Fregati!

Pensavate davvero non saremmo andati (pure) al 35° TFF? Pivelli.

Giovanni Mauriello
uonnabi
9 min readDec 4, 2017

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Da trentacinque anni Torino ha un suo festival cinematografico. Durante quella settimana — ovvio, se te ne fotte qualcosa — devi o licenziarti o fingerti malato/emigrato/morto, perché se putacaso scegli di rinunciare all'accredito e prometti a te stesso di vederti giusto un paio di film, sta’ sicuro che al termine della proiezione ti ritroverai ad affrontare una conversazione con qualcuno che ti dirà che sì, questo era bello, ma cazzo l’hai visto quest’altro? Lo rifanno domani, se riesci vacci.
E tu te lo segni, ci vai e già sai che prenderai pure i biglietti per lo spettacolo serale, tanto sei già fuori casa e vale la pena farsi quel paio di chilometri di corsa per raggiungere un cinema dall'altra parte della città mentre nevica.
E niente, questo preambolo per dire che in questo momento sto scrivendo sommerso da coperte di pile mentre sorseggio un Vivincì Analcolico.

Caruccio.

C’è di buono però che ho visto qualche bel film e che quindi ho qualcosa da raccontarvi. Facciamo che seleziono cinque film. Troppi? Vabbè io li scrivo, voi al massimo leggete giusto i punti che vi interessano e saltate gli altri come fate di solito quando leggete gli articoli di Vice.
Vado. Prima però me soffio er naso.

1. The Reagan Show (Pacho Velez, Sierra Pettengill)

Sabato 25 novembre, primo giorno (effettivo) di festival. La situazione è ancora distesa. Io voglio andare a vedere Beast ma Morena sta in fissa coi documentari e dice che questo secondo lei è figo. Perché? Non indago troppo, sono ancora convinto che vedrò un paio di film al massimo, e quindi mi dico ok, questo è il primo, Beast sarà il secondo. Non a caso Beast è al punto 3.

The Reagan Show si rivela effettivamente un documentario(ne): i due registi (Pacho Velez e Sierra Pettengill, presente in sala) e i loro collaboratori hanno lavorato per più di tre anni per creare un ritratto divertente e al tempo stesso verosimile di Ronald Reagan.
Pettengill, che porca miseria avrà sì e no trent'anni, dichiara che il materiale che avevano a disposizione superava le mille ore, dunque il primo anno di lavoro è stato solo di osservazione e analisi. Il risultato è un prodotto dal montaggio magistrale fatto esclusivamente di materiale d’archivio: non c’è una voce extradiegetica che evidenzi uno specifico aspetto da mettere in luce, ma la direzione che si intende seguire è chiara fin dall'inizio; ne esce fuori un Presidente dalla credibilità pari a quella del Gabibbo, goffo, troppo impegnato a interpretare la parte del leader più che a esserlo.

La lungimiranza con cui Reagan fiutò la potenzialità della comunicazione mass mediale gli fece guadagnare molto in termini di popolarità, ma in questo caso si rivela essere l’arma tramite cui si smaschera la sua inadeguatezza a ricoprire quel ruolo.
E sì, il tutto è tremendamente attuale.

2. Les affamés (Robin Aubert)

Una bomba. Vado a vederlo lunedì perché alle 18 ci sarebbe stato Beast e quindi a quel punto esco un paio d’ore prima e… ok, ormai è chiaro come funziona.
Les affamés
è uno di quei film che leggi la trama e già ti gasi; poi leggi che è canadese e ti convinci ancora di più.

Infine scopri che nel cast c’è Monia Chokri e pensi: vedi che non è colpa mia se appena leggo Canada penso a Xavier Dolan?!

