Da quale parte del mondo stare

“Sai cosa ha detto Lorenzo a papà? Che secondo lui sei omosessuale.”

Giovanni Mauriello
uonnabi
7 min readMay 16, 2018

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In prima media mi innamorai di una ragazzina. Di lei mi interessava il fatto che era strana: magrolina, frenetica, piena di tic, logorroica, creativa, sempre indaffarata. Occhi grandi e scuri, perennemente sgranati, come volesse darsi la possibilità di riempirli al massimo del loro potenziale.

Io non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. Volevo sapere cosa faceva — teatro — cosa le piaceva fare — mangiare la carne cruda di nascosto — e, soprattutto, chi le piaceva tra i maschi della classe — io.

Adoravo passare i pomeriggi in casa sua, assistere alle recite di una famiglia scomposta, passionale, fuori da ogni schema, che usava un linguaggio aulico per insultarsi davanti al TG e dove la curva delle emozioni seguiva un codice diverso, che trasformava la rabbia in ira, la quiete in entusiasmo, una conversazione a tavola in un simposio platonico. Ne ero incantato. Imparai a prendere parte a quelle discussioni, a creare il mio ruolo in quel micro-sistema, finché un giorno la mia amica mi comunicò che la nostra non era un’amicizia perché noi ci amavamo.

Il modo in cui usò quel termine, amiamo, non mi spaventò neanche un po’.

Da bambini non si ha paura dell’amore, gli si dà il senso che pare più ovvio, e di conseguenza lo si vive. Le dissi che aveva ragione, che l’amavo e che quindi dovevamo fidanzarci. Mi sentivo il ragazzino più fortunato del mondo, quel giorno.

Le scuole medie passarono in un attimo. Con lei mi sentivo al sicuro. Non tanto perché avere una fidanzata era bello, ma perché il nostro tempo insieme era libero, scevro da ogni filtro e immune a qualunque forma di censura reciproca. Provavo per lei un’intensa gelosia, una fascinazione che sembrava non affievolirsi, e, ormai alle scuole superiori, imparai con lei a conoscere le reazioni del mio corpo al cospetto di qualcun altro che con amore lo tocca, lo osserva.

Del mio corpo non mi piaceva nulla. Non negli ultimi anni, quantomeno. Ero stato un bambino magro; anzi: secco, come mi chiamavano in famiglia. Poi nel giro di pochi mesi avevo messo su qualche chilo, ero diventato paffutello senza prevederlo.

Non ne soffrii subito, anche perché non avevo un reale rapporto col mio corpo; ero incastrato nella mia testa e mi concentravo esclusivamente su quello che pensavo, tanto che ogni tocco esterno mi provocava il solletico, come se solo una mano esterna avesse il potere di svelarmi, di tanto in tanto, l’esistenza del mio corpo.

Resto così ancora oggi, ma il sesso ha sbloccato almeno in parte le mie resistenze, la mia ostinata convinzione che la fisicità sia irrilevante, che possa essere trascurata fino a perderne completamente il controllo.

Nel momento in cui iniziai la mia prima relazione sentimentale, però, fui costretto a fare i conti con la corporeità, con l’aspettativa altrui di condividere l’intimità. Ancora peggio, per me, era dover fare i conti col mio status di maschio in piena esplosione ormonale coinvolto in una relazione eterosessuale. I miei compagni — o meglio: chi tra loro aveva la fortuna di avere una fidanzata — non vivevano alcun tormento, ma casomai godevano di ogni privilegio e beneficio che si può ottenere a quindici anni dai primi esperimenti sessuali.

Io invece mi trovavo del tutto spaccato in due: ero attratto dal corpo della mia fidanzata, avevo delle fantasie sessuali, dei desideri da voler esperire, ma il mio corpo mi bloccava totalmente. Vedevo attorno a me corpi atletici, scattanti, senza traccia di difetto, mentre io facevo fatica a togliermi la maglietta nonostante avessi solo qualche chilo in più, nonostante una volta fatto, probabilmente, a nessuno sarebbe importato più di tanto.

La forma fisica non era l’unico problema: dopo lunghi periodi di esplorazione dei reciproci corpi, arrivò il momento in cui nulla sembrava impedire la penetrazione, ovvero quella che all'epoca sembrava essere l’unico punto d’arrivo dell’esperienza sessuale.

L’occasione per farlo era un campo scuola, un momento in cui tutte le coppie di fidanzati, lontane chilometri dal controllo dei genitori, avevano previsto di infrangere quella regola. Ero tra gli eletti, nel gruppo di maschi con la fidanzata. Io, per di più, da tempo. Da anni.

Il giorno dopo si narravano episodi a tinte pornografiche tra i maschi e di grande spessore romantico tra le femmine. Io costrinsi sia me che la mia fidanzata a mentire, quel giorno, perché in realtà non fui capace di farlo. Provammo in seguito, più e più volte. Con amore, da parte mia, e con tanta pazienza da parte sua. Alla fine per darle piacere ripiegavo sempre su altro, ma penetrarla mi sembrava impossibile col mio corpo goffo, con la mia testa che impazziva di paranoie e di senso di colpa.

