell’inizio anno c’erano quelli dei Coccolotti, degli orsetti colorati che andavano di moda tra noi bambine. Io non credo di averne mai avuto uno vero e nemmeno credo di averne mai voluto uno, ma il quaderno dei Coccolotti avrebbe attestato uno status symbol elevato all’interno della classe, e questo era buono. Forse a Fulvia era piaciuto, perché le prime parole che ci siamo scambiate riguardavano il quaderno dei Coccolotti, mentre eravamo in fila alla cattedra per farci correggere qualcosa dalla maestra.

Quando ripenso a Fulvia e ai primi momenti della nostra amicizia mi vengono in mente queste immagini, il sole di metà settembre che cuoceva le scuole elementari e l’aggettivo: “bellissimo”.

Bellissimo il sole, bellissima Fulvia.

Il naso era la parte che esercitava maggior fascino su di me, io che invece ho un naso di merda: il naso di Fulvia era alla francese, a punta insomma, e credo che quel naso abbia condizionato tutte le mie scelte sentimentali ed estetiche successive. Un naso come quello di Fulvia, però, io non l’ho più trovato.

Titanic

Scrivo tutto questo perché ho appena visto una sua foto su Facebook, con un’altra persona, una migliore amica più migliore amica di me. Scrivo per rabbia, per dolore, scrivo perché non sono sicura che questa qui sia poi così migliore, se questa qui se la meriti, una come Fulvia. E scrivo per amore.

Direte che forse questo non è amore. Amicizia, semmai.

Eppure, dopo il quaderno con gli orsetti, dopo i compiti insieme, dopo gli scambi di vestiti, vieni a pranzo a casa mia, io dormo da te tu dormi da me c’è stato altro. Forse solo nella mia testa ma è nella mia testa che vi trovate, ora.

Nella mia testa c’è il VHS di Titanic, visto insieme due, quattro, ventisette volte. E poi reinterpretato nel soggiorno di casa sua, battuta per battuta, prima lei Jack e io Rose, poi il contrario. Ci lanciavamo in baci appassionati ma senza lingua, perché non avevamo capito che quelli del cinema erano baci finti. Nella mia testa c’è una notte che io dormivo da lei e Fulvia voleva che dormissimo nello stesso letto. Senza alcun motivo perché ce n’erano due, di letti, in quella stanza.

E mentre io me ne stavo nervosa sul bordo del materasso lei si addormentava stretta a me. E m’insegnava che l’unico metodo per dormire comodi, in due, in un letto singolo, è abbracciarsi.

Paul Maria Schneggenburger — The Sleep Of The Beloved

Oggi guardo quella foto su Facebook in cui lei sorride all’obiettivo e non a me: so che non ha senso, eppure il mio amore infantile è ancora qui, sepolto vivo, incredibilmente intatto nonostante le riconversioni, i licenziamenti, gli arresti domiciliari a cui l’ho sottoposto. E ritrovo sempre un po’ di Fulvia e del mio primo amore in chi, nella mia vita, è venuto dopo di lei: lo trovo in un naso piccolo e bellissimo, in una frangia liscia come spaghetti o in quello strano modo di ridermi in faccia e amarmi, amarmi e ridermi in faccia .

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