Giovanni Mauriello
uonnabi
Published in
5 min readMay 14, 2020

--

Il 17 maggio è la giornata contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia. Se sei eterosessuale e hai aperto questo link perché vuoi leggere quali altre assurde accuse sono state formulate ai danni dei maltrattati maschi bianchi etero e cisgenere, puoi smettere di ascoltare ora. Qui non ci sono insulti per te, non ti accuserò di leggere Libero o di considerare ogni donna un buco. Voglio però provare a spiegarti perché ogni volta in cui un etero — non tu, magari, un etero stronzo — dice a un omosessuale che è contro natura, sta dando prova di essere molto ignorante oltre che un bel po’ imbecille.

Nel 1980, anno di nascita di Tiziano Ferro, Adrienne Rich parlava di eterosessualità compulsiva, riferendosi a ciò che oggi chiameremmo eteronormatività. Secondo Rich, l’eterosessualità, al pari della maternità, rappresenta una istituzione politica eccessivamente strutturata. Niente natura, niente uomo che incontra la donna e ci fa un bambino perché dio l’ha voluto. Tanto l’essere madre quanto l’essere eterosessuale sono pratiche, compatibili in certi casi con l’attitudine o il desiderio delle persone, ma pur sempre pratiche. Ad esse è affidato un preciso compito politico. Tra poco capiamo quale, ma prima partiamo da dove ogni discorso filosofico dovrebbe partire. Partiamo da Michel Foucault.

Secondo Foucault la sessualità umana non rappresenta un’entità biologica preesistente, bensì una pratica sociale storicamente situata. In poche parole: la sessualità non è degli individui, ma è una formazione discorsiva che viene assimilata nell’esperienza soggettiva. La sola definizione della propria sessualità, quindi, è una costruzione sociale.

Tutte le alternative sono valide, perché di per sé la sessualità non solo non è una, ma non è mai, neanche nel caso in cui una persona abbia per tutta la propria esistenza una condotta eterosessuale, assoluta.

Ma torniamo alla ragione per cui l’unione tra uomo e donna può essere interpretata come istituzione politica. Appartiene ai funzionalisti, Talcott Parsons in primis, l’idea di performance del genere come strategia per un perfetto allineamento tra individuo e società. Parsons prende in prestito da Freud il concetto di introiezione, ovvero l’interiorizzazione di un ruolo da mettere in atto al fine di creare una istanza psichica (il Super-Io freudiano, in pratica) che riproduca l’autorità a cui tutti gli individui sono in un primo momento soggetti e poi replicanti.

La conseguenza, e anche l’obiettivo, è l’istituzione dell’unità familiare, resa salda e rassicurante da una precisa differenziazione di funzioni e ruoli: alla donna, moglie e madre, sono affidati i compiti di cura della casa e della prole; complementare è l’uomo, il bread-winner, che ha il compito di agire come leader strumentale e di procurare il necessario per vivere e proteggere i figli. In un perfetto meccanismo circolare, saranno poi quest’ultimi a fare propri i principi alla base della differenziazione dei ruoli di genere e a replicare lo schema nel corso della loro vita. Voi ci vedete qualcosa di naturale, in questo? Può essere naturale l’attrazione che moglie e marito provano vicendevolmente; può essere strategicamente sensato suddividersi i ruoli, ma non c’è alcuna legge biologica che determina la predisposizione di una alla cura e dell’altro alla caccia, né la natura ha mai previsto che le unioni tra soggetti siano destinate esclusivamente alla riproduzione. La dottrina cattolica, al massimo, ma siamo già nettamente nel campo della cultura.

C’è un’ampia letteratura sul concetto di genere come performance. Io vi consiglio Gender Trouble di Judith Butler, anche solo perché nessuno dovrebbe vivere senza conoscere Judith Butler.

Il risultato di tutto questo è una forte coercizione a svantaggio di tutti i soggetti non eterosessuali, ma è chiaro come la codificazione dei comportamenti da non avere determini automaticamente anche quelli che è obbligatorio avere, rinsaldando così la convinzione sociale che un vero uomo sia naturalmente incline a certi atteggiamenti, pena l’essere additato come omosessuale.

A chi parla quindi un uomo quando dà del frocio a un altro uomo? Praticamente a se stesso. Sappiamo bene che i maschi costruiscono il loro stare nel mondo sulla base di rapporti intimi, camerateschi, supportati spesso da atteggiamenti omofobi o misogini. La dimensione performativa della maschilità è quindi quasi sempre messa in atto in termini omosociali; la costruzione stessa della maschilità avviene in relazione allo sguardo di altri maschi, la performance del genere maschile pensa al maschio come spettatore.

Dire frocio, arrivare persino a picchiare un altro maschio perché presumibilmente gay, significa dire a tutti gli altri maschi che la propria integrità di “maschio vero” è salva.

L’eterosessualità è quindi un comportamento codificato, l’agire eterosessuale è uno script che viene riprodotto nei margini del sistema patriarcale.

Sapete chi sono le vittime di questo sistema? Tutti. Tutti e tutte.
Un decennio prima di Butler, Monique Wittig parlava dell’eterosessualità come di un contratto: «un sistema che produce la dottrina della differenza tra i sessi per giustificare la propria oppressione». Questo non significa che essere eterosessuali è sbagliato o che non bisognerebbe più esserlo, nessuno desidera che l’umanità cessi di esistere, ma significa che continuare a considerare tutto ciò che non è eterosessuale come anormale, contro natura, fa sì che si replichi a oltranza un sistema che si basa sulla violenza. La violenza è nell’odio verso le donne, nell’abuso del proprio privilegio, nella negazione dei diritti di chi semplicemente non è come te.

Perché la violenza non è solo quella fisica, che pure esiste e basta leggere un giornale per scoprirlo. La violenza è nei contesti omonegativi in cui vengono cresciuti i bambini e le bambine, i quali una volta cresciuti possono avere la capacità di autodeterminare la propria identità, ma possono anche non riuscirci. Possono interiorizzare l’omofobia sociale e replicarla ai danni degli altri. Non è un caso che l’omofobia, quando è interiorizzata da una persona omosessuale, è ancora più violenta. C’è dentro tutto il dolore di non poter essere se stessi. E attenzione: fare coming out non è sufficiente, si può essere omofobi anche se si è out.

Smetterla di rincorrere il parametro della naturalità, abbandonare la convinzione che l’unione tra uomo e donna sia l’unica prevista, è l’unica strada per superare definitivamente la piaga dell’omofobia. Le identità non eterosessuali non vanno incluse, non vanno accettate o integrate. È il modello stesso che va messo in discussione.

Se vi interessa approfondire, ci sono una marea di libri da leggere. Oltre a Butler, su questo tema vi consiglio Fai l’uomo!, di Vulca Fidolini, ma anche The Invention of Heterosexuality di Jonathan Ned Katz, che parte proprio dagli studi di Foucault. Per una lettura illuminante sulle implicazioni dell’eterosessualità all’interno delle società capitalistiche, invece, Comunismo queer di Federico Zappino.

--

--

Giovanni Mauriello
uonnabi

una cosa so fare: avere ragione | scrivo su uonnabi | mangio più della media.