Comunque, il film è uno zombie-movie di alto livello a cui però non è stato scippato quel pepe al culo (scelgo un linguaggio francofono per restare in tema) senza cui uno zombie-movie non sarebbe tale. Come è già stato fatto, l’infezione zombie diventa il pretesto per sviluppare una narrazione dai connotati esistenzialisti: queste creature assetate di sangue conservano le loro cose, le accumulano e le osservano in estasi. Non è ben chiaro perché, ma l’unico momento in cui quasi si riesce a passargli accanto senza essere sbranati è quello in cui sono lì, in massa, intenti a fissare vere e proprie torri di oggetti. Anche i protagonisti, seppure non ancora morti, non possono fare a meno di fare i conti con la loro vita di prima, non tanto per la paura di passare dall'altra parte e trasformarsi loro stessi in carnefici, quanto piuttosto perché consapevoli che ciò a cui davvero tenevano — e di cui, ovviamente, solo ora realizzano il valore — non tornerà più indipendentemente dal fatto che restino vivi un giorno in più.
Tutto bello, bello sul serio. Nessuno ne parla, però, nessuno ha il coraggio di dirlo. E sapete perché?

Perché mannaggia la miseria nessuno ha ancora capito come cazzo si dice: affamé o affàm.

Votate.

3. Beast (Michael Pearce)

Questo era uno dei film che mi incuriosiva di più. Un po’ perché ero convinto che Johnny Flynn, il protagonista, fosse l’attore della puntata 3x02 di Black Mirror (e invece manco gli somiglia troppo, ma in compenso è il protagonista di Lovesick) e un po’ perché dalla sinossi si capiva ci fosse una buona dose di psicopatia con la quale tendo a sentirmi in sintonia. Comunque, il film si conferma potente, anche se un paio di dialoghi mi hanno fatto rabbrividire. Ma andiamo nello specifico.
Beast è un po’ l’ennesima chiave con cui si interpreta la banalità del male, che in questo caso si annida nella splendida Moll (Jessie Buckley) e nel misterioso Pascal (il già citato Johnny Flynn); meglio ancora: il male pare fino a un certo punto tenuto a bada, finché non trova un terreno fertile nel rapporto tra i due. Infatti Moll, a differenza di Pascal, tenta con tutta sé stessa di domare la sua natura psicotica, aiutata — se così si può dire — da sua madre (interpretata da Geraldine James, un fenomeno) che la tiene letteralmente segregata in casa da quando, alcuni anni prima, l’apparentemente docile Moll ha tentato di ammazzare una compagna di scuola con delle forbici. Quando incontra Pascal, però, la sua natura wild, come la definisce sua sorella (e nemesi) riaffiora del tutto. Ma come? Chi l’avrebbe mai detto che Pascal fosse pericoloso? Dopotutto i due si sono incontrati mentre lui vagava per un bosco con gli occhi allucinati e un fucile in mano.

Non proseguo per non fare spoiler, anche perché il film, in ogni caso, merita di essere visto. A mio parere l’elemento meglio riuscito è senza dubbio la descrizione della condizione di prigionia della protagonista; non tanto in senso fisico quanto mentale, poiché la casa non è altro che un perfetto doppio dello schema comportamentale in cui Moll è incastrata; l’attrice in questo riesce benissimo: la sua frustrazione è nei tagli che si infligge sulle mani, nelle frequenti ammissioni di colpa in cui piange lacrime che si fingono di pentimento ma che in realtà sono lo sfogo di un sopruso, nei limiti che dapprima impone alla sua sessualità ma che poi, liberandosene, sanciscono un definitivo cambio di personalità. In quest’ottica il film è molto interessante.

