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Il paradosso del pene

Giovanni Mauriello
uonnabi
8 min readAug 14, 2017

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via.

La prima volta che ho aperto un manuale di storia del femminismo ero già abbastanza convinto delle mie idee, già piuttosto consapevole dell’enorme confusione con cui mi avevano cresciuto tentando di trasmettermi una arbitraria attribuzione dei ruoli sociali subordinata a una altrettanto arbitraria assegnazione dell’identità di genere. Ciononostante, non sapevo dare un nome a quelle che per me erano solo intuizioni. Sentivo di possedere una innata riluttanza a un sistema che mi aveva reso vittima fin dalla più tenera età, un gioco a cui non riuscivo a prendere parte con la stessa facilità degli altri bambini; quello che agli altri veniva naturale, per me era fonte di frustrazione, stress, senso di inadeguatezza.

Le regole mi parvero chiare fin da subito: o macho o femmina.

A tua sorella è concesso aver paura dei ragni, tu non puoi temere i serpenti né i topi né null'altro sia inverosimilmente pericoloso.

Ciò significa che avrei dovuto uccidere un ragno prima ancora che mia sorella lo vedesse poiché da sola lei non poteva farcela. In cambio, avrei goduto di privilegi a vita stabiliti conseguentemente alla tacita accettazione del mio genere attribuitomi in virtù del mio pene.
Nessun altro parametro: il pene.

via.

I due termini — femmina e macho — significano già di per sé qualcosa, determinano regole e comportamenti da tenere; giudizi di valore, virtù, vizi, concessioni, privazioni, soprusi concessi e diritti negati. L’esistenza di un individuo determinata su scala universale, in poche parole.
La ricerca femminista, in impropria sintesi, tenta di sbrigliare le corde di questi vincoli.

Quello dei femminismi è un terreno complesso, scivolosissimo, a tratti incoerente e finanche paradossale. Le studiose femministe hanno preso posizioni spesso in totale contrapposizione tra loro, fino a rischiare di vanificare gli effetti di quella che ad oggi rappresenta il punto massimo di una ricerca esistenziale e sociale che punta dritta alla piena (auto)percezione dell’io.

E arriviamo al caso di questi giorni: ArciLesbica Nazionale, @PolelifeandPussy, la tristissima presa di coscienza del fatto che per molt* femminist* la parola intersezionale sia ancora un concetto oscuro.

dalla pagina Facebook di ArciLesbica Nazionale

L’autrice dell’articolo rivendica, in sostanza, la necessità di “spazi” riservati alle sole donne, alle donne-quelle-vere. Per “spazi” l’autrice intende sostanzialmente i bagni e gli spogliatoi, perché è capitato, nei Paesi in cui i bagni per donne sono stati aperti anche alle trans MtF, che qualche uomo si sia finto trans MtF per entrare nei bagni delle donne e molestarle o violentarle. Ora non è dato sapere, statistiche alla mano, quanti casi del genere si siano verificati. Certo è che ne basta anche solo uno per farci incazzare tutte e tutti, questo è chiaro. Il punto è che sfugge il motivo per cui una donna cis dovrebbe incazzarsi con le persone transessuali perché dei maschi “cis” hanno invaso la privacy di un bagno per “femmine”.

PolelifeandPussy non merita di essere martoriata per il pezzo che ha scritto, se non altro perché di dichiarazioni al limite del delirante — come la sua, appunto — ne sono zeppi blog, riviste e manuali di stampo femminista. L’occasione è ghiotta, però, per sottolineare 3 cose che ArciLesbica dovrebbe ricordare, partendo da quella che vuole essere quasi una premessa:

