Del tempo che passa la felicità

Quando diventare grandi vuol dire farsi certe domande, e rispondersi inevitabilmente con dei pipponi

Laura Canto
uonnabi
6 min readOct 11, 2017

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“Counterbalance: The Stone and the Mountain,” Cody Choi e Lee Wan.

Spesso vicino a casa, la sera, incrocio una ragazza. Cammina sotto i portici di via San Pietro e poi a un certo punto svolta nella mia via, per proseguire in direzione del teatro. Sta fumando, credo abbia meno anni di quanti ne dimostra, ha i capelli sporchi e un disturbo alimentare che riconosco negli avanzi di stoffa dei vestiti che porta, che le cadono troppo larghi. Di solito fissa un punto imprecisato davanti a sé; non cammina a testa alta, non proprio, tiene piuttosto lo sguardo abbastanza basso da darmi l’idea che non sappia realmente dove sta andando.

Tutte le volte che me la sono ritrovata davanti stavo uscendo per andare a correre; quasi fosse stata messa lì, ai blocchi di partenza, per essere il mio personale via al percorso che stavo per iniziare. L’ho seguita passare con gli occhi, mentre ero appoggiata con la schiena alla porta, nelle mie Nike fluorescenti che fanno a pugni con i pantaloncini e la maglietta recuperati dal fondo dell’armadio, come ogni corridore occasionale che si rispetti.

Che poi, forse andare a correre mi piace proprio per questo: non mi prendo sul serio, non mi metto pressioni. Corro fin dove ne ho voglia, per un tempo che varia dai 15 ai 50 minuti; se ho il fiato corto cammino, se ho avuto una brutta giornata mi lascio guidare dal nervoso che scarico nelle gambe.

Mentre corro, c’è un momento esatto in cui il tempo si ferma: rimane il mio ansito, rimane il cuore che mi rimbomba nelle orecchie, rimangono i miei piedi che battono il terreno. Qui, le preoccupazioni che hanno fatto da sfondo alla mia giornata iniziano a diradarsi piano piano, che all’orizzonte a un certo punto riesco a scorgere solo i miei pensieri. Questa cosa mi affascina, quasi; non del tutto, però, perché la fatica, le cuffiette che si incastrano nella collana o la canzone sbagliata sono dettagli troppo fastidiosi; e così spreco buona parte delle mie energie per disincastrare il filo, o per cercare a tentoni lo skip di quel brano sullo schermo del mio iPhone.

L’altro giorno, per esempio, i miei pensieri hanno acciuffato alcuni strascichi di chiacchiere annoiate di alcuni weekend fa. Una di quelle serate che c’è un giardino libero, i tavolini nell'erba, le lucine che ti illuminano a malapena il viso, la birra nei bicchieri di plastica e passami l’accendino, che mi si è spenta di nuovo la cicca. In quella serata, che aveva delle premesse molto diverse dalla breve parentesi della conversazione che è nata poi, mi sono trovata a confrontare con chi mi sedeva vicino le tappe degne di nota della mia vita adulta, io come una bambina con le mie figurine in mano, che questa ce l’ho, questa anche, questa mi manca, no, non ho neanche quella, questa però sì. E mentre giocavo con l’accendino mi sono resa conto che, ad esempio, è passato un anno e mezzo da quando ho iniziato a lavorare. Un anno e mezzo, diciotto mesi. Una finestra temporale che mi sembra passata alla velocità della luce, della quale mi sembra avere una consapevolezza pari a una manciata di briciole.

Arrivata a questo punto, sono inciampata.
Stavo correndo dalle parti di via Goito, lungo il fiume però, dove c’è lo sterrato. Sono inciampata su una radice, mi sono sbilanciata in avanti, ma non abbastanza da perdere del tutto l’equilibrio. Mi si è spezzato il respiro per un attimo, l’adrenalina mi ha fatto spalancare gli occhi, e dopo un secondo ho realizzato che non sarei caduta.
E ho continuato a correre.