4. They (Anahita Ghazvinizdeh) / 5. Favola (Sebastiano Mauri)

They era in assoluto il film su cui avevo puntato di più. La regista è Anahita Ghazvinizdeh, e se avete fatto fatica a leggerlo provate a immaginare il disagio che avreste provato nel sentirmelo pronunciare. Classe ’89, in quanto a lungometraggi questo è l’esordio della regista iraniana. Niente da dire: Ghazvinizdeh il talento ce l’ha e si vede.
Ma. Almeno un ma concedetemelo. Il film affronta un tema complesso ma anche attuale e affascinante: la disforia di genere. Per complicarsi la vita, la persona che deve farci i conti in questo caso è in quella fase preadolescenziale in cui spesso basta un brufolo di troppo per provocare i primi istinti suicidi. Ecco, di materiale ce n’era fin troppo, eppure l’attenzione del film in cosa in cosa sfocia? In nulla. O meglio, in una cena tra iraniani. Non che la connessione fosse poco chiara: tutti i personaggi sono in una condizione di mezzo, e il nesso tra immigrato e genderqueer poteva stimolare anche dei ragionamenti interessanti, se non fosse che il tutto è tremendamente approssimativo e a tratti anche abbastanza pretestuoso. Questo approccio si riflette su un po’ tutti gli aspetti che compongono il film, anche quelli strettamente più tecnici: qualche manierismo di troppo (tipico delle opere prime) e una direzione degli attori che a volte lascia a desiderare (lì qualche responsabilità ce l’hanno pure loro, però, non solo Anahita) in primis.
So che sembrerà incoerente col discorso che sto facendo, ma in ogni caso continuerò a tenere d’occhio questa regista. Il film non è un film riuscito, secondo me, ma riesco in qualche modo a fiutare un potenziale che credo porterà a qualcosa di convincente.

Tutt'altro discorso vale per Favola, diretto da Sebastiano Mauri e scritto assieme al marito Filippo Timi, qui attore en travesti. Anche qui il tema è la disforia di genere, ma, nonostante si tratti della trasposizione di un’opera teatrale (degli stessi autori) non ho potuto fare a meno, mentre lo guardavo, di trovarlo nettamente più interessante di They. È un film intelligente che sfrutta la struttura intrecciata tipica della drammaturgia senza però far sì che questo basti per farne un film; anzi: l’apporto della tecnologia cinematografica è cruciale ai fini della riuscita, specie per quanto riguarda il montaggio.
Timi è un figo spaziale, e funziona ancora di più in coppia con Lucia Mascino. I due interpretano rispettivamente Mrs Fairytale e Mrs Emerald, due casalinghe americane degli anni ’50 ingabbiate in una realtà parallela fatta di stucchevole bon ton, abiti color pastello e acute crisi depressive. Mrs Fairytale, che in realtà non è altro che un alter ego onirico del protagonista in abiti maschili, sceglie di fare i conti con la disforia solo nel momento in cui realizza il suo amore per Mrs Emerald, a sua volta pronta ad amare la donna transessuale in tutte le sue sfaccettature.

Se in They ci sono ottime premesse che però si sgonfiano nella realizzazione, Favola sembra apparentemente puntare meno in alto per poi toccare punti profondissimi della condizione di una persona transessuale.

Con toni leggeri e divertenti — la sala ride per tre quarti del film, in pratica — Favola esplora gli anni in cui tale condizione meritava l’internamento in un ospedale psichiatrico;

inoltre, elemento che ahimè non è ancora semplice da comprendere per molti, delinea in maniera tanto netta quanto naturale la distinzione tra orientamento sessuale e identità di genere.

Menzione Speciale

The Florida Project. via.

Chiaramente nessuno di questi film ha vinto una minchia, e probabilmente non si tratta nemmeno dei migliori passati per il TFF — concedetemi un’ultima menzione (speciale) a The Florida Project (Sean Baker), visto in calcio d’angolo ieri sera e a mio avviso vero gioiello girato per le sale del festival — ma salta agli occhi un dato di fatto evidente già dai film che ho citato:

in questa edizione le donne sono state le indiscusse protagoniste.

Basta guardare i nomi del direttivo, basta ripensare velocemente alle sinossi dei film visti: le donne sono le chiavi di queste storie, non ne sono di certo uno sfondo. E a dispetto di ciò che si è soliti pensare, questa scelta non ha condotto alla visione di prodotti pensati per donne, non ne ha delineato un target ed escluso un altro. Questa scelta ha fatto sì che io assistessi a un sacco di roba di qualità, e tanto basta.

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Giovanni Mauriello
uonnabi

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