  1. Il femminismo essenzialista fa male alla causa femminista
    Sembra scontato, sembra ormai una frase fatta, ma quei (ancora pochi) successi che sono stati prodotti dalla battaglia femminista non si devono neanche in minima parte a chi crede abbia senso una distinzione tra femmine di serie A e femmine di serie B. Per di più, il maschio-bianco-eterosessuale ha l’arduo compito di resistere alla tentazione di approfittare del suo status privilegiato che la società impone; e va incoraggiato a farlo, va educato affinché colga l’ingiusta casualità della sua posizione. Nulla, attorno a lui, gli suggerirà che è sbagliato servirsi del suo potere. Neanche le donne che per lui cucineranno, che saranno liete di sparecchiare, stirare, rinunciare al lavoro e poi alla propria opinione e in alcuni casi alla propria libertà. Maschio e femmina, entrambi educati a rispettare il proprio ruolo sociale, collaboreranno affinché il sistema patriarcale in cui sono nati si irrobustisca sempre più.
    E quando ci sarà un ragno sarà sempre lui a doverlo uccidere, anche se magari ha più paura di sua sorella (che invece si sentirà libera di scappare via urlando).
    Va specificato che l’obiettivo del separatismo femminista, almeno sulla carta, non è(ra) quello di escludere i maschi, bensì di sottrarsi al sistema di cui sopra. Avrebbe senso. Lo ha avuto, in parte, negli anni Ottanta, quando la lotta contro il patriarcato era diventata un’appendice di serie B rispetto a quella ben più grande, ben più virile, contro il capitalismo.
    Proporre tale soluzione anche per quanto riguarda una donna trans, però, significa annullare la sua specificità, assegnarle arbitrariamente un altro posto, rinnegare il suo ruolo non solo all'interno della battaglia femminista ma anche all'esterno, nel mondo, nella sua lotta quotidiana, fino a collocarla tra i confini di una sorta di ibridazione che, sebbene sia faticoso ammetterlo, è propria della transfobia.
    Tornando a monte, colpevolizzare il maschio in quanto tale, in nome di discutibili equazioni come “società maschile = violenza; società femminile = pace nel mondo” significa fare lo stesso gioco, semplicistico e pigro, di coloro che stiamo combattendo. Se la conseguenza sperata è quella di mandare in tilt la società patriarcale, inoltre, scioperare può aver senso a patto che qualcuno ne risenta. Ecco: la maggior parte degli uomini, produttori primari di patriarcato, ad oggi, non saprebbero dire chi siano o cosa pensino le femministe essenzialiste. Forse sarebbe opportuno cambiare approccio.
  2. Chi sono i maschi e chi sono le femmine?
    Parlavamo di pene. Fonte di incredibile potere e indiscutibile passpartout per una vita di privilegi, non è plausibile una concreta liberazione dal patriarcato se non tramite l’annientamento del senso che è stato attribuito al pene dalle società (capitalistiche) occidentali. Quello che risulta paradossale dell’articolo in questione — e anche piuttosto indicativo di una certa pigrizia di ragionamento — è che il fulcro essenziale delle perplessità dell’autrice siano proprio in merito all'avere o non avere un pene. Non solo si ricasca quindi nella (del tutto misogina) tendenza ad attribuire un significato a un corpo — anzi, peggio: ai genitali — ma la logica del ragionamento assume connotati ancor più patriarcali perché, secondo chi sostiene questa tesi, possedere un pene è potenzialmente determinante di un comportamento sessuale e questo comportamento sessuale è pericoloso (solo) per le donne cis. Per smentire questa conclusione, l’autrice dovrebbe eliminare del tutto il nesso tra stupro e trans negli spogliatoi.
    Se fossi una donna trans, la cosa che mi farebbe più incazzare di quell'articolo sarebbe la scelta di formulare un intero discorso bypassando intenzionalmente la matrice eteronormativa del patriarcato, come se le donne cis e le donne trans combattessero battaglie diverse, come se quel qualcosa in meno che la società ha sempre attribuito alle donne cis oggi fosse invece qualcosa in più rispetto alle donne trans, le quali devono arrendersi all'ennesimo atto di supremazia nei loro confronti. E non da un uomo misogino, né da una donna ineducata alla propria emancipazione. Ma da una donna che si professa femminista.
  3. Strumentalizzare lo stupro fa semplicemente schifo, ArciLesbica.
    L’autrice difende la propria posizione tramite il fatto di essere sopravvissuta a uno stupro. Tanto basterebbe a destinare le donne trans a spazi appositi per loro, secondo lei. Anche in questo caso le obiezioni sono molteplici: ammesso e non concesso che si riesca a stabilire un nesso tra il possedere un pene ed essere una stupratrice, può l’esperienza di questa donna essere il suo unico criterio su cui basarsi per proporre una mozione emarginante di un intero segmento della società? Inoltre, in che termini il pene delle donne trans incute timore a una donna sopravvissuta a uno stupro: per il solo fatto di esistere, o perché può essere lo strumento per un potenziale stupro? E in tal caso, sarebbe meno grave se una eventuale donna-trans-stupratrice frequentasse spogliatoi per sole donne trans come lei? Perché checché se ne dica, le donne trans sono potenziali vittime di stupro tanto quanto le donne cis.
    Al netto di queste osservazioni, il punto di vista di questa donna cis — che già dal titolo del suo articolo si pone come privilegiata rispetto alle donne trans — ricorda tanto l’approccio (apparentemente superato) di quelle donne bianche, benestanti e (non a caso) cis che per anni hanno parlato al plurale senza però considerare chi nei suddetti caratteri non voleva o non poteva riconoscersi. Parlo di afrofemminismo prima, femminismo postcoloniale poi e infine, per venire al fulcro del nostro discorso, di transfemminismo. La risposta è di natura intersezionale, e per dirsi femministe, sia PolelifeandPussy che il gruppo di ArciLesbica, dovrebbero sapere di cosa parlo.

Questo articolo è stato scritto volontariamente dopo aver lasciato il tempo ad ArciLesbica di scrivere un post di risposta alle critiche che hanno invaso la loro pagina Facebook.
Speravamo davvero in qualcosa di migliore: se l’accusa a monte era di transfobia, col post di risposta si aggiunge l’aggravante di aver strumentalizzato lo stupro di cui l’autrice dell’articolo è stata vittima; l’intenzione è quella di riportare il discorso ad una dimensione opportunamente condivisibile — chi si permetterebbe mai di opinare la brutalità di uno stupro? — per guadagnare terreno e dirsi a loro volta stupite di come il Movimento Identità Trans si sia speso per evidenziare i toni transfobici dell’articolo senza però nemmeno nominare lo stupro in questione. Ebbene: Femminismo (ahimè) non è ancora sinonimo di Transfemminismo, né tantomeno di Femminismo intersezionale; avrei preferito quindi che l’autrice dell’articolo — e così anche le amiche di ArciLesbica — non urlasse allo scandalo quando sono state formulate le prime accuse di transfobia. Anzi: giacché il discorso è forte, avrei preferito un chiaro posizionamento politico in merito alla questione, anche a costo di scendere a patti col proprio orientamento transfobico. Questa sorta di sostegno estromettente mi ricorda tanto quelli e quelle che accettano l’omosessualità ma non la condividono, quelli e quelle che ne fanno una questione di spazio privato e spazio pubblico, ovvero facessero quel che vogliono, ma a casa loro; lontano da me.
Ecco: qualcuno mi spieghi la differenza di queste esternazioni riconosciute da tutte e tutti noi come omofobe consì, va bene, ti sei autodeterminata come donna, ma tieni lontano il tuo pene dai miei occhi femministi”.
Ci risiamo, dunque.
Nessun altro parametro: il pene.

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Giovanni Mauriello
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