Ho pensato agli ultimi diciotto mesi, e mi sono resa conto di aver concentrato tutti i miei sforzi, le mie energie migliori, su un unico obiettivo, che mi sta facendo distogliere l’attenzione da quello che succede nel mentre. E accade più o meno da quando ne ho memoria, come individuo che ha consapevolezza di sé. Ho l’impressione di non aver fatto altro che rincorrere qualcosa, da sempre: un bandierina cangiante a seconda dei periodi della mia vita, qualche metro più in là di me, che nel tempo ha cambiato aspetto ma ne ha mantenuto il significato. E coincide con quella che identifico come la mia realizzazione personale, la mia felicità. È stata un voto a scuola, un viaggio, un progetto, un luogo, il profumo di una persona, un contesto lavorativo. Qualcosa che si è trovato e credo si trovi sempre più distante da me, che ho spesso raggiunto, e che ha lasciato posto, poi, all'obiettivo successivo.

Sono così tanto abituata a rincorrere il mio obiettivo che non mi accorgo di me. Di come cambio, di come cresco. Anzi. Credo che da una certa età in poi si dica diventare adulti, maturare. Non ci presto proprio attenzione, assorbita come sono a lavorare sodo verso quello che per un periodo di tempo di variabile lunghezza diventa il mio mondo. E questa cosa mi spaventa. Perché ieri ero in quarta superiore a chiedermi quale facoltà avrei scelto; ieri ero al secondo anno di università a capire in che modo potessi andare in Erasmus e laurearmi nel più breve tempo possibile, perché nel mondo del lavoro conta presentarsi con un biglietto da visita che non ammette perdite di tempo lungo la strada; ieri avevo in mano la mia laurea triennale e mi chiedevo quale fosse il percorso che mi avrebbe garantito con più certezze un’occupazione lavorativa poi, perché i tuoi genitori ti fanno studiare, ci mettono i soldi, ma mica sono infiniti quindi scegli bene.

E quella stessa me che a otto anni ha deciso cosa voleva fare da grande, quella che poi a sedici si è messa a pianificare step by step i dieci anni successivi perché era sicura di cosa voleva realizzare, di come sarebbero dovute andare le cose? Cosa devo fare io di quei desideri, di quelle aspettative, che sono ancora parte di me?

Mesi fa ho trovato un articolo de Il Post che raccontava che a Stanford si tiene un corso su come progettare cosa fare della propria vita. E leggendolo c’è questa frase, che dice “Un errore che le persone fanno spesso è di ritenere che ci sia solo una soluzione giusta o una sola versione ottimale della tua vita, e che se fai la scelta sbagliata sei spacciato. Ed è completamente assurdo, dice Evans, uno dei professori che tiene il corso:

Ci sono tantissimi te, tantissime risposte giuste.

Dice che ci sei tu con le tue passioni, che un giorno per caso o per fortuna sperimenti una cosa; e ti piace, ti prende anche quella, decidi che vuoi coltivarla, investire tempo ed energie per farla crescere, qualsiasi cosa sia. E ci sono talmente tante possibilità davanti a te, non le vedi? Come fai a escluderle a prescindere, se non le hai mai conosciute, testate? A posteriori, se ripenso alle parole di quell'articolo, mi rendo conto di quante volte mi sia capitato; e di come mi stia capitando proprio ora, in questi mesi, in quest’ultimo periodo.

Continuare a rincorrere qualcosa che muta nel tempo, cambiare idea, cambiare obiettivi, mi rende una persona poco coerente, soprattutto con me stessa? Con i miei desideri, con le mie ambizioni, che ho sempre avuto? Ho deciso che, al momento, la risposta a questa domanda è no.
Ho deciso di tenere a mente quali sono state le cose importanti, ma di fare spazio a molte altre che sono altrettanto giuste, adatte, appropriate alla persona che sto diventando, che possono valere la mia realizzazione e la mia felicità. Mi concedo di poter cambiare nel corso del tempo; anche se me ne accorgo poco e sempre troppo tardi.
Ma ecco, se c’è una cosa di cui invece sono sicura, è quanto io detesti andare a correre.

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Laura Canto
uonnabi

Da piccola volevo fare la giornalaia, ma era solo per le figurine.