La mia relazione iniziò ad andar male.

Non poteva essere che così: avevamo sedici anni, c’era il mondo da scoprire mentre tra i nostri discorsi c’era solo l’intreccio di alcune vicende sfortunate, la frustrazione di un amore che pareva incartato su se stesso.

Mi ficcai dalla testa ai piedi in una dinamica paradossale: iniziai a essere aggressivo come non ero mai stato; persi qualche chilo — che in seguito puntualmente ripresi per poi riperdere, riprendere, riperdere — e mi alleai col gruppo di maschi del mio quartiere. Iniziai a passare molto tempo con loro e a spacciarmi per quello che non ero; raccontavo bugie, episodi sessuali mai accaduti o comunque romanzati.

Tra i miei nuovi amici c’era il figlio di un amico del padre della mia fidanzata. Non so se lei lo fece per mettermi alla prova, ma un giorno, poco tempo prima che ci lasciassimo, mi disse:

Sai cosa ha detto Lorenzo a papà? Che secondo lui sei omosessuale.

Niente tra me e lei fu più come prima. Mi sentii trafitto al cuore, in un certo senso mi sentii tradito. Aveva sparato dritto in testa a quello che per mesi, forse anni, era stato il grande elefante nella nostra stanza da letto.

Nel corso della nostra relazione mi ero sentito al sicuro perché con lei non dovevo simulare machismo, ciò che invece con quei nuovi amici era criterio per sopravvivere, e in un colpo solo avevo scoperto che non solo quella complicità con lei era del tutto svanita, ma che i miei sforzi non erano bastati neanche a convincere il gruppo dei maschi che frequentavo. Lì per lì ironizzai, incubai un forte dolore e continuai a frequentare il gruppo di ragazzini che alle mie spalle mi dava del frocio.

A pochi metri da casa mia viveva un ragazzino che fin da piccolo si vestiva da femmina. Ricordo il trucco, che rubava a sua madre, e l’ossessione per lo smalto. Anche se ormai non ci frequentavamo, da piccolissimi avevamo giocato insieme e in un certo senso gli ero affezionato.

Quel che è paradossale, in questa storia, è che in un paio di occasioni lo avevo difeso da insulti e prese in giro altrui. Ma quel giorno, il ragazzino capitò nel posto sbagliato al momento sbagliato. Eravamo ormai in estate, la conversazione con la mia fidanzata era avvenuta qualche settimana prima e io da quel momento covavo una incessante sofferenza, una specie di magone che era diventato dolore fisico col quale, anziché metabolizzarlo, avevo imparato a convivere.

Quel giorno il branco di maschi vide il bambino con lo smalto mangiare un gelato con un’amica. C’ero stato io, tante volte, a quello stesso tavolino, e probabilmente anch’io con un’amica. Non toccava a me, però, prendermi gli insulti quel giorno: ero nella parte privilegiata del mondo, la parte machista. Ero tra i teppistelli simpatici a tutti, grandi compresi, maschi, a cui è concesso di mettersi a urlare ricchione da una parte all’altra della strada senza che nessuno li rimproveri.

I miei amici iniziarono a caricarlo di insulti e parolacce, finché dalla gelateria uscì la madre del ragazzino per portarlo via. In lacrime. Mentre madre e figlio se ne andavano, il branco iniziò a corrergli dietro, senza smettere di urlare. Correvano dietro al ragazzino e io correvo dietro a loro senza capire cosa stesse succedendo. Sorridevo ebete, correvo con gli ebeti.

Quel ragazzino piangeva e io, che da settimane facevo i conti con un magone analogo, sapevo solo corrergli dietro insieme ai suoi aguzzini.

Lasciai la mia fidanzata subito dopo. Lei era cosciente sarebbe successo, aveva il diritto di liberarsi di me e successe nel modo più dolce possibile. La sua è un’anima speciale, e anni dopo siamo entrambi capaci di scorgere solo la tenerezza del nostro amore naufragato. Ha lasciato spazio a una fratellanza, è stata la fortuna che mi è capitata affinché io — come anche lei — potessi sbloccare la mia identità e consegnarmi al mondo così come sono. È stato il mio primo amore.

Non era il tempo di definirmi omosessuale, era il tempo di disintossicarmi da quei giochi di potere in cui non sapevo bene quale fosse il mio ruolo. Era il tempo di scegliere in quale parte del mondo stare.

Oggi il mio corpo è libero. Così come la mia intera identità è in continuo sviluppo verso la totale autodeterminazione.

Durante quella feroce corsa contro un ragazzino coraggioso, imparai (a sue spese) che si può scegliere, che lo si deve fare; imparai che per cacciare un dolore devi farci i conti e smettere di concederti attenuanti o giustificazioni. Imparai che neanche tra le pieghe del dolore c’è spazio per l’odio.

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Giovanni Mauriello
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una cosa so fare: avere ragione | scrivo su uonnabi | mangio più della media.